“Storie di quartiere” – Intervista al Comitato Autonomo Abitanti Barona

 

13492856_10207929552491169_1604689949_nL’appuntamento è alle 18 in Piazza Miani. Al monumento per i partigiani.
Piazza Miani, centro della Barona vecchia e crocevia del traffico che da Famagosta porta ai quartieri occidentali di Milano e viceversa.
Ci avviamo verso Via Voltri, qui incontriamo S.
Ci buttiamo in un bar, il tipico bar di periferia, affollato da facce di tutti i colori e coda alle slot machine.
Due caffé e un gelato.
Da lì risaliamo Via Ovada, entriamo in uno dei cortili.
Qui, sedute in cerchio mamme che chiacchierano e bambini che giocano. Questi ultimi assediano letteralmente S. Per raccontargli ognuno la sua.
Entriamo in una delle case e iniziamo l’intervista.

L’appartamento in cui veniamo accolti è al piano terreno, ben presto diventa un porto di mare. I bambini entrano e giocano con quello che trovano, prendono dei fogli e si siedono al tavolo con noi a disegnare. Possiamo cominciare.
I ragazzi del CAAB insistono sulla presenza fissa nel territorio. Il dato politico è inscindibile dalle relazioni umane. Per fare politica e promuovere processi di autogestione è indispensabile partire dalla condivisione dei bisogni come appunto la casa. I ragazzi occupano perché ne hanno bisogno.
Questo dato parla molto di più di tante sovrastrutture ideologiche e evidenzia la diversità con alcune esperienze di centri sociali.
I centri sociali nei quartieri sono importanti fino a quando ci sono. Poi c’è lo sgombero che prima o poi arriva. E uno o due anni di lavoro politico saltano e ci si ritrova col culo per terra.
“…Pensa a Zam di Via Olgiati che in qualche modo era una vera potenza… Tutto il gigantesco lavoro politico fatto a livello di metropoli non ha avuto una vera ricaduta sul territorio ed è poi andato perso con lo sgombero del Maggio 2013.”

Il modo di fare politica dei centri sociali spesso fa fatica a relazionarsi coi territori che li circondano e il rischio dell’autoreferenzialità è sempre dietro l’angolo.
A vedere gli ultimi anni di movimento a Milano, sembra che i compagni, nella loro composizione sociale non siano più rappresentativi di certe fasce. È falso e questo succede perché è sempre qualcun altro a parlare di noi, media, giornalisti, politici, poliziotti. La realtà parla di una composita trasversalità sociale, appesantita dall’impoverimento della classe media. La precarietà come dato strutturale che ha devastato le sicurezze di molte famiglie. E i compagni ci sono, non sono mai scomparsi. È che non fanno rumore. Qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo sulla capacità del movimento di raccontarsi e autorappresentarsi. Ma sarebbe un discorso lungo e fuorviante. Sta di fatto che fa molto più rumore una fiaccolata di 20 stronzi della Lega o un banchetto dei nazisti di Forza Nuova piuttosto che il lavoro quotidiano in un quartiere popolare.

Quando i movimenti sono assenti i fascisti riemergono.

Com’è nato il CAAB – Comitato Autonomo Abitanti Barona? Quel è la composizione?
Guarda…l’età media è tra i 18 e i 26 anni. Gli attivisti sono soprattutto giovani.
Il primo gruppo che si è costituito era formato da ragazzi di quartiere o quantomeno di zona.
La primissima volta che ci siamo visti è stato perché Forza Nuova aveva fatto un banchetto in Via De Pretis anche se in realtà l’avvisaglia si era avuta nell’Autunno 2014 con il roboante annuncio dei 200 sgomberi nei quartieri popolari e le tensioni in Corvetto e Giambellino.
In questo quartiere ci siamo resi conto che, di fatto, non c’era nessun intervento politico. Abbiamo immediatamente capito che non si può quindi fare antifascismo solo quando arrivano i fasci senza avere solide basi in quartiere.
Altro elemento scatenante sono state le lettere di ALER mandate agli inquilini del quartiere Sant’Ambrogio – De Pretis che è qui dietro sul piano vendite frazionate degli appartamenti.
C’erano assemblee organizzate da ALER o Comune piene di migranti o di soggetti “deboli” che andavano ad informarsi, quando le istituzioni che fornivano loro le “informazioni” erano i loro più grandi nemici sul territorio! Abbiamo persino assistito ad assemblee della Lega (!!!) piene di inquilini stranieri che andavano a chiedere aiuto! Questo per far capire quanto bisogno c’è e che tipo di risposte invece ci sono.
Abbiamo organizzato una colazione anti-sgombero alla quale avevano partecipato delle famiglie mai viste prima e che non avevano mai fatto nulla di “politico” in vita loro. Da lì ci siamo scambiati i numeri ed è stato piuttosto semplice ribeccarsi.
All’inzio ci si riuniva nelle case e nei cortili.

Com’è avvenuto il consolidamento di questa esperienza?
All’inizio ci si incontrava nell’unica casa occupata in quartiere da un attivista.
Dopo ogni sgombero a cui non ci si riusciva ad opporsi si rilanciava occupando nuovamente.

Quanta gente gravita attorno al Comitato?
Alcune decine di persone. Molte di zona, Il livello di coinvolgimento è piuttosto elastico.
Se fai una festa di cortile c’è tanta gente. Alle colazioni anti-sgombero molta meno.
Magari la gente ha paura, sbattimento, lavora, ha molto da perdere…
Magari le famiglie non vengono agli sgomberi, ma fanno di tutto per aiutarti a restare qua.

Ci raccontate la storia del Bunker?
Allora…quando tutto è nato abbiamo cercato un po’ in giro…all’inizio pensavamo di fare uno squat…
In realtà non abbiam dovuto cercare molto…c’era un posto sotto il naso.
La vecchia sede della Democrazia Cristiana (risate) abbandonata in stato di degrado totale…
Quel posto veniva utilizzato alternativamente come antro oscuro dove giocavano di nascosto i bambini, luogo di spaccio, luogo di consumo di crack e altro. C’era un’alternanza totale tra illegalità e aggregazione informale.
Non bastava però metterlo a posto per renderlo vivo.
Bisognava organizzarci delle iniziative e così abbiamo fatto.
All’inizio ci sono stato un po’ di scazzi col balordume di zona che sentiva il posto come “roba propria” Qui il racket è completamente in mano agli Italiani…
All’inizio ci sono state minacce da parte del racket anche con qualche scontro fisico, ma se hai una presenza e un’organizzazione sei legittimato e sono loro a dover abbozzare.
Nel Settembre del 2015 è iniziata la scuola d’italiano nella sede dell’Associazione La Conta.
Una volta che il cortile si è reso contro che non portavamo “disagio” si è aperta un’interlocuzione.
Fare le feste dei cortili in qualche modo ha “sdoganato” il fatto che i bambini potessero giocare nei cortili, cosa che prima non era così scontata.

Altri passaggi?
Tra Agosto e Settembre sono partite altre occupazioni abitative, poi le feste della scuola d’italiano e le iniziative di restauro del Bunker.
A Dicembre ci siamo messi a lavorare sullo spazio ventre a terra.
Lo abbiamo riverniciato, tolto la lana di roccia dai tubi, lavori fatti con la gente del cortile…magari c’è chi fa il muratore o l’edile e quindi si gasava per questa cosa.
Dopo che abbiamo evitato uno sgombero in Viale Faenza abbiamo fatto un’assemblea con le famiglie.
Il Bunker è stato inaugurato “ufficialmente” a inizio 2016.
In tutto questo la scuola d’italiano è stata molto importante. All’inizio non c’era un programma definito.
Alla fine però è diventata un vettore politico e si è sviluppata grazie al passaparola in quartiere.
Avevamo 3 classi (due facili e una difficile) due volte alla settimana.
Gli insegnanti erano i ragazzi del Comitato e gente di Rifondazione e dei Gasp (Gruppi d’Acquisto Solidale).
Abbiamo così deciso di lasciare una classe aperta anche per l’Estate.

Com’è la composizione sociale dei cortili?
Italiani, nordafricani, salvadoregni, rumeni…

Come sono i rapporti con le altre realtà socio-politiche del quartiere?
Quando occupiamo, cerchiamo il dialogo con gli abitanti e le organizzazioni di zona.
Ora si sta cercando di mettere in piedi una biblioteca.
Una considerazione importante è che prima l’antifascismo era contestare i banchetti di Forza Nuova…ora l’antifascismo lo fanno i bambini delle varie etnie che giocano insieme in cortile!

A Maggio è arrivato lo sgombero del Bunker giusto?
Sì. Un vero peccato. C’era un doposcuola, un laboratorio e corsi di breakdance. Qui il quartiere era abbastanza vivo.
Lo sgombero è stato sentito soprattutto da bambini e famiglie.
Per i bimbi il Bunker era un po’ un posto magico.

Qui come viene sentita la presenza delle istituzioni?
Non ci sono! Vengono solo sotto forma di ALER e Polizia. Sempre e comunque a bastonarti, mai ad aiutarti. Se si presentano, è per toglierti qualcosa. Sicuramente non il contrario.

Anche qui si è sviluppata la tipica diatriba abusivi vs. regolari?
Noi abbiamo lavorato mettendo a disposizione l’organizzazione degli attivisti per rendere più vivibili i cortili, vedi per esempio il restauro delle panchine e dei portoni.
La classica accusa è:” Tu usufruisci di una cosa che non paghi. Inoltre togli un diritto a un’altra persona”.
Noi abbiamo cercato di rovesciare questo paradigma.
L’affitto non pagato viene restituito sotto forma di “servizio” alla collettività per rendere più vivibile il quartiere.
Ci sono dei piccoli conflitti sulla questione delle etnie che vengono superati con la convivenza e la prossimità quotidiana. Ci si conosce e via, via.. va a finire che ci si fida.
Un altro capitolo interesante sono le donne che spesso dimostrano una sensibilità più avanzata degli uomini. E magari sono donne delle famiglie più ostili!
Un episodio divertente succeso quest’Estate: un giorno c’è stato un furto in un appartamento, appena saputo siamo scesi in cortile per capire cosa fosse successo e la gente ci ha visti lì. Così la vox populi che si è diffusa nella via è che abbiamo inseguito e messo in fuga i ladri!
Che uno non sa se essere felice o preoccupato… Sta di fatto che non ci sono stati più furti.
Il dato reale è che quando c’è socialità e si vivono i quartieri, la criminalità cala.

Avete avvertito dei cambiamenti in quartiere nell’ultimo periodo?
Qui ci sono molti anziani. Ci sono pochi giovani, però è pieno di bambini. E poi ci siamo noi.
La vera sfida è vedere cosa rimarrà tra qualche anno quando magari non ci saremo, se i bambini che adesso stanno crescendo insieme a noi saranno proprio loro a portare avanti questa esperienza, questo modo di vivere insieme, solidale e comunitario.
Prima dell’arrivo degli attivisti qui c’era una forte “guerra tra poveri”, ora, in qualche modo, la situazione si è un po’ tranquillizzata. Non che sia diventato improvvisamente un paradiso…

I grandi movimenti per la casa del passato si ponevano l’obiettivo di grandi vertenze politiche per ottenere assegnazioni e sanatorie? Questi obiettivi sono ancora credibili o sono stemperati?
La realtà dei fatti è bella tosta. Non sembra che l’interlocutore sia particolarmente interessato.
Considera che l’ultima sanatoria è degli anni ‘90.
La frantumazione delle competenze tra ALER e MM rende le cose ancora più difficili.

Tema delicato. C’è una cesura con le vostre realtà e storie di provenienza?
No, non c’è alcuna cesura. Avevamo l’esigenza di provare a fare qualcosa di nuovo in quartiere.
Provare a dare una risposta alla solita frase sprezzante “quelli dei centri sociali” e trasmettere il fatto che siamo tutti sulla stessa barca.
Con le realtà da cui proveniamo, quindi, non c’è nessuna rottura. Frequentiamo le stesse feste, gli stessi ambienti e facciamo le lotte insieme.

I centri sociali sono utili nella dimensione della lotta territoriale?
Qui in Barona non c’è l’invasione dei centri sociali.
Ci sono presenze solidali nei momenti degli sgomberi e delle iniziative grosse.
Queste presenze vengono raccontate come “i ragazzi di Piazza Abbiategrasso”, “i ragazzi di Lambrate”, “i ragazzi di Giambellino” e così via per non provocare subito il pregiudizio tipico contro i “ragazi dei centri sociali”. Perchè si sa, la nomea che ci accompagna non aiuta.
Solidarietà è solidarietà e ovviamente quando c’è uno sgombero non chiedi i passaporti.
Quest’Estate per esempio, abbiamo previsto una serie di iniziative in zona Sud con ZAM e GTA tra Giugno e Luglio.
L’importante è cercare di uscire dall’idea di centro sociale come “riserva indiana” un po’ rinchiusa in se stessa e un po’ autoreferenziale che fa tanto anni ‘80.
Ecco un esempio concreto delle dinamiche che dobbiam cercare di scardinare: un giorno, questo Autunno, abbiamo organizzato una castagnata di cortile. Sono venuti in parecchi, compresi tanti compagni solidali. Si sono formati dei cerchi concentrici. Nel primo cerchio i militanti del CAAB, nel secondo cerchio i militanti delle realtà amiche e nel terzo cerchio gli abitanti e la gente comune. Si è creata questa dinamica per cui i compagni, per rendersi utili, passavano le castagne agli abitanti che se ne tornavano nella loro “cerchia”, andando a confermare quella dinamica “volontaristica”, generosa e genuina, per carità, tipica di un certo modo di fare militanza. Alla fine dell’iniziativa i compagni erano entusiasti e ci ringraziavano. Noi invece non eravamo per niente contenti, abbiamo avuto la rappresentazione plastica di una dinamica da ribaltare completamente.
Dovevamo rompere questi cerchi identitari e autoescludenti e volevamo le famiglie mescolate ai compagni sotto il fuoco a cucinar le castagne.

Da quel che ci sembra di capire sono fondamentali i bisogni materiali?
Sì. Per primo quello di una casa. Non si può combattere questo modello economico e sociale solo nel “tempo libero” che uno ha disposizione tra una fatica e l’altra.
Va costruito all’interno del quartiere un’ipotesi diversa. E’ una scommessa tosta, ma bisogna provarci.
Del resto, anche nella Milano arancione di Pisapia, fuori dalla circonvallazione spesso si trova solo emergenza e disagio.
Molti di noi poi, hanno un’attitudine da “ragazzi di quartiere” e ce la portiamo dietro anche se cambiamo quartiere di intervento.

Non trovate che esperienze come la vostra hanno una certa difficoltà a raccontarsi alla metropoli rischiando di scadere anch’esse nell’autoreferenzialità?
All’inizio volevamo avere come referente il quartiere e solo quello. Non ci piaceva come ci raccontavano i grandi media, ci bastava essere raccontati dal quartiere col passaparola.
Ma ci siamo resi contro che anche questo è un limite.
La vera forza non sta nell’essere raccontati ma nel raccontarsi.
Quest’intervista, per esempio, non è un fine, ma un mezzo.
La speranza è spargere dei semi che possano poi essere riproducibili ovunque da altri.
Lanciamo anche a voi una sfida…ci piacerebbe che MiM fosse letto non solo dagli strati militanti e amici, ma anche dalla gente del quartiere, che fosse un mezzo attraverso cui gli abitanti parlano e si riconoscono. Perché crediamo che lo sforzo di trovare le parole per raccontarsi sia un passo in avanti per la consapevolezza di sé e del mondo. Che aiuti anche ad ascoltare. E vedrete poi che biografie che ci sono…

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Una risposta a ““Storie di quartiere” – Intervista al Comitato Autonomo Abitanti Barona”

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