[DallaRete] Miliziano Is: «Così siamo entrati dalla Turchia»
I miliziani di Isis che sono entrati mercoledì notte a Kobane venivano dalla Turchia. La negligenza con cui il governo turco controlla la sua frontiera è di per sè una scelta politica che ha l’effetto di garantire uno spazio informale che concede allo Stato islamico di fare della Turchia una base operativa. Nei villaggi intorno a Tel Abyad riconquistati dai combattenti kurdi ai jihadisti, i combattenti Ypg ci hanno mostrato tessere della Hamilton public library e transazioni presso la Bank Asya a confermare che chi gonfia le fila dello Stato islamico si muove liberamente in Turchia.
Yasser Melham Altuba, 31 anni, è un ex soldato dello Stato islamico. Si è consegnato alle forze Ypg ad Hamis, nella provincia di Der-Zor all’incirca tre mesi fa in vista della grazia che i Ypg avrebbero concesso ai soldati locali che si fossero arresi. Yasser ci racconta di come, nella città di Tel Hamis, i miliziani di Isis hanno stretto un patto con il direttore dell’ospedale locale per la cura dei soldati feriti, e che «chi non poteva ricevere assistenza a Tel Hamis, veniva portato in Turchia».
Abbiamo incontrato Yasser a Qamishli, città orientale della Rojava, connessa al cantone di Kobane dopo la presa di Tel Abyad di dieci giorni fa. Era insieme al fratello Yammamy, 21 anni, e Nagi adb-Alhamit, 37. Tutti e tre erano soldati semplici nelle fila di Isis. I tre si sono arruolati con Isis per ragioni economiche: «un soldato semplice non sposato riceve 200 lire siriane (meno di un euro) a settimana; un soldato semplice sposato riceve 400 lire siriane (quasi due euro) a settimana più macchina e qualsiasi cosa voglia», ci spiega Yammamy.
I foreign fighters vengono pagati invece in dollari. I combattenti stranieri che si arruolano nelle fila dello Stato islamico ricoprono posizioni di responsabilità sia nella struttura militare sia nella struttura giurico-religiosa. Yasser ci racconta in particolare dell’armata del Califfo, chiamata Abu Gendel al-Quwadi, finanziata dagli Emiri degli Stati del Golfo. Era composta da 500 foreign fighters provenienti da tutto il Medio oriente. «Gli stranieri utilizzavano l’artiglieria pesante, noi locali eravamo armati solo di kalashnikov e spesso eravamo la prima fila negli assalti», rivela Nagi abd-Alhamit.
La giurisprudenza ripropone le categorie della religiosità riformulandone i contenuti. Per esempio, «haram» non sono solo i peccati così indicati nel Corano e nella Sunna: «haram» è chiamata ogni inflazione del codice di leggi imposte dall’Isis. Rifiutarsi di andare a pregare in moschea è «haram». Nella piazza di Tel Abyad, per esempio, tre uomini sono stati condannati a morte e sgozzati solo perché si rifiutavano di pregare in moschea. «Per esempio peccato è stato anche il gesto di un padre di rifiutare la proposta di matrimonio presentata a sua figlia dal noto qadi tunisino, Mussaf el-Tunis. E per questo è stato arrestato», come ci racconta Yasser.
In un piccolo villaggio di un centinaio di abitanti nella campagna del Kurdistan siriano (Rojava), appena prima della trincea, raccogliamo le prime testimonianze di arruolamento forzato dei giovani abitanti; gli spari sui muri sono i segni di un’esecuzione servita a convincere i più reticenti.
Amune, una signora di circa 70 anni, ha sempre vissuto qui. «Una volta arrivato l’Isis non era più possibile fare nulla». Ci indica un forno ricoperto di fango. Lì le donne facevano il pane e quando l’Isis era al potere anche questo era vietato insieme ad avere il posacenere dentro casa, le sigarette, la musica, la barba non curata secondo i canoni stabiliti e i pantaloni alti o lunghi fino al polpaccio. «Non eravamo liberi di vivere la tradizione così come la concepivamo», valuta Haled, abitante dello stesso villaggio. «Qui gli ufficiali di Daesh venivano, controllavano ed andavano». Riscuotevano le tasse sul raccolto. A volte partecipavano alla preghiera nella moschea e lì prendevano parola dopo la lettura dei testi guidata dai due imam: uno nominato dall’Isis in aggiunta all’imam del villaggio.
In altre parole, lì dove l’Isis ha imposto il suo controllo, non c’è stato nessuno stravolgimento nella struttura sociale. Gli esponenti di spicco del villaggio e della città rimanevano tali, legittimati dal discorso religioso. La religione e la tradizione non è la causa, piuttosto uno strumento, utilizzato strumentalmente per legittimare una determinata struttura di potere voluta dai jihadisti.
http://ilmanifesto.info/parla-un-combattente-is-ora-prigioniero-dei-kurdi/
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