“Tavoli senza gambe”
Breve storia del tavolo comunale sugli spazi
Se oggi aprite http://milanospaziocomune.tumblr.com/ vi trovate dentro ad un sito di “home decorating ideas” che spiega come utilizzare in maniera creativa cuscini e materassini e suggerisce pavimenti che riflettano la luce per illuminare gli spazi. In realtà, esattamente quattro anni fa, quel tumblr era nato per poter diffondere i lavori del cosiddetto “tavolo spazi”, il percorso immaginato dal Comune di Milano per superare la logica dei bandi e costruire nuove modalità di gestione dei beni comunali.
L’abbandono di quel sito (e la sua significativa trasformazione in un sito che arreda spazi privati) si accompagna, il 16 marzo 2018, all’approvazione in Giunta di una sperimentazione di un anno della gestione condivisa sui beni comuni, che servirà poi a produrre un regolamento. Una sperimentazione che riecheggia il nome della delibera che avrebbe dovuto essere costruita nel tavolo, ma che in realtà ricalca la delibera stesa da Labsus (Laboratorio sulla sussidiarietà) a Bologna, luogo in cui gli sgomberi continuano incessantemente. Si tratta, infatti, di un regolamento che propone modelli di partecipazione e di gestione degli spazi “vuoti”, senza mai interrogarsi su cosa fare degli spazi già pieni e autogestiti. Labsus, infatti, ritiene che solo dopo che nel 2001 è stato introdotto nella Costituzione il principio di sussidiarietà sia possibile un modo di “essere cittadini del tutto nuovo e finora irrealizzabile” e si propone di insegnarlo nei diversi territori. È chiaro quindi che questo tipo di logica agisce come se fosse la legge a dover creare l’autogestione, senza vedere come la stessa legge sia il risultato di lotte, trasformazioni e processi reali che hanno messo in pratica quel modo nuovo e irrealizzabile di essere cittadini. La delibera sugli usi civici che invece era stata prodotta dal tavolo (con caratteristiche molto diverse da questa sperimentazione) giace abbandonata, dato che la giunta Sala non ha voluto prenderla in mano.
Questa incapacità di vedere i pieni della città, problematizzando solo i vuoti, affonda le sue radici nell’origine del tavolo e del tentativo di regolamento. Nell’ottobre 2012, infatti, gli e le assessore Benelli (Decentramento), Boeri (Cultura) e Castellano (Demanio) avevano promosso un incontro all’Acquario Civico per discutere di spazi sociali e di strumenti legislativi. Questo appuntamento arrivava poco dopo lo sgombero del Lambretta in piazza Ferravilla e si caratterizzò subito per una nutrita presenza di centri sociali e realtà autorganizzate che aprivano spiragli di confronto con il Comune pur rivendicando il proprio posizionamento autonomo e chiedendo una moratoria su sgomberi e sfratti come condizione necessaria ad ogni possibile dialogo.
Il percorso si inabissa per un po’, complice anche l’abbandono della Giunta da parte di Boeri e Castellano, per poi tornare nell’estate del 2014 sotto forma di tavolo sugli spazi. La convocazione di questo tavolo è la prima criticità che viene sollevata dai centri sociali: non è pubblica ed è molto a ridosso dell’incontro. Zam e Lambretta rilanciano con un incontro aperto in piazza Gae Aulenti il 9 luglio, in cui gli spazi sociali della città ribadiscono la necessità di bloccare gli sgomberi e la paura che questo tavolo sia solo un tentativo di sotterrare dei conflitti in vista di Expo. Le posizioni sono variegate, ma quantomeno si ragiona insieme di un’idea di città, di proprietà privata e autogestione, ben sapendo che ogni dialogo col Comune non è altro che un tassello di un percorso molto più lungo che esula da ogni istituzionalizzazione.
Poco dopo, però, Zam viene sgomberato da via Santa Croce, da uno spazio comunale, quindi, e proprio da quel Comune che dichiarava di riconoscere il valore degli spazi sociali. Il risultato è che al tavolo sugli spazi finiscono per sedere soltanto il Leonacavallo e Macao, che porta avanti un lavoro sugli usi civici in sinergia con molti altri spazi nella penisola. Agli altri posti siedono Arci, Camera del Lavoro, associazioni di volontariato, social streets, orti, giardini condivisi e molte altre esperienze. E il tema della proprietà privata e dei beni comuni, degli usi degli spazi urbani e dell’autogestione viene subito diviso in un sottogruppo che si occuperà di pensare bandi migliori (in continuità, però, con quelli esistenti) e di uno in cui riflettere su nuove forme possibili. Nonostante il tempo passato dal 2012, però, il Comune si presenta senza una proposta, limitandosi ad ascoltare e a suggerire di replicare il regolamento bolognese. Non è un caso, infatti, che al tavolo sia presente un’avvocata di Labsus e non altre esperienze, come poteva essere quella napoletana. In questo senso il Comune sceglie di sedersi al tavolo intraprendendo fin da subito la strada di trovare forme di partecipazione allargata, ma simili ai bandi, più che di riconoscere le esperienze reali che attraversano il territorio cittadino, indirizzo che si concretizza, abbandonando i lavori del tavolo, nell’anno di sperimentazione da poco inaugurato nel silenzio generale che ha coperto questo tema dell’inizio del governo di Sala.
La storia di questi tentativi di dialogo, carsica e frammentata, mostra tutti i limiti di un modo di pensare delle amministrazioni milanesi, a partire da quella Pisapia, che pur dichiarando l’importanza delle esperienze autogestite e rappresentandosi anche come provenienti in parte da quel mondo, non ha saputo o voluto guardarne la radicalità. Non si tratta, infatti, soltanto di immaginare nuove forme di partecipazione, ma di interrogarsi a fondo su chi può vivere in questa città, in che modi e a che prezzi, quali siano le linee di esclusione e come cambiarle, non modificandole con l’assistenzialismo, ma impedendo che vengano tracciate. In questo senso gli spazi sociali non sono la soluzione, ma, assieme alle occupazioni abitative e a molte altre esperienze, sono un riflettore puntato sulle zone grigie di una metropoli sempre più polarizzata tra vetrina e ripostiglio. Non si tratta, quindi, come sembrava fare il tavolo spazi, di cercare forme di riconoscimento che cadano dall’alto, ma di osservare quello che già accade, ogni giorno. Si tratta di spostare l’asse della politica per osservare i modi in cui, in maniera autogestita, collettivi e soggetti diversi rispondono a bisogni e desideri, per mapparli e dargli spazio, consapevoli che costantemente ne verranno messi in luce di altri, a partire dalle contraddizioni della nostra città, e sapendo che questi scomodi svelamenti, simili a punzecchiature di tafani, non sono un problema amministrativo o di ordine pubblico, ma un modo di creare azione politica.
Ma allo stesso tempo bisogna riconoscere una radicalità politica nel gesto di occupare uno spazio, che svela l’assurdità e l’insostenibilità della proprietà privata (intendendo con questo, aristotelicamente, anche la proprietà comune con uso privato). Occupare una proprietà vuota e abbandonata significa svelare l’insensatezza di una proprietà fine a se stessa, priva di ogni funzione che non sia esistere. E questo gesto rimane inequivocabilemte conflittuale, una frattura che permette quei progetti, quelle esperienze, quelle vite eccentriche (in molti modi e molte forme) che così si fanno centro dei propri margini.
Nelle puntate precedenti…
I 50 sgomberi (ma forse ce ne siamo dimenticato qualcuno…) nell’era del centrosinistra a Milano“
Allo stagno preferiamo il torrente” – Apriamo un dibattito a/su/per Milano
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