“La Mala. Banditi a Milano” – Quando la realtà superava la fantasia

Ci è capitato più volte negli ultimi anni di parlare del mondo criminale della Milano degli anni Settanta e Ottanta.

Sia per recensire libri che per criticare una certa vulgata (molto cara alla destra, ma non solo) che dipinge la nostra città in preda all’insicurezza quando invece tutti i dati raccontano una realtà totalmente differente.

La vera e propria memoria selettiva che dipinge una presunta età d’oro milanese di qualche decennio fa è quanto di più falso possa esistere e ora ci ha pensato una docuserie targata Sky a dare un ulteriore colpo (speriamo definitivo, ma ne dubitiamo fortemente) a questa narrazione menzognera. Stiamo parlando di La Mala. Banditi a Milano.

Le cinque puntate attraversano un periodo incandescente della storia della nostra metropoli: quello che va dall’inizio degli anni Settanta a metà degli anni Ottanta. Lo snodo simbolico posto dagli autori a decretare la fine di un’epoca è l’arresto e il pentimento, nel 1984, di Angelo Epaminonda detto “il Tebano”e l’ultima evasione risucita di Renato Vallanzasca nel 1987.

Le vicende narrate hanno riempito le pagine di moltissimi libri, sia di gialli ambientati a Milano che di saggi sulla criminalità, per non parlare di una serie di film che già una cinquantina di anni fa, quasi in presa diretta, raccontavano quelle vicende, due tra tutti: Milano calibro 9 e Milano odia, la Polizia non può sparare. Ma si sa, la memoria non è sicuramente la prima delle virtù degli italiani perché, si potrebbe riassumere che: “Ricordare stanca” e quindi ecco trionfare la narrazione, tutta ideologica e utile a una certa politica, del “si stava meglio…” e della bella Milano (immaginaria) dei tempi andati rispetto alla Milano dei giorni nostri “piena di immigrati” (niente paura, lo dicevano anche cinquant’anni fa, semplicemente cambiava l’accento) e di “giovani violenti che non hanno voglia di lavorare” (e pure questo è un eterno leitmotiv).

Ma torniamo alla serie. Già l’incipit è indicativo:

Oggi Milano è la capitale economica dell’Italia, ma tra gli anni ’70 e ’80 era la capitale del crimine.

Assassini, terroristi, banditi, mafiosi.
Erano tutti qui.

Rapine milionarie, evasioni, sequestri di persona e centinaia di omicidi sono il passato dimenticato della città.

Tutto drammaticamente corretto. Forse solo il titolo di “capitale del crimine” potrebbe essere eccessivo. Questo perché anche in città come Napoli e Palermo (ma anche in tante altre) non si scherzava. Diciamo che essendo Milano la città italiana dove già allora giravano più soldi, l’attenzione e gli appetiti criminali erano probabilmente più grandi.

Le puntate della serie si snodano attraverso la narrazione delle due parti in commedia: le guardie e i ladri. Da un lato ci sono i racconti di poliziotti e magistrati, dall’altro quello di alcuni grandi nomi della criminalità meneghina. In mezzo, alcuni interventi di cronisti e croniste che per anni si sono occupati di nera e giudiziaria e di alcuni avvocati come il vulcanico e simpatico Salaroli.

Assistiamo quindi al racconto dell’onnipresente Achille Serra che, compie una rapidissima scalata e da semplice poliziotto arrivato a Milano nel cruciale 1969 in pochissimo tempo diventa capo della Mobile, capo della Digos e Questore di Milano, quest’ultimo ruolo ricoperto nei primi anni Novanta, il periodo di fuoco della vicenda del Leoncavallo. Serra lascia il ruolo di Questore poco prima della celebre manifestazione del 10 settembre 1994 rimasta negli annali per non essere stata propriamente un trionfo per la Polizia… Altro narratore di discreto fascino è il magistrato Alberto Nobili protagonista delle grandi inchieste sulla ‘ndrangheta calabrese, ma che noi conosciamo meglio per le indagini sul Primo Maggio NoExpo o per le ultime perquisizioni agli attivisti per la giustizia climatica.

Dall’altro lato della barricata i racconti di personaggi con decenni di anni di carcere sul groppone come Vallanzasca, Stefanini, Monopoli… Con i loro accenti milanesissimi e per i quali si prova una immediata, istintiva simpatia.

Il piatto più gustoso sono sicuramente le immagini di repertorio e la foto d’epoca che riescono a dare un volto a ognuno dei personaggi citati nonché le registrazioni di interrogatori e interviste di Epaminonda la cui voce da basso sembra quasi guidare la narrazione.

Col passare dei minuti veniamo quindi catapultati nella metropoli di alcuni decenni fa e vediamo comparire i nomi che, come scrivevamo all’inizio, hanno riempito pagine e pagine di giornali e di libri (e di atti giudiziari). In ordine assolutamente casuale: Francis Turatello, Renato Vallanzasca, Angelo Epaminonda, Luciano Liggio, Totò Riina, Raffaele Cutolo, Santino Stefanini, Osvaldo Monopoli, Rossano Cochis, Antonio Colia, i fratelli Mirabella, Jimmy Miano, Vincenzo Andraous, Pasquale Barra giusto per citare i primi che ci vengono in mente.

Articolo dell’Unità sulla strage del Moncucco del 1979, uno degli episodi più gravi nella storia criminale di Milano.

La sensazione sottotraccia che sembra emergere è che mentre la Milano di un certo gangsterismo che finisce appunto col pentimento di Epaminonda riempiva le prime pagine dei giornali, in silenzio, come ammette lo stesso Nobili, i calabresi si installavano prima nell’hinterland per poi papparsi, lentamente ma non troppo, l’intera città come verrà raccontato nel memorabile libro, vera pietra miliare della narrativa noir, Manager calibro 9.

Tutto estremamente avvincente e ben narrato quindi. Unica nota dolente: la parte politica. Sì, perché quando si accenna a piazza Fontana, al movimento studentesco o alla lotta armata si rischia di cadere nelle solite frasi fatte e semplificazioni come quella dei “poliziotti poveri proletari” che però, guarda caso, difendevano gli interessi dei ricchi e ricchissimi industriali e del ceto politico democristiano contro le sacrosante rivendicazioni di operai e studenti che volevano portare fuori l’Italia dalle sabbie mobili dell’immobilismo e chiedevano maggiori diritti dopo che la ricostruzione era stata fatta col sudore delle classi più povere.

Insomma, una città a tinte noir, con decine di omicidi ogni anno e dove l’elemento che più salta all’occhio, di reale differenza con oggi, era la paura dei ricchi e dei ceti dominanti: paura per l’assalto alla loro ricchezza e alla loro incolumità, che fosse un assalto politico o criminale poco importa.

Nulla a che vedere con la Milano di oggi, impaurita dalle risse tra giovani del week-end, da una scritta sul muro di una multinazionale o dai rappers di San Siro. Anche se va detto, certe dinamiche di aggregazione di strada attuali fanno venire alla mente le prime mosse delle batterie di ragazzi di strada degli anni Sessanta che negli anni successivi si sarebbero mangiati la città. Ma è solo una sensazione, un’intuizione. Niente di più. I prossimi anni ci diranno di più a proposito.

 

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