[DallaRete] L’avvocato Giuseppe Pelazza sul reato di devastazione e saccheggio
L’intervento dell’avvocato Giuseppe Pelazza sul reato di devastazione e saccheggio al convegno “Il Primo Maggio di Milano” del 26 Giugno 2015 al Teatro Verdi tratto dal blog Scateniamoli.
A me tocca di fare l’usuale discorso noioso sul diritto, mentre sarebbe molto più interessante cercare di approfondire i contenuti degli interventi precedenti; in ogni caso, interessante o noioso che sia, ritengo utile vedere la strumentazione che l’apparato di potere si dà nei confronti dei movimenti, comunque questi si sviluppino oggi.
Possiamo innanzitutto notare un aumento repressivo sul piano di normative che mai prima erano state applicate, aumento che può essere collocato tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo. Prendiamo il reato di devastazione e saccheggio. Perché si è avuto questo salto di qualità applicativa di un certo armamentario penale? Perché esiste un’intelligenza collettiva del nemico di classe – come si diceva una volta –, che studia i modi migliori per affrontare chi è antagonista, chi non è in linea con le aspettative del potere. Questa intelligenza collettiva si è resa conto a un certo punto che l’armamentario usuale del codice penale non bastava più. Qui può essere illuminante rifarsi a un esempio storico. Pensiamo a una manifestazione come quella del 10 Settembre 1994, seguita allo sgombero dell’allora occupato centro sociale Leoncavallo di via Salomone, nel corso della quale avvennero scontri e rotture di negozi, di automobili ecc. estremamente significativi. In quel caso la Procura della Repubblica di Milano si mosse sulla base del Codice Penale contestando la radunata sediziosa, che è un reato contravvenzionale blando, il danneggiamento, il porto di armi improprie, il travisamento e così via. Per inciso, la sentenza fu di assoluzione per la radunata sediziosa e il danneggiamento (perché non c’erano le prove). Il giudice nella sentenza scrisse: “Scoppiarono gravissimi disordini cui seguirono atti vandalici di inaudita violenza, posti in essere lungo tutta la via Turati fino a piazza della Repubblica e che lasciarono il cuore di Milano in condizioni simili a un campo di battaglia. Le fotografie i filmati e le deposizioni testimoniali hanno fatto emergere infatti uno scenario da guerra civile, che nessuna delle parti ha neppure lontanamente pensato di negare o ridimensionare”. Ci furono – le ho contate – più di 40 vetture incendiate e più di 20 tra sedi di banche e negozi e gravemente danneggiati, se non bruciati. Il tutto si concluse con alcune condanne e qualche mese di arresto per i reati contravvenzionali di danneggiamento e porto di armi improprie.
Col cambio della situazione complessiva, evidentemente, tutto ciò non basta più. È richiesto un comando più diretto, forte e immediato, non solo sul piano interno, ma anche sul piano internazionale. Questi due piani si legano, siamo alla stagione delle guerre. Ed è così che questa “intelligenza collettiva” dice: “Muoviamoci col 419”. Questo avviene, come già detto, sul finire degli anni Novanta e l’inizio degli anni 2000. Non è un caso che l’applicazione estesa dell’art. 419 c.p. (“Devastazione e saccheggio”) si abbia a Genova nel 2001. La violenza estrema di questo tipo di imputazione, che prevede pene da un minimo di 8 a un massimo di 15 anni, è il pendant di legalità formale alla violenza extra-legale, alle torture alla Diaz, a Bolzaneto e così via. Il potere ha l’esigenza di rispondere operando una forzatura delle norme del codice penale, in modo da azzerare gli spazi di agibilità politica. Perché dico “forzatura”? Perché è sufficiente leggere l’articolo in questione: “Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 285 commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni”.
È significativo che si dica “fuori dei casi preveduti dall’articolo 285” perché quest’ultimo punisce la stessa fattispecie della cosiddetta “devastazione e saccheggio” quando è compiuta per attentare alla sicurezza dello Stato (“Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo” (nella formulazione del 1930 era la pena di morte). Quindi la fattispecie deve essere di una gravità incredibile, non può consistere in una serie di danneggiamenti, nel qual caso bisogna applicare il reato di danneggiamento. È significativo il richiamo all’antecedente storico del Codice Rocco, il Codice Zanardelli, che anch’esso equiparava la devastazione, il saccheggio e la strage e puniva chi la volesse portare in una parte del Regno o volesse suscitare una guerra civile, con la reclusione da 3 a 15 anni. In ogni caso, conseguendo l’intento, la pena era da 10 ai 18 anni.
L’uso del reato di devastazione e saccheggio al quale stiamo assistendo è completamente al di fuori del nostro tessuto normativo perché la legge penale richiede che sia fatta un’interpretazione sistematica delle norme nel loro insieme alla luce dei princìpi costituzionali di ragionevolezza delle pene, di proporzionalità e di eguaglianza. Ciò significa che fatti di minor gravità non possono essere puniti con pene di maggior gravità, come quelle previste per fatti più gravi. Facendo solo un rapidissimo excursus su fatti analoghi, vediamo per esempio l’art. 420 (“Attentato a impianti di pubblica utilità”): “Chiunque commette un fatto diretto a danneggiare o distruggere impianti di pubblica utilità, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da uno a quattro anni”. Se poi ci fosse il danneggiamento o la distruzione dell’impianto, la pena diventa da 3 a 8 anni. Il massimo di questa fattispecie è uguale al minimo della devastazione e saccheggio. Così, ancora, abbiamo l’art. 429 (“Danneggiamento seguito da naufragio”): da uno a 5 anni e, “se dal fatto deriva il naufragio, la sommersione o il disastro”, da 3 a 10. Si può andare poi a vedere l’art. 432 (“Attentati alla sicurezza dei trasporti”): da uno a 5 anni e, “se dal fatto deriva un disastro”, da 3 a 10 anni. Vediamo, infine, l’esempio forse più eclatante, il reato di insurrezione armata, previsto all’art. 284 per cui “chiunque promuove un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato è punito con l’ergastolo e, se l’insurrezione avviene, con la morte. Coloro che partecipano alla insurrezione sono puniti con la reclusione da 3 a 15 anni; coloro che la dirigono, con la morte” (la pena di morte, dopo il 1945, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo).
Che cosa si deve intendere per insurrezione? Gli studiosi del diritto internazionale descrivono l’insurrezione come “una sollevazione in armi di grandi masse di cittadini, di notevole estensione e organizzazione, portata contro un determinato Stato, nella pienezza di poteri in un dato momento storico, e nel suo territorio” { Cfr. Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Volume 6, I delitti contro la personalità dello Stato, Libro II, Artt. 241-313, a cura di Ercole Aprile, Giovanni Ariolli, Francesco Nuzzo, Giuffrè, Milano, 2010, p. 323 }. Ed Ettore Gallo, insigne giurista che è stato anche presidente della Corte Costituzionale, nel definire i requisiti per la sussistenza della insurrezione ritiene “necessario che la sollevazione di masse in armi possegga tale consistenza di partecipazione anche territoriale da parte dei cittadini da doversi ritenere pericolosa per l’assetto dello Stato” { Ettore Gallo, Insurrezione armata contro i poteri dello Stato, in “Giustizia penale”, 1981, II, p. 243 }.
Quindi, per la partecipazione a un evento d’una portata tale qual è quella dell’insurrezione armata, la pena va da 3 a 15 anni, mentre per qualche macchina bruciata, qualche scritta e qualche negozio danneggiato il Primo Maggio si vuole comminare una pena che va da 8 a 15 anni. È già successo a Genova, è già successo a Milano per i fatti dell’11 Marzo 2006 (in quest’ultimo caso però si fece il giudizio abbreviato, furono riconosciute delle attenuanti e le pene furono quindi contenute). Siamo al di fuori di ogni regola di diritto.
E al di fuori di ogni regola di diritto, restando in tema di Expo, è anche la schedatura di massa di chi voleva lavorarci. In questo caso la violazione è addirittura clamorosa, un vero e proprio stravolgimento del meccanismo per cui ciò che costituisce divieto diventa obbligo. L’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori vieta di assumere informazioni sulle opinioni politiche e su qualunque cosa non attenga la capacità di svolgere l’attività per la quale il soggetto viene assunto? Ebbene, il contenuto di tale divieto nel caso di Expo diventa un obbligo, un obbligo che passa attraverso la Questura. Ho cercato di capire da che cosa possa nascere una simile inversione: probabilmente da un’applicazione tenuta riservata – non ho trovato riscontri precisi e puntuali – della legge sulla protezione civile del 1992, che prevede la possibilità di emanare provvedimenti extra ordinem, cioè al di fuori della legalità ordinaria, nei casi di emergenza nazionale. Nel 2001 ci fu infatti un decreto legge, promulgato in vista delle Olimpiadi di Torino, che parificò i grandi eventi alle situazioni di emergenza, permettendo di deviare dalla legalità e di prendere provvedimenti legati allo “stato di eccezione”. Questa legge che parificava i grandi eventi alle situazioni di emergenza fu abrogata nel 2012, però un successivo decreto legge fece salvi i decreti e i provvedimenti emessi in base a essa. Il Decreto Legge 26 aprile 2013 n. 43, poi, ha ribadito, ancora una volta, l’attribuzione al Commissario Unico per Expo 2015 di poteri di deroga alla legislazione vigente. Sono riuscito a reperire alcuni decreti e ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri in ordine all’esecuzione dei lavori in Expo, che infatti consentono di derogare a tutta una serie di normative in materia di edilizia, appalti e così via. Non ho invece trovato provvedimenti autorizzativi della deroga all’art. 8 Statuto, perché secondo me se ne vergognano o non li hanno neppure fatti. Il Commissario Unico di Expo si deve essere sentito quindi legibus solutus, al pari degli organi prefettizi e della Questura.
Sempre in tema di forzature giuridiche, a proposito del Primo Maggio, possiamo ricordare anche quelle sull’utilizzo di prelievi del Dna. Occorre prestare attenzione, perché con una norma che nega in sostanza l’art. 349 del Codice Penale, si possono fare prelievi coattivi di saliva, sangue, capelli o che so io. Siamo all’invasione dei corpi dei cittadini da parte del potere, in modo diretto.
Questo è il quadro con cui abbiamo a che fare. Le conclusioni le lascio in carico all’assemblea, ché io non sono in grado di trarle da solo. Sulle tematiche sollevate prima, posso solo dire che io sono vecchio, ormai, e il discorso dell’extrapolitica non mi convince. La politica c’è, è nelle cose; anche volendo fare extrapolitica tu compi un’azione che ha un significato politico. Secondo me l’azione politica è sempre necessaria. Allora su questo piano, dal mio punto di vista di avvocatucolo, ritengo che alla pratica del massimo livello possibile di resistenza e opposizione vada abbinata la capacità di non farsi rinchiudere negli steccati, pena la sconfitta.
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