Mangiamoci Expo – Un antipasto

193951266-968ba3a2-7e1d-44d4-9332-422b249d6fa6Intervista a Domenico Finiguerra sulla speculazione edilizia

– Vendiamo quello: area fabbricabile, aveva detto.

Eppure, la vista d’un paese ch’era il suo, che se ne andava così sotto il cemento, senz’essere stato da lui mai veramente posseduto, pungeva Quinto.

 

(La speculazione edilizia, Italo Calvino, 1956/1957)

 

Voce del verbo “speculare.

Dal latino “speculari”, letteralmente “osservare”, “indagare”, “contemplare”. In un certo senso, cercare la verità.

Da quando è nata fino a oggi, questa parola ha assunto sfumature di significato via via diverse, fino ad arrivare a fare a pugni col suo senso originale. Perché oggi, secondo noi, chi rincorre la speculazione – edilizia, finanziaria o commerciale che sia – del mondo che lo circonda, aldilà del profitto, osserva, indaga e contempla ben poco.

Già alla fine degli anni ’50, Italo Calvino dedicava un racconto alla speculazione edilizia, narrando la corsa agli spazi edificabili in quella stessa terra – la Liguria – che ormai da diversi anni si ribella con le esondazioni alle catene del catrame, della cementificazione dei corsi d’acqua e degli scavi dei costruttori.

Più di mezzo secolo fa, quindi, chi la realtà sapeva osservarla aveva previsto che la violenza erosiva della speculazione avrebbe aggredito il territorio e la società.

Bene, noi vogliamo occuparci di tutto questo. Vogliamo ricordare che la speculazione è una causa della crisi e non una soluzione. Vogliamo mettere insieme i pezzi che abbiamo tra le mani e cercarne di nuovi. Vogliamo ricercare, raccontare e ispirare altri modi di vivere. E, in questo sì, pensiamo che Expo 2015 sia una grandissima opportunità per svelare l’anatomia di un mostro. E combatterlo.

Primo ospite di “Mangiamoci Expo” è Domenico Finiguerra, autore di “8 mq al secondo”, cofondatore del Forum dei Movimenti per la difesa del paesaggio e dei territori, già sindaco di Cassinetta di Lugagnana, il comune adagiato sulle sponde del Naviglio Grande a cavallo tra il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud, che coraggiosamente ha sperimentato un Pgt a cementificazione zero.

Le immagini satellitari, i dati diffusi a livello sia associazionistico, sia istituzionale e anche il titolo del tuo libro “8 mq al secondo” parlano chiaro: il consumo di suolo in Italia avviene a ritmi spaventosi. Ma perché è importante occuparsi di territorio e in particolare di consumo di suolo?

È importante prima di tutto perché la terra è un bene finito. Quello che abbiamo è quello, non si costruisce, non è un supporto riproducibile. È frutto di un lavoro secolare del verme, che ha scavato, ha creato l’humus, la fertilità. È un processo storico biologico che è stupido uccidere con il gesto banale della benna che solleva una colata di cemento per costruire un centro commerciale o un condominio…

E dico stupido perché è inutile dal punto di vista delle necessità delle persone: in Italia abbiamo due milioni di case vuote. Per non parlare dei capannoni sfitti ai margini delle autostrade e di tutte le grandi città. Quindi non c’è più alcun bisogno, bisogno reale per le persone, di costruire. Ci sono soltanto appetti speculativi. La finanza cerca di superare la crisi attraverso un’economia fittizia e il cemento è un ingrediente di questa, forse il principale.

La bolla immobiliare che è esplosa lasciando macerie sociali e ambientali sul territorio è frutto di necessità e bisogni che non hanno a che vedere con la realtà.

La necessità di avere un reddito, uno spazio dove vivere, spazio dove avere momenti di aggregazione. Non c’è nessuna di queste esigenze che è soddisfatta dal consumo di territorio.

Quindi bisogna smetterla perché noi stiamo dall’altra parte. 

In particolare, dati diffusi da Legambiente dicono che in Lombardia ogni giorno scompare sotto il cemento una superficie equivalente a circa 20 campi da calcio… 

In Italia la velocità di consumo di suolo è di 8 mq al secondo. In Lombardia abbiamo un consumo giornaliero di 13 ettari di terra. La provincia di Milano è cementificata per il 43%, e si tratta di un dato di tre anni fa che non tiene conto di quello che è avvenuto negli ultimi tre o quattro anni, perché tra Expo, Brebemi, Pedemontana, Tem e tutta l’urbanizzazione che il grande evento si sta portando dietro, la situazione non può che essere peggiorata.

Quindi diciamo che la situazione in Lombardia è molto grave, anche perché siamo scesi sotto la soglia psicologica di un milione di ettari destinati all’agricoltura. Una soglia significativa che mostra come la più importante regione agricola italiana (perché spesso ci dimentichiamo che la Lombardia è la regione agricola più produttiva d’Italia) sia massacrata dal cemento e veda tutti i giorni una quantità incredibile di gru sbucare come funghi.

E sono in progettazione o realizzazione le autostrade più assurde… La Broni- Mortara, la tangenziale che va a Malpensa, la Cremona-Mantova… Tutto, appunto, in zone agricole, che vanno ad infrastrutturare l’ultimo pezzo il più importante per l’agricoltura, a sud di Milano. Secondo degli assi di penetrazione che vanno a frammentare una mezzaluna fertile che va da

Melegnano fino a Legnano, abbracciando il Parco Agricolo Sud e il Parco del Ticino.

Che ruolo ha avuto e continua ad avere la crisi rispetto a questo tema? E in particolare, pensando a normative come lo Sblocca Italia e la legge Lupi, che volontà politica emerge in questo senso ai vari livelli istituzionali? A chi conviene questa strategia?

La crisi sta giocando un ruolo molto forte, proprio anche in questi tentativi di rilancio dell’edilizia e del mattone attraverso normative come lo Sblocca Italia. Il settore edile secondo gli ultimi dati ha perso 500 mila posti di lavoro da quando è iniziata la crisi e quindi è piuttosto facile sostenere che vada rilanciato. Questo gioca a favore degli incentivi e in generale ad azione che mettano il mattone al sicuro, come ad esempio la riduzione delle tasse sugli gli immobili non venduti. Ci sono questo tipo di richieste che i vari proprietari, Confindustria e in generale chi ha il potere economico nel settore dell’edilizia fa pressioni per essere assecondato e il Ministro Lupi, il Governo e il Parlamento fanno leggi e decreti che vanno in quella direzione.

In che modo lo Sblocca Italia ha a che fare con la speculazione? Qual è invece l’indirizzo dell’Unione Europea?

Lo Sblocca Italia va in una direzione completamente opposta rispetto alla linea dell’Unione Europea, che ha fissato l’obiettivo di consumo di suolo zero entro il 2050.

Nella pratica funziona così: tu individui le cose strategiche che devi fare su un territorio, come si trattasse di una legge obiettivo. Facciamo l’esempio per lo stoccaggio di energia nel sottosuolo. Fai questi grandi bomboloni, perché Putin ci taglia il gas e noi abbiamo delle zone che si prestano per lo stoccaggio, tra l’altro una ce l’abbiamo a Lodi. Con lo Sblocca Italia un progetto come questo diventa strategico e regolato da leggi speciali, come per gli inceneritori, come per le zone militari… per l’interesse nazionale.

In questo modo azzera completamente la partecipazione. Arriva a cascata e non c’è più discussione. Infatti il dibattito pubblico che era previsto nella prima bozza è stato tolto. Perché non era coerente con il resto della normativa. Sull’edilizia vera e propria c’è l’incentivo al principio del silenzio assenso, la sdemanializzazione, quindi la possibilità di svendere il patrimonio pubblico per fare case e venderle al privato, costruire centri commerciali, palazzine in modo che lo stato incassi. Intanto però perdiamo intere porzioni di territorio.

Diciamo quindi che è un decreto molto verticistico, nel senso che prevede che le decisioni vengono calate sui territori senza alcun coinvolgimento dei livello intermedi, nemmeno delle province e delle regioni. Decidono pochissime persone ai vertici sulla base di linee politiche che non hanno alcun fondamento nemmeno per il rilancio economico.

È un tassello della concentrazione del bene di tutti nelle mani di pochi. È stato pompato a livello retorico, ma in realtà è una grande operazione di saccheggio.

A tuo avviso, a quale livello andrebbero prese le decisioni che riguardano la gestione del territorio?

È soprattutto a livello locale che si potrebbe intervenire. Il piano regolatore è comunale.

Il livello su cui intervenire per noi, per i movimenti, per le reti è quello locale. Che può essere il comune, lo spazio sociale, lo spazio culturale.

Il tentativo deve essere quello di occupare lo spazio del dibattito pubblico e parlando della mia esperienza, se sei sindaco, sei eletto direttamente dai cittadini, sei più ascoltato, riesci a fare passare messaggi alternativi. Purtroppo è il riconoscimento di un ruolo, ma forse può essere utile provare ad utilizzare quel ruolo. Ero il “sindec”, quello con la fascia, e quindi mi era più facile veicolare certi messaggi…Certo se sei presidente di regione, ancora meglio, però è difficile, ma i poteri sono forti e scattano dinamiche di potere di un certo tipo.

Aldilà di questo, io credo che le scelte che riguardano il territorio non possano essere prese da qualche decina di persone in consiglio comunale. Quello che riguarda la gestione della terra, il territorio, che è la cosa più importante che ha un comune, deve essere condiviso con tutti.

Puoi raccontarci del piano regolatore a crescita zero del Comune di Cassinetta di Lugagnano? Che cosa possiamo imparare da questa esperienza?

Anche rispetto al discorso della partecipazione, abbiamo fatto dei questionari, delle assemblee pubbliche, abbiamo chiesto ai bambini di disegnare quello che volevano e quello che non volevano. È stata un’operazione culturale che ha funzionato, tant’è che poi alle elezioni successive tutte le liste avevano lo stop al consumo di territorio perché se no non prendevano i voti.

In particolare Cassinetta aveva un parco, che era andato in concessione a un privato. Era stato recintato e quando è scaduta la convenzione, nel 2010 il privato ci ha chiesto di rinnovarla per altri 20 anni. Insieme ai cittadini invece abbiamo deciso di riprendercelo e convertirlo. E così anche per noi che eravamo in Comune era più facile, perché a volte la politica si chiude in una stanza, ma se coinvolgi i cittadini poi sei anche più sereno perché non sei solo. Sai, quando hai contro le proprietà, i giornali e gli altri sindaci perché porti un modello diverso…

Perché è importante avviare dei processi di partecipazione in tal senso? Si tratta di valutazioni di tipo etico/politico o anche di valutazioni che riguardano la messa a frutto di un’intelligenza sociale locale? 

Ci sono dei livelli di conoscenza del territorio diversi tra i cittadini. Un pendolare non ha una grande conoscenza. Invece il contadino o l’ambientalista storico che va in giro a pescare nei fossi ha una conoscenza approfondita.

Secondo me la partecipazione dei cittadini può da un lato consentire lo scambio tra di loro, perché crea punti di contatto. Di solito i più attivi sul territorio non sono residenti storici. Io ad esempio non sono di questo territorio i miei genitori sono della Basilicata. Alla testa del movimento per difendere il territorio a Cassinetta c’erano i milanesi…

Se riesci a saldare questa comunità con i residenti storici, succede quello che è accaduto in Val di Susa attraverso un lavoro che è durato tanti anni: valsusino e torinese, tutti sono sullo stesso piano, si sono contaminati e il movimento è diventato fortissimo.

Quali strumenti possono adottare i movimenti sociali e più in generale i cittadini per far fronte alla speculazione?

Non ho ricette, ma personalmente tutto quello che ho imparato l’ho imparato attraversando i movimenti, incontrando altri sindaci e comitati…

Sicuramente mi sento di dire che quello della purezza è uno strumento importante. L’intransigenza. Un movimento che non fa accordi.

Spesso capita che i movimento sociali locali vengano in qualche modo cooptati, invece bisogna rimanere indipendenti, e con questo non intendo mettersi i paraocchi, ma garantirsi di poter prendere la decisione giusta senza essere condizionati.

Solo così riesci a puntare con chiarezza ai tuoi obiettivi. Come dice Caparezza: “Fai allenze con tutti, ma non con il sire”. Magari la fai con degli agricoltori. O con una scuola. Ma non con un palazzinaro. O con il sindaco amico dei palazzinari.

Bisogna essere molto politici nel senso puro del termine, cioè capire dove sta l’interesse e il bene comune.

Guardando ad Expo 2015, come possiamo intervenire per limitare il più possibile il danno che già purtroppo si sta consumando in maniera irreversibile sul nostro territorio? Cosa possiamo fare? Cosa possiamo imparare e come possiamo intervenire per evitare che si ripeta?

Secondo me adesso la cosa più importante da fare è continuare con l’informazione. Il più possibile, in modo davvero martellante, e cercare di usare ogni spazio possibile per parlare ai cittadini che si stanno bevendo Expo.

Forse si salverà la via d’acqua, però il grosso danno è stato fatto. Probabilmente il lavoro più importante che si può fare adesso, oltre a quello dell’informazione, sarà obbligare la politica a prendere delle decisioni sul dopo Expo.

Credo che il movimento NoExpo avrà un compito più importante forse il giorno dopo. Finita l’ubriacatura, ho visto che in altri paesi c’è stato poi un day after. A Milano non mi risultati ci saranno questi grandi padiglioni che colpiranno l’immaginario, come fece a suo tempo la Tour Eiffel. Le vie d’acqua erano il loro tentativo per segnare l’immaginario collettivo, ma i protagonisti di quel progetto sono gli arresti.

Già in tempi non sospetti, prima che Milano vincesse la candidatura, avevo lanciato l’idea di un “Alter Expo”. Voi fate pure l’Expo, noi intanto esponiamo quello andrebbe fatto, le buone pratiche, in una sorta di lavoro speculare. Che poi è quello che hanno fatto i movimento, ma dall’altra parte c’è stato il tentativo di chiuderci in un recinto e bollarci come “i rompicoglioni”. Invece nel recinto vanno messi loro.

Pensi che il tema di Expo 2015 potrà aiutarci in questo lavoro? 

Parlare di sovranità alimentare, territorio, di sostenibilità dell’agricoltura: questo ci potrà aiutare moltissimo.

Le politiche agricole vanno cambiate e dobbiamo davvero trovare il modo di elaborare una riforma agraria non pensata dai burocrati e dai tecnici, ma pensata dal basso, che risponda alla crisi, alla necessità di prendersi cura del territorio, di ripartire le terre e di redistribuire il reddito.

Invece del Jobs Act… Non vogliamo diventare i forzati del discount. La crisi economica si intreccia con quella ambientale e su questo dobbiamo avere una diversa elaborazione. Perché dopo Expo ci saranno altri grandi eventi, le olimpiadi, i campionati di calcio…

Ad esempio il fenomeno dell’occupazione delle terre è credo l’anticipazione di un fenomeno giuridico che arriverà. Perché in un paese con un regime democratico una pressione come questa non può che produrre degli strumenti normativi che si rispondano a fenomeni di quel tipo. Oltre alle occupazioni ci potrebbero essere anche forme di assegnazione dirette ai cittadini da parte del demanio. Su questo ci si dovrebbe concentrare, perché soprattutto adesso in risposta alla crisi ci sono giovani che vogliono tornare alla terra, ma la terra non c’è.

Leggi qui la prima puntata di Mangiamoci Expo

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2 risposte a “Mangiamoci Expo – Un antipasto”

  1. […] Leggi la puntata precedente https://milanoinmovimento.com/territori/mangiamoci-expo-un-antipasto […]

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