“Storie di quartiere” – Intervista a Ri-Make
È facile parlare male di Milano, città di nebbia, di smog e persone che corrono e non si guardano. Città di affari e grattacieli, di cartelloni luminosi e traffico sulle circonvallazioni. Ma provate a viverci, Milano non è così. Non solo. Certo, la vetrina certi giorni scintilla al sole e ti abbaglia col riflesso, e certi altri è velata di sporco e polvere e ti lascia solo intuire forme grigie e confuse. In questo viaggio nei quartieri stiamo provando invece a raccontare la città dietro il velo, quella che scopri solo se cerchi, se ingrandisci la mappa tante e tante volte, fino a trovare i punti che lo sguardo d’insieme non può darti. Nella periferia Sud abbiamo incontrato il Comitato Autonomo Abitanti Barona e Gratosoglio Autogestita, oggi ci spostiamo all’estremo Nord, Affori, quasi paese di provincia a pochi minuti di metropolitana dal Duomo, quartiere popolare e migrante dove qualcuno ha avuto l’idea di occupare una banca. In via Astesani 47, nell’ex BNL, c’è Ri-Make, spazio restituito al quartiere da un collettivo con una storia particolare nel panorama del movimento milanese, che ci sembra oggi uno dei più vivi della città. Con loro abbiamo chiacchierato di teorie e forme della politica che non sembrano più utili e di prospettive possibili, di mutualismo e conflitto, di immaginari e dello stato di salute di questa città. Ci è piaciuto un sacco lo spazio, ci abbiamo trovato cura e gentilezza, doti sempre troppo sottovalutate, impegno sociale e una riflessione politica in divenire ricca di stimoli. Proviamo a raccontare un po’ di questa storia nell’intervista qui sotto, se vi incuriosisce, passate a trovarli, ne vale la pena.
Quando siete entrati in questo spazio?
Prima però avevate fatto un’altra occupazione?
In quell’occasione i problemi sono sorti quando il proprietario si è reso conto che non era un’occupazione temporanea…
Lo sgombero è stato totalmente di sorpresa.
E’ stato un uno-due bello tosto.
Ci sembra che in questo spazio sia molto importante il ragionamento sul mutuo soccorso.
Noi veniamo dalla fuoriuscita da un’esperienza di partito. Nell’inverno 2012-2013 c’è stata una scissione in Sinistra Critica, una parte ha voluto continuare l’esperienza partitica creando Sinistra Anticapitalista, un’altra ha dato vita a Communia Network, nell’idea che il sistema partito non funzionasse più, e fosse necessario andare nel territorio, costruire conflitto fuori dai luoghi classici della lotta di classe, avere un impatto sul sistema sociale e urbano. Era evidente che la forma partito non funzionava più, abbiamo pensato a una rete che mantenesse una forma di organizzazione ma si fondasse su mutualismo, autogestione e conflitto.
Per il nostro percorso è stata molto importante l’esperienza di Bari con le lotte dei lavoratori agricoli, che mettevano insieme la denuncia e la creazione di economia alternativa, la costruzione di autoreddito attraverso il mutualismo e il conflitto.
E poi quella della Ri-Maflow per creare dei legami con un’intera fabbrica autogestita totalmente fuori dalle dinamiche del mercato.
Anche Communia Roma con il suo progetto di mutuo soccorso col mondo dell’università è stata importante.
Le occupazioni di Communia quindi quante sono?
La rete comprende diversi nodi: Communia nel quartiere San Lorenzo a Roma, che è stato il primo nodo a occupare uno spazio di mutuo soccorso, poi c’è Milano, l’esperienza di Terra Nostra a Casoria, Le Boje a Mantova, Sobilla a Verona, la Fattoria senza padroni di Mondeggi…
E’ un lavoro in costruzione, la scommessa sta nel tentativo di costruire una rete su basi comuni – mutualismo, autogestione, conflitto – da costruire insieme.
Vorremmo uscire dall’ottica da centro sociale anni ‘90 che tende a chiudersi in se stesso e creare una sorta di “isola felice” e portare il conflitto all’esterno, con tutti i limiti dovuti al fatto di dovere anche gestire e tenere uno spazio.
Ci dicevi del mutuo soccorso…
Quest’anno ci siamo cimentati nel lavoro coi migranti con le collettività di Cinisello e Bresso.
Per Bresso è stata fondamentale la “rivolta” dello scorso Agosto nel campo gestito dalla Croce Rossa che ha attivato una serie di energie fino ad allora sopite. Si tratta non solo di portare il primo soccorso nel campo, ma ragionare insieme ai migranti per costruire strumenti di autoorganizzazione, aiuto e conflittto.
E poi la rete Spazio Fuorimercato a partire dall’esperienza della Ri-Maflow ma con l’idea di diffondere il progetto sul territorio. Si tratta sì di aiutare i produttori che vogliono stare fuori dai normali spazi di mercato, ma anche di creare un’economia alternativa, critica – da non confondere col consumo critico svuotato di senso dalla narrazione di Farinetti e simili – contro la grande distribuzione e basata su nodi di distribuzione diffusi. Questo processo beneficia anche del rapporto della rete Spazio Fuorimercato con Genuino Clandestino, che hanno basi diverse ma interagiscono bene contribuendo all’elaborazione di un progetto più diffuso e complessivo.
Concretamente come funziona lo spazio?
Abbiamo fatto diverse sperimentazioni, oggi la soluzione migliore ci sembra il collettivo unico di gestione che è anche assemblea politica e si occupa di tutto.
Abbiamo sperimentato i gruppi di lavoro, che però erano un po’ dispersivi, e anche di alternare settimanalmente l’assemblea politica e quella tecnica, ma anche questo è risultato difficoltoso.
Abbiamo un’assemblea comune di Ri-Make/Communia cui partecipano a volte anche degli operai della Ri-Maflow.
Poi dei collettivi specifici, che hanno una loro autonomia, come quello delle Lucciole.
C’è stato anche un collettivo di lavoratori precari che però si è frammentato a causa delle tipiche esigenze della vita da precari. Qualcuno è andato a vivere all’estero, qualcuno ha dovuto cambiare città…cose così…
è in divenire la costruzione di un collettivo eco-socialista, a partire anche da dinamiche di quartiere che però sono pericolose e difficili da affrontare di getto.
Com’è il rapporto col quartiere?
Non ci sono problemi, non c’è opposizione, ma se devo essere sincero non c’è neppure particolare interesse.
Occupare in periferia a Milano, soprattutto a Nord, è difficile. Il quartiere non sa, non capisce, non conosce.
Il grosso intervento che abbiamo fatto quest’anno è su un bel gruppone di studenti medi di zona.
Chi si affaccia in questo spazio e viene dal quartiere non ha idea di cosa sia un centro sociale.
E’ un mondo totalmente sconosciuto.
Non è facile avere strumenti politici comuni con ragazzini che fanno la tipica vita da quartiere di periferia, magari stanno a farsi alle panchine e si fa fatica anche a fare un ragionamento sulle sostanze, la riduzione del danno ecc, bisogna proprio costruire gli strumenti. Arduo, ma è un lavoro interessante.
È una bella sfida avere a che fare con ragazzi di quartiere che non conoscono la realtà dei centri sociali, non hanno proprio le basi politiche, abbiamo provato a costruire una ciclofficina ma ci siamo trovati a scontrarci con la difficoltà di doverla gestire con ragazzi che di fatto non avevano i rudimenti dell’autogestione. Più facile è stato costruire relazioni con chi ha già degli strumenti politici, ragazzi giovani ma che frequentano gli spazi occupati, anche altri, e conoscono questo mondo.
Il principale progetto rivolto al quartiere comunque sono le cosiddette domeniche aperte. Ogni domenica prepariamo un pranzo popolare, e mettiamo a disposizione un’aula studio, la nostra libreria, l’area relax con il WiFi, i giochi di società e il ping pong. Inoltre nel pomeriggio in collaborazione con il Naga mettiamo a disposizione uno sportello legale per seguire le procedure di richiesta d’asilo, soprattutto per i ragazzi che si trovano all’Hub di Bresso. Infine la seconda domenica di ogni mese organizziamo anche il mercatino dei produttori agricoli della rete Spazio Fuorimercato.
Problemi con il mondo criminale?
Niente di particolarmente grave.
A 500 metri da qui c’è un circolo, “Brusuglio in subbuglio” che con la Lega Nord ha tentato di organizzarsi per farci sgomberare.
In questo caso devo dire che sia SEL che il PD non hanno fatto eccessivi problemi evitando la levata di scudi contro di noi.
Abbiamo avuto qualche provocazione da parte di piccola criminalità legata a circoli neofascisti, come questo Brusuglio in subbuglio, che nell’ultima tornata è diventato sede elettorale di Casa Pound per le amministrative.
E’ interessante il fatto che su Facebook qualche esponente di destra del quartiere cerca di attaccarci, ma in rete ci sono personaggi che noi non abbiamo mai visto nello spazio, che prendono le nostre difese dicendo, per esempio che paghiamo le bollette.
Comunque, come vi dicevo piccole robe da piccola criminalità.
L’evento più grosso è stato il rogo di un motorino davanti a RiMake, ma non abbiamo mai capito le reali dimensioni di questo episodio. Se fosse contro di noi o legato a vicende…come dire…criminali di quartiere…
Una volta si è presentato all’ingresso un personaggio armato, poi abbiamo scoperto che era una scacciacani, ma non è stato un bel momento.
Anche la riflessione sul diritto all’abitare ha delle difficoltà legate alla criminalità, non dovute a scontri o problemi concreti, ma alla riflessione su quale intervento puoi fare in zone dove le case popolari sono invase dalla criminalità, come ti poni? È una riflessione aperta.
Com’è stato il confrontarsi con l’esperienza di occupare uno spazio?
Non era una cosa del tutto nuova.
Il collettivo è abbastanza vecchio dal punto di vista anagrafico, e l’occupazione non era una cosa del tutto nuova per i più grandi. I più giovani di noi avevano già attraversato l’esperienza dell’ex-CUEM.
Poi c’è stato il Maestoso, che non pensavamo durasse ed è infatti stata un buon test, e la durissima TAZ in Via Sammartini, sotto la Stazione Centrale.
L’occupazione di Ri-Make qui ad Affori è arrivata dopo una riflessione su altri posti che avevano visionato.
Questo Ri-Make nasce anche da un’esigenza sociale. Abbiamo dato anche alcune stanze per abitare, ma solo casi di emergenza e militanti dello spazio.
Ma abitare in uno spazio sociale è molto diverso rispetto ad abitare in un’occupazione abitativa.
Non si stacca mai con la militanza, è totalizzante, e noi non crediamo nella militanza totale.
In futuro vorremmo rendere questo spazio solo sociale per ragionare su un progetto abitativo.
È un collettivo che viene da un’esperienza totalmente diversa, che è cambiato molto, che ha perso lungo la strada alcuni compagni meno disponibili alle nuove modalità e pratiche, ma ha aggregato ragazzi nuovi più giovani .
Direi che siamo tra i 15 e i 30 con un giro largo di sostenitori.
Il legame con la rete Communia prevede una quota semestrale, diversa da nodo a nodo a seconda delle caratteristiche e delle possibilità dei diversi collettivi, noi ci autotassiamo.
Pensate che questo quartiere possa essere investito da un processo di gentrificazione?
Il sistema di sfruttamento capitalistico si sviluppa come sistema urbano anche in territori non urbani, e gli interessi si muovono anche in questo quartiere, che però ha forme di resistenza, un immaginario ancora da paese più che da quartiere e una composizione sociale ad alta presenza di migranti e famiglie a basso reddito.
Non so se Affori verrà investito da un processo di gentrificazione, ma credo di sì.
Milano continuerà ad avere un centro, una dimensione di “City” come a Londra, ma ci sarà un processo di sussunzione anche sulle periferie e su questo quartiere.
Anche il processo della città metropolitana avrà una sua incidenza.
Il passaggio dalla forma partito alla forma movimento è stata una scelta teorica o fa i conti con la crisi, più storica, delle forme partito soprattutto a sinistra?
Ci abbiamo ragionato tanto, abbiamo buona base di riflessione teorica con delle buone teste pensanti. C’è un ragionamento teorico e anche uno più storicamente determinato. Oggi ragionarci come limitati a certi ambiti e luoghi del conflitto, dove gestire e determinare le lotte non ha senso. Nella riflessione sulla crisi del movimento operaio e sulle sue forme e modalità ci ha portati a non vedere più nel partito uno strumento utile, è lontano ed è inavvicinabile da parte di generazioni cresciute nell’era berlusconiana, con un’opposizione di sinistra inesistente, che hanno naturalmente sfiducia verso tutto quello che “puzzi” di partito.
È una riflessione aperta, con la quale ci misuriamo anche nel confronto con altri partiti e organizzazioni nella cornice della Quarta Internazionale.
Lì ci confrontiamo anche con forme partitiche esistenti a livello internazionale, che a volte fanno fatica a capire l’esperienza di uscita dallo schema partitico. Più facile è farsi capire da quelle realtà che hanno vissuto la forza dirompente dei movimenti sociali nei propri Paesi, spagnoli e greci per esempio capiscono meglio il senso della fuoriuscita dalla forma partito.
Poi grande quesito è come passare dalla capacità di gestire singoli luoghi fisici a quella di gestire spazi urbani complessi…
Quindi da una parte chi, dentro la Quarta, rimane in una logica di partito fa fatica a capire la nostra scelta, dall’altra ci sono aree dell’autonomia che che ci dicono che siamo un partito e non ci riconoscono piena legittimità in ambito di movimento.
Noi crediamo che la forma partitica non abbia oggi alcun senso, quindi abbiamo scelto lo spazio del movimento, ma senza rinunciare all’organizzazione, che è anche trasparenza, ruoli operativi scelti collettivamente, formalizzati e messi a verifica continuamente. Non si crea l’autogestione dal nulla, e l’organizzazione è importante anche dal punto di vista della costruzione di occasioni formative.
Il conflitto generazionale c’è, come ovunque, ma i ruoli sono intergenerazionali, e ogni nodo partecipa.
Avete momenti di formazione formalizzati?
Ogni anno partecipiamo al campo della Quarta. Lì vengono organizzati molti momenti formativi, dai classici incontri frontali a workshop e incontri, c’è anche una grande ricchezza e varietà di contenuti e posizioni che si confrontano.
Poi ci sono scuole di formazione specifica, sempre a livello internazionale, la cosiddetta scuola quadri, e anche queste sono occasioni di confronto stimolanti, dove sono presenti sia realtà strettamente partitiche che pezzi di movimento più autonomi.
Anche dentro la Quarta c’è movimento e sperimentazione di soluzioni nuove, di rapporti più orizzontali e a rete, nascono anche rapporti bilaterali e le forme di organizzazione sono in discussione.
Oltre ai momenti internazionali abbiamo momenti di formazione nazionali. Ogni anno a Settembre il Communia Fest, momento di incontro di tutta la rete che definisce quel che faremo durante l’anno ma che, mi riferisco soprattutto all’ultimo, é servito come autoformazione e momento di confronto con altre realtà come, ad esempio, Genuino Clandestino
Nel corso degli anni abbiamo poi organizzato alcuni seminari tematici e di autoformazione a seconda delle esigenze della rete.
Nota dolente… Anche voi siete incappati nelle amorevoli attenzioni dello Stato?
Poi abbiamo alcune vecchie vicende legate all’Onda del 2008.
A Roma ci sono delle denunce per le cariche con gli idranti alla Sapienza in occasione di Make Faire.
Non abbiamo tante vicende giudiziarie e non abbiamo una struttura nazionale che gestisce i processi, ma una rete di avvocati che ci seguono.
Una valutazione sull’anno passato e le prospettive per il futuro?
E’ stato un anno durissimo e devastante per la città di Milano.
Abbiamo avuto la possibilità di riflettere su noi stessi.
La botta comunque è stata forte, c’è stato un vuoto di movimento notevole.
Napoli e Roma hanno avuto la capacità di costruire percorsi interessanti di reti cittadine, a Milano c’è il deserto.
Noi ci siamo spesi con la Nuit Debout e anche nella vertenza Marcegaglia.
Però c’era un disinteresse generalizzato.
Ognuno era interessato a costruire o ri-costruire se stesso…un’ermetica sopravvivenza insomma, ma poco interesse a rilanciare il movimento.
Stiamo riflettendo sulla necessità di una sede di discussione e coordinamento a livello cittadino. Ci chiediamo come uscire da questa empasse, come costruire percorsi di diritto alla città e relazioni su progetti comuni, ma non è facile. A Milano ti scontri con il disinteresse, con chi ha atteggiamenti egemonici, con chi si fa sussumere, con grandi distanze culturali, con chi è concentrato solo alla sopravvivenza, in un momento di difficoltà generalizzata vengono fuori tutte le spinte autoreferenziali. Nella crisi generale di consenso del movimento ognuno pensa alla propria sopravvivenza. Nel movimento ci sono anche grandi distanze e divergenze, però ci riconosciamo in quelli che hanno quell’approccio universale, maggioritario, di rifiuto dell’autoreferenzialità e della sovradeterminazione.
Il Pride ha e continuerà ad avere un insieme di identità e soggetti oppressi ai quali bisogna saper parlare.
Nel Pride bisogna esserci. Bisogna riappropriarsene altrimenti gli Stati Uniti, Israele, Google…o chi per esse fanno presto a sussumere e svuotare di contenuti di lotta le iniziative.
L’aver lanciato il NoExpo Pride l’anno scorso è stato utile e ha sviluppato delle contraddizioni interessanti.
Un’idea interessante sarebbe un Pride alternativo per mostrare il Pride che vogliamo. Lanciare un Pride alternativo di riappropriazione queer dello spazio urbano, però non bisogna abbandonare il pride, bisogna stare lì e fare battaglia.
Questo vale per tante situazioni contraddittorie e difficili: devi starci, non puoi voltarti dall’altra parte e fare il duro e puro, facendo così stiamo continuando, come movimento, a bucare le occasioni, a perdere dal punto di vista dell’immaginario.
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