Genova. Per sempre – Intervista con Xina

-Ci fai un quadro della tua militanza politica ai tempi del G8 di Genova?
Nel 2001 facevo parte di una comune urbana chiamata Pergola Tribe. Un gruppo di agitatori culturali e politici con sede in uno ampio spazio autogestito, nel centro di Milano.
La nostra casa era un crocevia di individui e gruppi internazionali, militanti e artisti con cui si creava una interessante sinergia.
In questo contesto avevamo vissuto gli scontri di Seattle per la conferenza OMC del 1999 dai racconti dei travellers che arrivavano da lì.

-Tu vieni dalla storia antagonista degli anni Ottanta. Dall’esperienza del Virus. Trovi delle affinità tra la tua generazione e i ventenni di Genova?
È difficile rispondere a questa domanda. In realtà il movimento punk fu una rottura completa con tutti gli schemi e inoltre eravamo molto più piccoli d’età.
I ragazzi che andarono a Genova erano relati al movimento antagonista, avevano cognizione di quello che stavano facendo. Avevano coscienza degli specifici argomenti che volevano determinare con le loro lotte.
Il punk era più incosciente, selvaggio. E anche se il Virus fu in grado di organizzare l’energia prorompente di un gruppo di ragazzini, raccogliendola intorno a un progetto, a una visione libertaria e rivoluzionaria collettiva, di base l’essenza rimase quella.

-Ci racconti la nascita di Operazione Makaya vista, per così dire, dall’Isola?
In preparazione alla manifestazione di Genova contro il G8, insieme ad un gruppo di attivisti dei centri sociali milanesi, ci ritrovammo a pensare ad una modalità di partecipazione che fosse utile, pratica e al tempo stesso effettuale. Ricordo i primissimi incontri pubblici al Deposito Bulk per definire la logistica e le strategie: eravamo tutte sorelle e fratelli con i quali negli ultimi anni avevamo condiviso pratiche antagoniste innovative.
Mentre altre realtà si preparavano a gestire la piazza nei termini di scontro e difesa, noi ci proponemmo come presidio mobile di aiuto e sostegno personale. Avremmo seguito il percorso della manifestazione del 20 luglio con carrelli contenenti tutto il materiale necessario per un primo intervento sanitario.
Personalmente, grazie anche ai vitali suggerimenti di alcuni fratelli ospiti nel nostro centro (tra cui il fantastico Ming) che avevano appena vissuto la realtà drammatica di Seattle, puntai molto sulla necessità di calmare crisi d’ansia o di panico. Decidemmo quindi di premunirci di Rescue Remedy, un rimedio d’emergenza naturale, al fianco di garze-cerotti-fisiologica e disinfettanti.
Come Pergola Tribe garantimmo inoltre un supporto informatico, di controinformazione interna ed esterna e di divulgazione internazionale nella rete in tempo reale. Questo grazie al LOA hacklab attivo sul portale di Indymedia.

L’occupazione di Pergola nel quartiere Isola durata dal 1990 al 2009

-Quando scendi a Genova? Dove dormi?
Il 18 luglio quando arrivai allo Stadio Carlini era già sera. Giusto il tempo di montare la tenda con Alessandra, la mia compagna di Pergola, e ci dirigemmo in perlustrazione del posto. Il Carlini era come una bolla di magma in fermento: un microcosmo di creature vive, attive. Gruppi in discussione, riunioni di collettivi che condividevano la stessa inflessione dialettale, training di Tute Bianche. Girovagando fra le tende e i capannelli di persone si aveva la sensazione palpabile che un mondo nuovo fosse davvero possibile.

-Partecipi al corteo dei migranti?
La stessa sensazione la ebbi il 19 alla grande manifestazione per i diritti dei migranti.
Un fiume di persone diverse ma unite da un ideale comune. Belle, tante, impetuose.
Dai monaci tibetani ai lavoratori con le tute della fabbrica, le femministe e i frati comboniani, i bambini delle scuole, gli studenti. Mi ricordo che piansi dalla gioia: avevo partecipato al Social Forum ma ora avevo lì davanti ai miei occhi la fotografia di quell’universo variegato di cui avevo l’onore di far parte.

-Con che stato d’animo arrivi alla mattina del 20 luglio?
Devo fare una premessa perché si capisca meglio questa narrazione.
Lo scenario entro cui ci muovevamo era stato deciso a priori da Governo, Forze dell’Ordine e apparati di sicurezza in collaborazione sovrannazionale.
Genova era considerata un territorio di guerra, con i potenti della terra protetti da una zona recintata e fortemente militarizzata. Tutto ciò era stato altamente pubblicizzato dai media che da mesi preannunciavano scenari funesti.
Viaggiavamo su due binari. Quello gioioso, con la potenza rivoluzionaria delle nostre proposte, fieri di essere stati in grado di unire le mille anime del caleidoscopio antagonista. Dall’altro versante c’era la consapevolezza che questa volta l’apparato repressivo avrebbe azionato ogni mezzo per fermarci. Perché eravamo davvero un pericolo, una minaccia vera al sistema liberista. Noi, con le nostre analisi, i progetti, le idee e i programmi.
Quindi la mattina del 20 era come se risuonassero tamburi, un cupo richiamo a cui risposi mettendomi in marcia insieme agli altri.

-Il 20 luglio dove ti trovi?
Con il mio carrello e lo zainetto pieno di materiale procedevo lungo il percorso del corteo della Disobebdienza, un occhio ai miei compagni del Progetto Makaja con i quali si andava più o meno in cordata. Si stava sui lati a distribuire acqua, fermandoci a salutare ogni tanto amici provenienti da tutta la penisola.
Eravamo arrivati in via Tolemaide quando i Carabinieri iniziarono le cariche. Eravamo imbottigliati, le prime file cercarono di attutire le cariche per far defluire la gente. Mi ricordo che corsi in avanti fino agli scudi di plexiglass, volevo capire cosa stesse accadendo. Fu questione di attimi, quando tornai indietro non trovai più i miei compagni. Un tipo toscano mi prese per il braccio tirandomi dentro un portone, mi sembra fosse il numero 5. Sulle scale del palazzo c’era gente ferita ma per la maggior parte con problematiche date dai lacrimogeni. Iniziai a pulire occhi con la fisiologica, diedi il mio Ventolin a chi non respirava. Mettevo sotto la lingua a tutti 5 gocce di Rescue Remedy e abbracciavo chi proprio non riusciva a calmarsi. Intanto alcuni compagni sul portone acchiappavano quelli che riuscivano. Fuori era iniziato il massacro.

-Come vieni a sapere della morte di Carlo?
“You have to come with me. Now! There’s an injured person”.
Queste sono le parole che mi disse un giornalista del Guardian facendomi segno di seguirlo in strada e, tenendo alto il tesserino appeso al collo come uno scudo, uscimmo. Abbiamo fatto una corsa lungo la via fino a girare in via Caffa e ci siamo ritrovati nella piazza.
Intorno l’inferno: gente che urlava, correva, rumori di sirene.
Sono riuscita ad avvicinarmi a pochi metri dal corpo a terra, dove c’era uno della Reuters. Era un ragazzo con la canottiera bianca, ma immediatamente è stato dato un ordine e i Carabinieri si sono posizionati in cerchio formando un girotondo macabro intorno al corpo che, pian piano ho realizzato, non era ferito.
“Lo avete ammazzato!” urlavamo isterici dai gradini della chiesa, su cui salimmo spinti dalla Polizia che era palesemente in panico.
E in quei momenti ho capito che l’unica cosa da fare era salvarsi e cercare di portare con me più gente possibile.
Tornai verso il portone in cui ero dicendo a chi trovavo che la situazione esterna è estremamente pericolosa: “Facciamo branco, stiamo compatti e muoviamoci verso la sede del Genoa Social Forum”.
Mi ricorderò sempre un gruppo di ragazzi che aveva scavalcato un cancello e si era accovacciato nel giardino interno pensando di essere al sicuro. Sono stati arrestati, picchiati a sangue. Li ho rivisti durante i processi.
Noi invece attraversammo la città in uno scenario distopico, mai visto prima. Camminavamo al centro delle strade o rasente i muri, nell’aria c’era odore di bruciato per terra c’era sangue.

-Dove ti posizioni nel corteo del 21 luglio?
Tutto quello che è accaduto il giorno seguente l’ho vissuto in uno stato di intorpidimento. La rabbia che avevo dentro mi diede la forza per continuare a marciare, scappare dalle cariche. Ma il pensiero era fermo lì, sul selciato di piazza Alimonda, accanto a Carlo Giuliani.
Alla fine della giornata decidemmo di tornare in Pergola e di non dormire alla Diaz.

-Nei giorni successivi al G8 Pergola diventa una sorta di hub aperto h24. Che ricordi hai?
Pergola diventò il quartiere generale dell’Indymedia Center, ospitando in una sala attrezzata, per tutto il periodo, giornalisti, avvocati e parenti. Si formò il gruppo di assistenza legale con l’avvocato Mirko Mazzali e tutti gli altri. Ospitammo parenti che arrivavano dall’estero.
La situazione era concitata ma si ebbe la capacità di reagire immediatamente e di mettere in piedi un percorso di assistenza legale e di denuncia delle brutalità attuate dalle Forze dell’Ordine.

-Cosa ti ha lasciato il luglio 2001?
Sai qual è la mia più grande amarezza? È che noi avevamo ragione e la storia ce ne ha dato atto.
La devastazione del nuovo ordine mondiale è sotto gli occhi di tutti. Lo sfruttamento esagerato delle risorse del pianeta, il disequilibrio ecologico.
Il flusso delle migrazioni di uomini in fuga da guerre e povertà. I nuovi fallimentari paradigmi del lavoro.
Eravamo riusciti a comporre un percorso fattibile, partecipato.
Stavamo scrivendo un nuovo pezzo di storia e ci hanno fermato con la violenza più estrema.

* foto in copertina di Manuel Vignati

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2 risposte a “Genova. Per sempre – Intervista con Xina”

  1. Giuseppe Musolino ha detto:

    All’interno di altre iniziative che stiamo organizzando, vorremmo ospitare Xina a Varese.
    Si comincia martedì 20 con un presidio.
    Grazie.

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