Genova tra femminismo, tecnologie e desideri di libertà – Intervista con Hanay
-Nel novembre del ’99 esplode la contestazione di Seattle, si comincia a parlare di No-global e di tematiche planetarie. Di cosa ti occupavi all’epoca e come hai reagito a questa nuova ondata?
Nel ’99 si tiene a Milano il secondo Hackmeeting, il raduno annuale delle controculture digitali italiane, il primo era stato fatto a Firenze l’anno precedente.
In seguito a questo grande evento collettivo prende avvio l’esperienza degli hacklab, quello del Bulk si chiamava LOA.
Ho sempre pensato fosse un omaggio alla Trilogia dello Sprawl di William Gibson, pietra miliare del cyberpunk, potrei sbagliarmi ma non credo. I Loa sono gli spiriti del vudù afroamericano, gli intermediari tra il mondo umano e quello sovrannaturale.
Nel romanzo i Loa sono in grado di attraversare e proliferare nello spazio “intermedio” della matrice e determinare le sorti dei protagonisti. Il cyberpunk aveva una relazione quasi animistica con le macchine e aveva scelto la musica dub reggae come dimensione psichica per trasportare la tradizione magico religiosa più “roots” nella sfera rarefatta della rete di Internet. Ovviamente eravamo tutt molto influenzati dall’immaginario di quella letteratura. Ne abbiamo fatto spontaneamente una nostra versione che teneva insieme hacking, politiche sociali e drum’n’bass. Non è un caso che il maggiore punto di accumulazione dell’onda sia avvenuto in Pergola.
Comunque, tra il primo e il secondo Bulk (fine ’99 inizio 2000 – Ndr) ho iniziato a frequentare un po’ l’ambiente dell’hacklab.
Nel frattempo tra amiche attiviste del movimento studentesco e del Bulk maturava l’idea di occupare un posto nostro, solo di ragazze. Per quanto il femminismo non fosse un movimento diffuso e organizzato, noi eravamo sicure che la pratica femminista ci avrebbe dato delle risposte.
Così abbiamo deciso di occupare SheSquat. Quest’anno festeggiamo anche quel ventennale.
Da quell’esperienza è nato poi un altro gruppo, questa volta non separatista, che si chiamava XX(Y), cromosoma mutante, che si sviluppa a stretto contatto con un gruppo di hacker del secondo hacklab ReLOAd, quello di Pergola.
È una storia molto densa che per me va idealmente dal ’99 al 2005, perché nel 2005 viene pubblicato il primo libro di Ippolita, un gruppo di ricerca indipendente che mi vede al suo interno, che viene fondato in Pergola proprio all’incrocio di più esperienze: le controculture, l’hacking e il femminismo.
Il gruppo Ippolita ha firmato una serie di pubblicazioni dedicate all’analisi e alla critica delle tecnologie digitali tradotte e apprezzate a livello internazionale.
Attualmente il collettivo gestisce anche una collana di libri dal taglio intersezionale che si chiama Culture Radicali per Meltemi editore, idealmente dedicata all’hacking del sé cioè alla capacità di autodeterminarsi in modo creativo attraverso e oltre la tecnologia.
-Come siete sces* a Genova? Dove alloggiavi?
Siamo scese con un treno collettivo, siamo arrivate allo stadio Carlini, ma io non ci sono rimasta sempre, perché la mia permanenza a Genova si è protratta oltre rispetto a quella di Makaja, che era la nostra comunità di riferimento.
Ho dormito a casa di amici fotografi, giornalisti e “cani sciolti” che avevano deciso di rimanere lì anche per capire cosa stesse succedendo in modo più generale.
-Genova è il primo evento politico di rilievo con una copertura mediatica interna al movimento; come si costruì il percorso che portò al Media Center? Qual era il ruolo di Indymedia in quei mesi e quale il tuo all’interno di Indymedia?
Tutto nasce dalla scena hacker italiana; Indymedia arriva in Italia perché ci sono degli hacklab politicizzati che possono farsi carico del progetto Indymedia dal punto di vista tecnico.
Allo stesso tempo la marcatura di Indymedia è peculiare e prescinde l’hacking, è connotata da un legame con l’audiovisivo e le sue tecniche. C’era una cultura diffusa della ripresa e del montaggio che nasceva a stretto contatto con le esperienze dei cortei, presidi, le piazze e il suo conflitto.
In qualche modo c’era una cultura politica pronta ad accogliere l’esperienza di Indymedia che passava dai videomaker e dalla fotografia.
La figura dell’hacker e quella del videomaker si influenzano a vicenda dando vita alla figura del mediattivista.
Anche a SheSquat riprendevamo le nostre riunioni e i momenti collettivi, ci sono ore di girato in cui in quel momento era inevitabile esserne coinvolte, la presenza delle videocamere così a portata di mano distruggeva il linguaggio visuale in modo quasi psichedelico, sarebbe davvero interessante riprendere il discorso su questo.
Ero iscritta alla lista di Indy, ma non avevo un ruolo attivo. L’esperienza collettiva che stavamo facendo ci spinse a sperimentare molte forme di scrittura collettiva che certamente hanno influenzato il lavoro successivo del gruppo Ippolita.
-Nelle giornate precedenti ai cortei cosa si facevi? Si cercava di smorzare i toni della stampa (che parlavano di bombe, sangue infetto…) o si buttava benzina sul fuoco?
Nessuno di noi sapeva che ci sarebbe stato il delirio, sapevamo che ci sarebbero stati degli scontri ed eravamo preparati a gestirli in modi diversi dando la possibilità a tutti di stare all’interno del conflitto con modalità diverse, e le piazze tematiche dovevano servire a far sì che le persone si collocassero in delle zone confacenti al proprio modo di vivere lo spazio politico. Da parte nostra le giornate precedenti sono state gestite cercando di non escludere nessuno.
Eravamo soprattutto concentrati sull’organizzazione interna del movimento e sull’andare e tornare insieme, era cura della propria comunità, tenersi insieme e non sfilacciare gli elementi performativi pensati. La stessa Makaja conteneva formule performative diverse.
Detto questo, riconoscendo cioè lo sforzo delle mie compagne e compagni, io ero in rotta di collisione con l’autorganizzazione così come l’avevo conosciuta sino a quel momento.
Blindarmi dentro Makaja e rispondere alle esigenze di comunità era fuori discussione.
Vivevo un momento di ribellione che mi rendeva insofferente a ogni schieramento, gerarchia militante, ruolo simbolico, catechesi sul lavoro e sul reddito.
Ricordo che mi organizzai tra gli altri con i ragazzi del Folletto di Abbiategrasso e con un amico fotografo Mauro Bottaro che aveva una Vespa, andammo insieme in giro per tutta Genova per guardare, verificare e comunicare cosa stesse succedendo nelle altre piazze che erano estremamente eterogenee tra loro: dagli elfi che facevano la pizza, agli scout, ai Black Bloc, il mondo queer e gli animalisti, gli scontri, ovviamente.
Era impressionante la ricchezza di contenuti rappresentati in quei giorni.
Genova ha cambiato le nostre vite non solo in senso collettivo, ma anche individuale, per esempio io nel periodo successivo agli scontri, e alle torture subite da molti di noi, sono diventata vegetariana. E all’epoca era una cosa davvero poco diffusa.
-Hai partecipato ai cortei? Che rapporto avevi/hai con la violenza?
La risposta formale sarebbe: “Siamo contro la violenza, ma siamo per l’uso della forza” perché esiste un forma di autodeterminazione che passa anche attraverso il conflitto fisico e l’autodifesa. Questo racconta molto dell’esperienza di Genova e del femminismo nel quale mi riconosco. Per me era un tema importante, come stare nel conflitto in modo creativo senza abbruttirci? Non sono una pacifista anche se ammiro molto chi mette in pratica il pacifismo. Non è mai stata la mia storia, avevo in testa l’immaginario delle Black Panthers, forse perché mi permetteva una via di fuga da quello della lotta armata italiana che in qualche modo aveva attraversato la storia della mia famiglia e con cui io non volevo confrontarmi. Si rivolgeva lo sguardo anche all’Esercito Zapatista di Liberazione (il movimento che portò a Genova era davvero internazionale) ma lì i compagni* parlavano chiaro: “Non venite a fare lo zapa-turismo, fate conflitto nei vostri territori”. Un consiglio decoloniale di cui tener conto.
Certamente mi riconoscevo anche nel Pink Bloc, per quanto non fossi esteticamente compatibile.
Dal Pink Bloc al Fuxia Vax esistono delle linee di continuità. Il movimento transfemminista di oggi è stato l’unico per esempio a dichiarare “Italia zona fuxia” e a invadere la zona rossa.
A mettere in discussione il succedersi irrazionale dei Dpcm, raccogliendo proprio il testimone di chi ha sfidato lo stato d’eccezione a Genova nel 2001. Ammiro molto i movimenti transfemministi e queer che sono nati nell’ultimo decennio.
-Come hai saputo della morte di Carlo?
Ero al Media Center della scuola Pascoli, arrivò Gabrio che aveva fatto una foto a Carlo Giuliani morto. Credo proprio che la foto fosse sua, spero di non sbagliarmi. Era una foto terribile e potente. Ci fu un momento di shock e discussione fra noi se renderla pubblica o meno, il problema etico era difficile da gestire. Eravamo sempre pronti a ragionare di semiotica in un modo strettamente legato alla realtà, non erano mai pippe. Tutti i discorsi sulle immagini, sui simboli, sulla comunicazione, erano concreti. Infatti quando arrivò quella fotografia non fu immediatamente resa pubblica ci fu una lunga discussione. Anche per la responsabilità di quello che sarebbe accaduto subito dopo. Eravamo sotto shock. Sono felice di aver vissuto quel momento potendone parlare con gli altri.
-Come hai vissuto l’irruzione alla Pascoli e alla Diaz? Cosa pensi che si sarebbe dovuto fare? Hai provato risentimento verso chi decise di salire sui treni per andarsene mentre era in corso la mattanza, pur sapendolo, cercando in qualche modo di tutelare la collettività in quel momento ignara di quello che stava accadendo? Pensi sia stato giusto il fatto di tornare su a Milano?
La domanda è politica, per cui rispondo solo se la domanda stessa viene citata nell’intervista, perché contiene in sé già una parziale risposta.
Io sono rimasta lì quando i treni sono partiti.
Ricordo di aver salutato i Makaja molto preoccupati del fatto che rimanessi e quella notte poi ci fu la mattanza alla Diaz. Io dormivo a casa di amici e avevo bisogno di sentirmi autonoma dal gruppo e avere un punto di vista individuale su quello che stava accadendo.
Il trattamento alla Pascoli e quello alla Diaz furono molto diversi tra loro, gli italiani alla Pascoli furono trattati con una certa attenzione dovuta alle molte videocamere presenti, mentre alla Diaz che era a maggioranza di stranieri non ebbero nessun freno.
Quando sono arrivata la mattina seguente tra le due scuole, ho trovato molti internazionali sotto shock che non erano più disponibili a venire con noi in treno e a fidarsi. Anche perché noi in quel momento non avevamo più avvocati, abbiamo fatto dei treni improvvisati. Però dovevamo portarli via da lì, tornare a Milano. Quando siamo riusciti a tornare a Milano, ad aspettarci c’erano i compagni che erano andati via nei giorni prima. Eravamo con tutte le persone che eravamo riusciti a convincere.
Il pomeriggio prima dell’irruzione ricordo di essere entrata alla Pascoli e di aver fatto un giro su tutti i piani per vedere come buttava la situazione delle presenze, ricordo di aver visto alcune personalità di spicco del GFS smontare fisicamente l’ufficio stampa. Chiesi cosa stessero facendo e perché e mi risposero che non c’era più nessuna “copertura politica”, si doveva andar via da lì. Ho provato rabbia e vergogna per quel gesto.
Altri alla Pascoli decisero di restare, anche con una certa spocchia, ed io lo capivo, c’era desiderio di tenere il presidio, ma mi irritava l’atmosfera vagamente eroica che si respirava. Qualcuno mi chiese se volevo una pizza d’asporto, come a dire: “Sei dei nostri o te ne stai andando?”.
Alla scuola Diaz invece non sapevano nulla, ci sono tornata il giorno dopo, non so quale fosse il clima nel tardo pomeriggio/sera, quando la gente è partita per Milano. Non ero andata con chi era partito, ma non volevo stare con chi teneva il fortino nella sicurezza dei nostri potenti mezzi di comunicazione.
Insomma volevo stare in zona, ma non avevo più un gruppo.
Non ero in grado di influenzare l’organizzazione politica, ma ero consapevole di quello che stava succedendo e questa consapevolezza non mi permetteva di sottrarmi.
Forse è stato in quel momento che sono diventata anarchica, (ride) perché sono diventata un’individualità!
Il giorno dopo ero con altri e ho organizzato con loro i treni per portare gli stranieri a Milano, e non mi sono sentita di contrappormi a nessuno. Né a chi partiva, né a chi restava. Ricordo fra gli altri la Francesca Balbo, ero grata che fosse lì.
Non ho rimproveri da fare ai compagni che sono andati via il giorno prima, lo capisco perché eravamo abituati a stare sempre in gruppo e avevamo un’organizzazione anche troppo strutturata, avevamo già perso le tracce di alcuni che erano della cerchia un po’ più ampia.
Chi doveva rimanere a presidiare la Diaz, erano i parlamentari e il Social Forum, perché si sapeva che tirava una brutta aria e loro sono tornati sul posto solo a cose fatte. Certo, menomale che sono tornati, ma sarebbe stato meglio dare continuità al presidio politico e distribuire gli “istituzionali” in tutti i luoghi di raccolta dei manifestanti.
-Di Genova si hanno migliaia di ore di girato e numerose prove che dimostrano ben più di quanto processato. Credi che si potesse arrivare a condanne più gravi per funzionari e Forze dell’Ordine? Quanto le Torri Gemelle hanno oscurato il dibattito sul G8? Quale lo stato di salute del movimento subito dopo il G8?
Dopo Genova ho pensato che per combattere una guerra non convenzionale ci volessero delle armi non convenzionali.
Indymedia per quanto fosse una delle esperienze di autonomia diffusa più esaltanti che avessi mai sperimentato non mi bastava, volevo andare alla fonte, che è il motivo per cui ho iniziato a frequentare davvero l’hacklab.
La vedo prospetticamente attraverso le tecnologie. Mi sono detta, se devo combattere, se questo è lo scenario non posso starci inerme. Per starci devo acquisire delle competenze nuove e queste competenze per me erano a disposizione nell’hacklab.
Il gruppo Ippolita è nato proprio per disinnescare la retorica della tecnologia salvifica e il sorgere di quella che Donna Haraway già all’epoca definiva l’informatica del dominio. Nel 2000 Google è entrato in borsa perché aveva il miglior “target utente”, era cominciata l’era del profiling, cioè l’economia del controllo sociale.
I mediattivisti si sono concentrati troppo sulla comunicazione e a hanno lasciato indietro la critica tecnopolitica.
Genova ci ha fatto vedere per un attimo la guerra. Ho un’amica libanese che ci prendeva per il culo, mi chiedeva: “Quanti ne hanno ammazzati? Solo uno e siete così traumatizzati?”.
Uno. Poi ci sono stati i rastrellamenti e le torture a Bolzaneto. Per un attimo abbiamo visto davvero cosa significa stare nella guerra e ci siamo cagati addosso, perché alla fine eravamo dei bravi ragazzi della borghesia milanese per quanto… non tutti e forse migliori di altri (ride), come dice Pino Tripodi eravamo “l’ultima nidiata”. Genova è servita a spazzarci via? Sicuramente ci ha dato una bella mazzata, ma non direi che abbiamo perso, direi che siamo entrati nella storia. Nel senso, ci sono stati anni importanti a Milano, con la Mayday, gruppi femministi essenziali come il Sexyshock di Bologna, non metto in discussione questo, ci sono stati una decina d’anni dopo Genova davvero belli, Penso a Yo Mango a Barcellona e Serpica Naro a Milano, ma non c’è più stata la capacità di convergere il fuoco a livello così di massa.
-Forse si è instaurata una sorta di sfiducia perché da un lato lo scout si dissociava dalla violenza dell’autonomo che andava oltre le sue propensioni di lotta, dall’altro gli stessi autonomi avevano un certo freno forse a causa della consapevolezza di quanto il potere potesse spingersi oltre con il controllo e la repressione, specialmente dopo le Torri Gemelle? Quanto la guerra al terrorismo e la paura di essere equiparati a terroristi ha portato molti a tirare il freno a mano?
Stai aprendo scenari importanti. Da una parte ci fu la sensazione di dover agire con il freno a mano tirato, perché c’erano state le Torri Gemelle sì, perché c’era stata una fortissima repressione e non si riusciva nemmeno più a prendere un treno collettivo. Ad un certo punto non abbiamo più potuto prendere un treno gratuitamente e liberamente. Non si poteva più, non c’era più libertà di movimento.
Allo stesso tempo, però, curiosamente, ci fu un lungo periodo di quella che fu definita l’egemonia culturale del Black Bloc, dove si alimentava un altro scenario di conflitto internazionale diffuso molto legato alle questioni ecologiche e alla tecnologia – perché tutto l’ambiente tecnico e ecologista è sempre stato di propensione più libertaria. Il riot alla berlinese, mordi e fuggi, per intenderci, è diventato più diffuso. Un movimento più molecolare e meno strutturato. La felpa nera col cappuccio era un simbolo di identificazione no-global. Ciò ha mantenuto viva una prospettiva di conflitto italiano e internazionale.
Ma questa è una storia che riesco a mettere a fuoco meno perché nel 2008 me ne sono andata. Molte e molti stavano andando verso la Spagna, c’è stata una sorta di micro-emigrazione. La mia prima tappa è stata Palermo, forse a cercare le mie origini.
Lì, nel tema dell’andarsene, c’è un altro pezzo di riflessione, quello del saper morire e togliersi di mezzo, del lasciare spazio a quello che deve nascere e non rimanere attaccati al ruolo politico che si ha nella propria comunità. Ad un certo punto ho capito che non volevo diventare un’eminenza grigia dei centri sociali. Ho pensato che dovevo levarmi di torno. Meglio la libertà di non essere più nessuno.
Ma non intendo dire ritirarsi a vita privata, fare una bella famiglia eterosessuale e bon. No, andarsene vuol dire dire proseguire il cammino.
C’era qualcosa che doveva morire e serviva spazio per il nuovo. Ippolita è stata l’unità minima di trasporto che potevo mettere nello zaino. Quando sono andata via da Milano ho percepito che stavo come rompendo il fiato di una corsa e andando oltre una barriera invisibile.
* foto in copertina di Enrico Antonello
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