Più libri più liberi: in editoria si parla di tutto tranne che delle condizioni di chi ci lavora
Il dibattito sulla partecipazione o meno dell’editore neonazista e neofascista Passaggio al Bosco alla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria di Roma Più Libri Più Liberi ignora completamente (o quasi) la “natura” (la funzione) di questa fiera del libro per il sistema culturale ed editoriale italiano. Ed è per questo che è completamente inutile, ovvero non può avere successo: Passaggio al Bosco non viola alcun regolamento, non è fuori posto, anzi è perfettamente in continuità con un progetto fieristico che ormai ha come principale obiettivo, dal lato delle case editrici indipendenti, di difendere un’industria fondata sull’azzardo finanziario, sull’aumento costante della produzione, dunque sullo sfruttamento di risorse e manodopera. In altre parole: di difendere un’industria fondata sulla violenza economica. E infatti: Passaggio al Bosco ha ancora il suo stand, al G51 (informazione che qualche balord* malintenzionat* potrebbe usare per, che ne so, disturbarne l’attività).
Se produciamo più cultura potremo cambiare il mondo
Questa difesa è imbastita su un piano culturale e ahimè identitario. Vuol dire che, attraverso il mito della cultura come valore assoluto (cioè sciolto, irrelato), della “bellezza” come attore palingenetico (che salverà il mondo…), il sistema editoriale e culturale italiano produce identità laddove c’è profonda disomogeneità, direi frammentazione. Laddove persiste l’egemonia dei grandi gruppi editoriali e della grande distribuzione (perciò si parla di oligopolio editoriale) a discapito di tutto il resto. L’identità è un diversivo perché lettori e lettrici, scrittori e scrittrici, lavoratori e lavoratrici e persino le stesse imprese tornino continuamente a non vedere l’ingiustizia e le disuguaglianze in cui sono immersi (e di cui possono anche essere soggetti). È un’identità settoriale, di mercato, che tra l’altro ripete le formule del “pensiero identitario” tipico delle ideologie nazionaliste, quale quella di Passaggio al Bosco, per citarne una a caso (dal loro post su Instagram). Su questa identità si radica l’equivalenza che la fiera assume a titolo: Più Libri Più Liberi, ovvero a una sempre crescente produzione di libri corrisponderà una sempre crescente libertà (astratta). La ripetizione in scala del mito liberale, che proviene da Friedrich von Hayek, secondo il quale soltanto il libero mercato è garanzia radicale della libertà dell’individuo (per approfondire: Il grande mito di Naomi Oreskes, Erik M. Conway per Edizioni Ambiente). Su quest’equivalenza si gioca anche, ovviamente, l’alleanza ciclica tra sistema economico capitalista e fascismi: Mikkel Bolt Rasmussen, studioso danese pubblicato in Italia da Agenzia X e Edizioni Malamente, sostiene che il fascismo abbia oggi assunto molto più esplicitamente i contenuti economici del capitalismo, per questo potremmo parlare di fasciocapitalismo (qui un mio articolo a proposito). Passaggio al Bosco non teme l’esclusione perché viene naturale che la fiera difenda la libertà di esistere economicamente prima di domandarsi se sia giusto che un progetto editoriale si fondi sulla riscrittura della storia, sulla mitologia nazista e fascista e, quindi, su un’ideologia violenta nei suoi mezzi e nei suoi fini.
(Liquido subito l’argomento: eh ma la censura è sempre sbagliata, io il Mein Kempf lo posso leggere anche per studio. Intanto perché ancora una volta confermi che la tua idea di censura riguarda solo la circolazione di mercato, ma se proprio ti sta a cuore l’accessibilità esistono le biblioteche. In secondo luogo perché se leggessi il Mein Kampf con uno sguardo storico serio saresti sfavorevole alla sua commercializzazione).
Alla fine, è una strategia difensiva di invisibilizzazione: della crisi permanente in cui è versata l’industria a causa del suo stesso funzionamento, che ripete e a tratti accentua i peggiori meccanismi del tardocapitalismo (leggi qui per una sintesi di come funziona l’industria editoriale, dall’articolo La ridondanza: come il Premio Strega Poesia espone le ipocrisie di un intero sistema culturale, per lay0ut magazine) costringendo gli editori a pubblicare sempre di più, sempre più di corsa e aumentando sempre la quantità di lavoro, non certo a beneficio dei lavoratori o dell’occupazione, ma per le tasche degli oligopoli. Secondo AIE (Associazione Italiana Editori), in Italia si stampano tra le sessanta e le settanta mila novità l’anno. Una libreria indipendente può tenerne in negozio dieci o quindici mila, una persona può leggerne meno di cinquemila se spende la propria vita integralmente nella lettura. Un’eccedenza che equivale a produrre per il macero.
La concentrazione dello sfruttamento
Questa difesa è ancora più importante se la stessa fiera – le fiere del libro generalmente, azzardo – è luogo di concentrazione dello sfruttamento dei lavoratori: sette giorni di fila, per una media di dieci al giorno, dietro un tavolo a sorridere, per lo più, e straparlare provando a vendere libri come si vende una zucchina al mercato. In più dentro la Nuvola di Fuffas, che non è un lapsus. Sì, ci sono passato, e ricordo ancora il brusio da acquario che sentivo la notte, quando mi era impossibile chiudere occhio. Ricordo la nausea di ripetere le sinossi di libri mai letti, l’agitazione di rincorrere il traguardo giornaliero di incasso, la rabbia verso i businessmen con la coda di rettile che si trinceravano dietro lo stand di Messaggerie o nell’Area Vip. Io però avevo un regolare contratto di collaborazione (dato che gravitavo tutto l’anno attorno a due case editrici) e una buona retribuzione: la maggior parte delle persone sono invece sottopagate o volontarie. I master dell’editoria li chiamano “stage”, e ti convincono con la promessa che è così che ci si fa vedere, che si accumula esperienza.
PLPL è anche, ovviamente, luogo di autosfruttamento, poiché la maggior parte delle case editrici indipendenti (una definizione qualitativa: significa non far parte di gruppi editoriali, che però orientano comunque le scelte della fiera) sono piccole e non medie – distinzione quantitativa – per cui non hanno dipendenti e soprattutto hanno poche risorse. Partecipare costa almeno mille euro a testa per lo stand, centinaia di euro per spedire i libri, centinaia di euro per pernottare e mangiare. La vendita diretta al cliente – che abbatterebbe finalmente le percentuali di distributore e libreria, contribuendo alla promozione – diventa presto un’illusione: provate a fare margine vendendo i vostri prodotti in mezzo a un mare di oltre seicento espositori, con più di settecento eventi (le vendite peggiorano di anno in anno).
La direzione artistica degli eventi
Gli eventi, tra parentesi. Mi chiedo se abbia senso nominare una direttrice artistica, una curatrice artistica se per fare un evento bisogna comunque pagare (dai settanta ai duecento euro, in base alla sala disponibile). È più una sorta di supervisora: il che comunque non ha evitato che l’anno scorso Più Libri Più Liberi inserisse a programma una lezione per ragazzi sull’anarchia condotta da Leonardo Caffo, uomo accusato di violenza di genere e allora sotto processo (ad oggi condannato). Per fortuna, la mobilitazione dell’opinione pubblica allora spinse lo stesso Caffo a rinunciare, offrendogli forse il fianco per una reinvenzione a destra fondata sulla retorica della vittima (sono censurato qua, sono censurato lì, dove è il garantismo: poi però continua a pubblicare dovunque e a condurre, addirittura, Podcast da cattivista). Non fu certo Valerio a escluderlo, proprio perché (in barba all’Hermana yo te creo, ma anche a un qualsiasi livello di buon senso) perfettamente in linea coi principi della fiera.
L’appello del mondo della cultura, io però me ne starei a casa
Appena è saltato fuori che a Più Libri Più Liberi avrebbe partecipato una casa editrice neofascista e neonazista, il mondo della cultura (intellettuali, editori partecipanti, realtà organizzate) hanno prodotto e firmato un appello (qui) che chiedesse all’AIE le ragioni di questa inclusione. Passaggio al Bosco porterebbe avanti un “progetto apologetico che dipinge la temperie dei fascismi europei, anche nei loro aspetti più violenti, persecutori e sanguinari, come un’esperienza eroica da cui trarre esempio.” Perciò sarebbe centrale “aprire una riflessione sull’opportunità della presenza di tali contenuti in una fiera che dovrebbe promuovere cultura e valori democratici” (Zerocalcare ha anche pubblicato un video, incentrato sulla pratica militante di Passaggio al Bosco). Timido appello direi e non soltanto per questo (ma per le ragioni già espresse), destinato al fallimento, che però ha il merito di aver fatto parlare il presidente di AIE Ernesto Cipolletta, che fa definitivamente cadere le maschere. L’editoria si fonda sui valori della proprietà privata e sul libero mercato, non sulla scrittura, sul pensiero critico:
“I capisaldi dell’editoria contemporanea sono due: il diritto d’autore e la libertà di edizione. Senza questi due pilastri, l’editoria, per come la conosciamo, crolla. Il no ad ogni forma di censura è quindi un no che, per un’Associazione come la nostra, è pregiudiziale, viene prima di qualsiasi altra cosa.”
E quindi: che questo non è un liberi tutti. Che l’AIE non sceglie (sceglie, invece, sulla base economica, cioè naturalizza la libertà economica), ma, fondandosi sui principi di cui sopra, chiede di sottoscrivere all’editore “un contratto nel quale è esplicitato l’impegno ad “aderire a tutti i valori espressi nella Costituzione Italiana, nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e nella Dichiarazione universale dei diritti umani.” Allora sì: fascisti che giurano sulla costituzione del resto li abbiamo anche al governo. Mi piacerebbe attraversare anche l’impegno presunto di AIE e di altre realtà contro “ogni atto di censura e ogni attentato alla libertà d’espressione” (menzione all’azione dimostrativa contro la Stampa), ma ho già dato troppa attenzione a spostamenti in questo pezzo. Mi piace la conclusione, però, vagamente distopica: “Riteniamo opportuno che la fiera resti un luogo plurale e aperto a tutte le idee, anche a quelle che non ci piacciono.” Dunque il fascismo non ci piace, come ci possono non piacere, che ne so, i mandarini. Va bene.
L’elefante nella stanza
L’elefante nella stanza, e in questo pezzo, è il mito antagonista, “a sinistra”, dell’eroicità e dell’integrità della editoria indipendente, che nella stragrande maggioranza dei casi non interrompe le condizioni di sfruttamento e autosfruttamento generalizzate. Anzi: le rende possibili dietro a una narrazione romanticizzata (una risposta spontanea e reazionaria all’oppressione) del lavoro culturale (penso ai tentativi di demistificazione già storicizzati, come L’integrazione di Luciano Bianciardi o il Lettore di casa editrice di Giancarlo Pontiggia). L’editoria indipendente esternalizza il lavoro proprio come l’editoria mainstream. L’editoria indipendente ha ritmi forsennati proprio come l’editoria mainstream. L’editoria indipendente paga molto male gli autori e le autrici. L’editoria indipendente universalizza lo stage come modello di assunzione proprio come l’editoria mainstream. L’editoria indipendente ha fondato i propri master di scrittura per rendere possibile questa universalizzazione e, al massimo, per esternalizzare anche la formazione, proprio come l’editoria mainstream. L’editoria indipendente, fatte poche eccezioni, è perfettamente complice del sistema, anzi ne è l’alibi progressista, dunque ne è il consolidamento.
Che fare?
Sarebbe stato bello, allora, se tutte le firme apposte sotto l’appello si fossero mobilitate non tanto contro la presenza di Leonardo Caffo l’anno scorso (sarebbe stato utile), ma in solidarietà a tutte le case editrici che negli anni hanno disertato la fiera per una Controfiera (proprio per una critica al modello), o che sono rimaste per imprimere un cambio di direzione (per esempio D Editore; i post di Emmanuele Jonathan Pilia sull’editoria e sulla fiera sono estremamente educativi). Sarebbe stato bello se la sindacalizzazione militante di Redacta avesse avuto più supporto. Soprattutto, sarebbe necessario che tutte le firme poste sotto l’appello – e ancora chi neanche si è degnato di farlo – mettessero in discussione il sistema culturale alla quale sopravvivenza invece contribuiscono – Più Libri Più Liberi è solo uno dei suoi luoghi civili di riproduzione –, con il proprio lavoro, con la propria impresa, con le proprie scelte lontanissime dalla radicalità, lettera d’appello compresa. Nulla o quasi: perché le guerre culturali ci costano poco, le lotte materiali molto di più.
Che fare, allora. Nessun* colpevolizza chi deve di rimanere in fiera: editori, lavoratori e lavoratrici, scrittori e scrittrici. Nessun* colpevolizza chi decide di frequentarla e pagare il biglietto da ben dieci euro al giorno (forse potrebbe essere gratuita?). La colpevolizzazione è una stupidaggine cattolica e non ci interessa: è tutta una questione di responsabilità collettive. Bisogna convergere e organizzare una contestazione, che si avvalga di tutti gli strumenti a disposizione, senza competizione e personalismi. Significa fare contestazione interna, immaginare un’alternativa praticabile che però finisca per mettere in discussione l’intero piano industriale, non solo quello particolare, lottare al miglioramento delle condizioni di lavoro, inventarsi delle proteste: sì, ancora l’ingorgo autostradale al corridoio G o, come fanno a Torino durante il Salone del Libro (altro mostro), raccogliersi a contestare, provare ad accedere forzando l’entrata in corteo per imporre il tema del genocidio del popolo palestinese…
Il mondo della cultura è assurdamente frammentato, individualizzato, forse proprio perché è diffusa la fede che alla fine la cultura, in quanto intrinsecamente rivoluzionaria, l’avrà vinta sulla sua strumentalizzazione capitalista. Oppure perché, nella miseria dei suoi spazi di manovra, si può muovere soltanto chi ricava nicchie di potere. Certo: al suo interno. Ma l’arte non è niente se non è sociale. Non è niente se è strumento di accumulazione, capitalistica o simbolica. L’arte è inutile e sta in questo la sua sopravvivenza, la nostra resistenza.
(Di questa inutilità ci dobbiamo riappropriare in senso rivoluzionario. Dall’industria editoriale è possibile praticare delle strade alternative. Se abbandoniamo i mezzi di produzione culturali alla classe capitalista, come possiamo incrinarne l’egemonia?)
di Demetrio Marra
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