“Le grandi dimissioni”, se il lavoro non mi ama perché devo amare il lavoro?

“Ma che contratti, passione ci vuole!”.
(Sergio ad Alessandro in Boris)

“‘sti giovani non hanno più voglia di lavorare”.
“E fanno bene cazzo!”.
(conversazione in un bar di Milano)

“E’ possibile pagare la spesa con una grande opportunità di crescita?”.
(Frank Gramuglia)

Abbiamo deciso di iniziare la recensione del libro Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita di Francesca Coin (Einaudi, 2023) con tre citazioni illuminanti su quello che è stato il mondo del lavoro negli ultimi 30 anni in Italia e sulla reazione che sempre più massivamente sta iniziando a serpeggiare, nonostante le armi di distrazione di massa messe in campo dai media mainstream e la quasi totale assenza di un referente politico capace di indirizzare il sentire di molte persone.

Il libro è probabilmente la prima e unica ricerca sul tema delle grandi dimissioni nel nostro paese, sul quale si è invece molto discusso nel mondo anglosassone e in particolar modo negli Stati Uniti, che sono stati il “caso scuola” di questo fenomeno esploso in maniera vertiginosa dopo la grande pandemia di Covid. Per moltissimi/e proprio il disastro sanitario del 2020 è stato un momento di epifania, la classica goccia che fa traboccare il vaso quando, come scrive la Coin:

“…milioni di persone si sono rese conto che il luogo in cui lavoravano non era una grande famiglia. Il sacrificio e la devozione richiesti non ricevevano un adeguato riconoscimento. Spesso, anzi, chi lavorava è stato usato come agnello sacrificale”.

Ed è proprio dagli Stati Uniti, epicentro del fenomeno, che parte l’analisi dell’autrice che definisce la grandi dimissioni come un vero e proprio sciopero generale non dichiarato da parte di coloro che spesso e volentieri non si sono mai potuti permettere una tutela sindacale. Da notare come i più preoccupati di questa situazione siano proprio i think tank stampelle ideologiche dell’establishment neoliberista, per i quali il nuovo rifiuto del lavoro (unito ad un’alta conflittualità che sta caratterizzando specialmente il mondo dell’impiego anglosassone) rappresenta una gravissima minaccia alla stabilità del sistema. Da questa prospettiva, è possibile comprendere come la scelta di una politica di aumento dei tassi di interesse cui, solitamente, consegue un’aumento della disoccupazione, sia una scelta eminentemente politica e di classe per contrastare il nuovo protagonismo, nelle sue varie declinazioni, del mondo del lavoro. Si alzano i tassi, insomma, non per contrastare l’inflazione – che, va ricordato, è prodotta dai profitti e non dai salari – ma per bastonare lavoratori e lavoratrici.

Si passa ad analizzare poi l’interessantissimo caso cinese che, sin dai tempi della vittoria della destra del Partito Comunista Cinese con Deng Xiaoping, ha fatto dell’iperlavorismo (favorito dall’impostazione confuciana) un vero dogma ideologico in tutto e per tutto simile a quello nel neoliberismo occidentale. In Cina, dunque, sempre più giovani decidono di disertare il lavoro, perché quest’ultimo non riesce più a garantire l’aumento del benessere iniziato negli anni Ottanta e che sembra essersi inceppato.

Si passa poi a quella che viene definita l’anomalia italiana; come spiega l’autrice in un’interessante intervista rilasciata a Collettiva:

“Si tratta di un quadro diverso rispetto a quello per l’appunto degli Stati Uniti, dove nel biennio 2021-2022 a una dimissione si potevano comparare due potenziali posti liberi di nuova occupazione. In Italia invece abbiamo un posto ogni cinque disoccupati, una bella differenza… E questo scoraggia, perché l’elevato tasso di disoccupazione a chi pensa di abbandonare il lavoro non fa sperare di trovare di meglio, anzi. Questo però è l’aspetto politicamente interessante, non marginale: perché ci si dimette comunque, e dovremmo chiederci come mai. La mia prima risposta sono i salari bassi, un lavoro sempre più povero. Se ne discute poco, ma è un’emergenza nazionale, anche perché da qui nascono discriminazioni, forme varie di mobbing, una scarsa possibilità di controllare turni e orario da parte dei lavoratori. Ma è la scarsa remunerazione il maggior disincentivo al lavoro, il grimaldello che scardina gli equilibri”.

Successivamente, dopo aver fatto accenno al vergognoso dibattito italiano sul reddito di cittadinanza (ennesima vittoria del fronte neoliberista, che ha visto compatti all’attacco padronato, media mainstrem, destra e liberl nostrani), il cui scopo principale è garantire la possibilità di tenere bassi i salari per permettere al capitalismo – familista e non – innovatore del nostro Paese di continuare a competere sui mercati, Coin esplora lo scenario sconfortante che emerge in diversi settori, dei quali vengono raccolte e raccontate le testimonianze dirette di coloro che hanno deciso di mollare il colpo. I settori analizzati sono la sanità, la ristorazione (epicentro del piagnisteo padronale contro i giovani fannulloni), la grande distribuzione e il lavoro culturale (che forse, insieme a quello dell’istruzione, avrebbe potuto essere maggiormente approfondito essendo un caso studio particolarmente interessante relativamente al valore che in Italia viene dato non solo al lavoro in generale, ma a certe occupazioni che altrove sono ancora considerate di primaria importanza). Lo scenario che ne emerge è deprimente. In tutti questi settori la pandemia ha esercitato un ruolo fondamentale nella presa di coscienze dell’intollerabilità della situazione, una vera e propria illuminazione.

Pur essendo settori lavorativi molto diversi, il quadro che emerge è sempre lo stesso:

-salari bassi;
-precarietà e sfruttamento;
-orari flessibili all’ennesima potenza;
-continui ricatti emotivi e spesso mobbing in tutte le sue possibili declinazioni;
-sostanziale assenza di rappresentanza sindacale;
-deterioramento e sconfinamento nella vita privata.

Il disastro italiano fatto di trent’anni di moderazione salariale, precarizzazione e atomizzazione delle posizioni lavorative, sfiducia verso l’agire collettivo come strumento di conquista di diritti, pervasività dell’ideologia neolibersita anche nelle sue vittime e trionfo della rendita immobiliare ha portato all’attuale palude. Ma se in superficie tutto sembra tranquillo, più sotto le vibrazioni di un progressivo sgretolamento iniziano a sentirsi. Di fronte a un lavoro incapace di garantire un miglioramento economico e sociale si diffondono un nuovo rifiuto giovanile e anche lotte durissime, seppur parcellizzate in alcuni dei settori maggiormente sfruttati (e la stessa opera di “supplenza” della magistratura con iniziative contro alcuni giganti accusati di sfruttamento e caporalato è significativa). Da parte sua, con la campagna a spron battuto sul tema del reddito e degli affitti studenteschi di quest’estate, la destra di governo (e non solo) sta provando in tutti i modi a distrarre gli animi. Converrà dunque battere il ferro finché è caldo.

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