Le METAstasi della democrazia liberale

Il denaro non ha odore, ma a partire da un milione comincia a farsi sentire (Tristan Bernard)

Ai più non sarà sfuggita la notizia: il 20 gennaio di quest’anno, Donald Trump ha raggiunto il Campidoglio per la sua seconda cerimonia di insediamento presidenziale. L’obiettivo di queste righe non è quello di commentare l’evento in sé, per la buona fortuna di chi le leggerà. Ci si concentrerà, almeno per dare avvio al ragionamento, sul fatto che il comitato organizzatore della cerimonia sia riuscito a raccogliere una somma di denaro da record, ottenuta grazie alla partecipazione di importanti donatori, tra i quali spiccano molte figure provenienti dal mondo del business a vocazione tecnologica.

Naturalmente, la consuetudine di contribuire finanziariamente agli insediamenti presidenziali da parte delle grandi aziende non rappresenta una novità dell’era Trump. Questo genere di eventi offrono da sempre l’opportunità di consolidare le relazioni con l’amministrazione in carica e di rafforzare quindi l’interdipendenza tra il settore privato e il potere esecutivo, spesso aggirando i principi di trasparenza e neutralità che sono fondamentali – nella vulgata liberal-democratica – per il sano funzionamento della democrazia liberale medesima.

Le multinazionali comunemente note come Big Tech – Alphabet/Google, Amazon, Apple, Meta/Facebook, Microsoft e poche altre aziende – hanno donato somme considerevoli, stimate nell’ordine di milioni di dollari. Ecco qualche nome e qualche cifra: Sam Altman, CEO di OpenAI, ha dichiarato attraverso un portavoce che avrebbe fatto una donazione personale di un milione di dollari. Anche Mark Zuckerberg, a capo di Meta, ha donato un milione. Il Wall Street Journal ha riportato che l’amministratore delegato di Amazon, Jeff Bezos, si è offerto di trasmettere la cerimonia su Amazon Prime Video, che equivarrebbe, con poca sorpresa, a una donazione di un milione. Il 18 dicembre dell’anno scorso, Dara Khosrowshahi, CEO di Uber Technologies, aveva deciso di donare la stessa cifra (per tutte queste cifre cfr. Second inauguration of Donald Trump). Anche Alphabet/Google ha contribuito con un milione (un aumento notevole rispetto ai 285.000 dollari donati per l’inaugurazione del 2017) e Microsoft ha confermato la donazione della medesima somma (cfr. Google and Microsoft donate $1m each to Trump’s inaugural fund).

Al di là delle donazioni legate alla cerimonia di insediamento, Elon Musk, CEO di Tesla, Space X e proprietario del social network X, ha contribuito con quasi 280 milioni ad America PAC, il fondo creato dallo stesso Musk per sostenere la più recente (e ci auguriamo l’ultima) campagna presidenziale di Trump (cfr. Nicolò Corbinzolu, Elon Musk ha speso oltre 250 milioni di dollari per sostenere Trump).

Autorità e servilismo vanno sempre di pari passo (Pëtr Kropotkin)

Tuttavia, il sostegno a Trump da parte di esponenti di spicco delle Big Tech varca il confine del supporto economico, per configurarsi come vero e proprio riposizionamento politico e culturale.

Recentemente, il Washington Post ha deciso di non pubblicare una vignetta satirica della vignettista Ann Telnaes, che raffigurava il proprietario del giornale, il già citato Jeff Bezos, insieme ad altri leader del settore tecnologico, inginocchiati davanti a una statua del presidente Trump, intenti a offrire sacchi di denaro (cfr. La vignetta non pubblicata su Jeff Bezos che ha fatto dimettere una vignettista del Washington Post). Degna di nota anche la recente scelta di cambiare lo slogan che compare sotto la testata: da “Democracy Dies in Darkness” – “La democrazia muore nell’oscurità” – a un più nazional-popolare “Riveting Storytelling for All of America” – “Narrazione avvincente per tutta l’America”.

Molta più eco hanno avuto le notizie riguardanti il cambio di rotta di Meta, l’azienda dietro a Facebook e Instagram. Anche in risposta agli eventi di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, Mark Zuckerberg decise di impegnarsi nel rendere più efficace la moderazione dei contenuti sulle sue piattaforme. La scelta fu tutt’altro che spontanea: rappresentò la risposta alla crescente pressione, anche istituzionale, sui social media affinché adottassero misure più rigorose contro la disinformazione e l’incitamento alla violenza. Il 7 gennaio di quest’anno, Zuckerberg ha annunciato la cessazione del programma di fact-checking sul territorio (digitale) degli Stati Uniti. Il programma si avvale (ma per gli USA sarebbe necessario utilizzare il tempo imperfetto) della collaborazione delle organizzazioni certificate dall’International Fact-Checking Network (IFCN), che dal 2015 riunisce le realtà impegnate nel contrasto alla disinformazione (le famigerate fake news). La decisione di interrompere il programma è accompagnata dalla dichiarazione dell’azienda di voler promuovere la libertà di espressione, laddove, con un’operazione semanticamente funambolica, il fact-checking viene equiparato alla censura. In sostituzione, l’azienda introdurrà le Community Notes, un sistema simile a quello implementato da Elon Musk su X, che affida agli utenti la responsabilità di aggiungere contesto e correggere eventuali errori nelle informazioni condivise e che, soprattutto, permetterà di depennare il fact-checking dal capitolo dei costi nel bilancio di Meta.

Per evitare le consuete contrapposizioni semplificanti da social media (per l’appunto), occorre osservare che l’efficacia del fact-checking è da tempo oggetto di dibattito. Una revisione di 30 studi pubblicata nel 2019, che hanno coinvolto oltre 20.000 partecipanti, ha evidenziato che sui temi polarizzanti e divisivi – Brexit, fatti di Capitol Hill, genocidio del popolo palestinese – le segnalazioni risultano meno efficaci nel correggere le convinzioni errate (cfr. Il fact checking sui social serviva a qualcosa?).

In effetti, presentarsi a CasaPound con una decina di ottimi manuali di Storia Contemporanea difficilmente porterà i sedicenti post-fascisti all’abiura del fascismo: i fatti vanno appurati non per convincere qualcuno, ma, per esempio, a beneficio di coloro che non si sono ancora fatti un’idea su un argomento. Perciò l’obiettivo non può essere quello di individuare il “sistema giusto”, con consegna “chiavi in mano”, che metta al riparo dalla disinformazione, ma quello di proporre semmai il ”metodo giusto” per farsi un’idea; che passa necessariamente dall’abitudine al dubbio e dall’esigere che qualsiasi affermazione presente sui mass media (social o meno) sia dimostrabile e corredata dalle relative fonti. Appare tuttavia implausibile che questa prassi diventi “di massa” in tempi brevi: è quindi probabilmente conveniente che la verifica dei fatti sia deputata a professionalità e competenze dedicate, soprattutto dopo decenni di abitudine alla fruizione passiva delle notizie (“L’hanno detto al telegiornale!”).

Questo apparente détour rispetto al tema principale, ha la sua ragion d’essere in un contesto in cui i social media hanno profondamente trasformato i meccanismi dell’informazione, nella direzione della privatizzazione dell’agone politico. La decisione di Jack Dorsey, ex CEO di Twitter, di bandire Donald Trump dalla piattaforma dopo l’assalto a Capitol Hill e la successiva acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, che ha revocato tale divieto, hanno già evidenziato questo nodo cruciale: la crescente influenza di attori privati nella gestione dello spazio del dibattito pubblico. Questa dinamica solleva parecchi interrogativi sulla capacità delle democrazie liberali di preservare uno spazio di confronto politico autentico e pluralista, imprigionato all’interno di piattaforme gestite da aziende private che agiscono sulla base di logiche economiche e interessi individuali. La questione centrale è se tali sistemi politici possano continuare a sopravvivere, in un contesto in cui le regole del discorso pubblico sono decise da un’oligarchia, anziché da meccanismi democratici trasparenti e inclusivi, almeno sulla carta.

La sfilata degli oligarchi americani all’inaugurazione della nuova presidenza Trump.

Ma non raccontare a me che cos’è la libertà (Francesco Guccini)

È la stessa retorica adottata da Zuckerberg, laddove sbandiera la libertà di espressione e si scaglia contro la censura , a somigliare molto a quella di Trump.

Apparentemente dissonanti, almeno nei toni, le nuove linee guida di Meta; i contenuti rimangono inquietanti: “Le persone a volte usano un linguaggio che esclude esplicitamente un sesso o un genere quando parlano dell’accesso a spazi spesso limitati in base a sesso o genere, come l’accesso a bagni, scuole specifiche, forze armate specifiche, forze dell’ordine o ruoli di insegnamento e gruppi sanitari o di supporto. Altre volte invitano all’esclusione o all’uso di un linguaggio offensivo quando si trattano argomenti politici o religiosi, ad esempio quando si parla di diritti delle persone transgender, immigrazione oppure omosessualità. Talvolta, infine, le persone esprimono insulti contro il genere opposto nell’ambito della rottura di una relazione. Le nostre normative sono pensate per lasciare spazio a questi tipi di discorsi” (cfr. la nuova policy di Meta e in particolare la pagina Comportamento di incitamento all’odio).

Se l’interpretazione è corretta, saranno apertamente permesse le affermazioni offensive nei confronti delle minoranze, delle donne e dei migranti, per esempio, in nome della libertà di parola.

Naturalmente, della libertà di parola non importa niente a nessuno e, per tentare di fare luce sulle vere motivazioni di Zuckerberg, sarà utile toccare un altro aspetto del nuovo corso di Meta: l’abbandono dei programmi interni di diversità, equità e inclusione (DEI), l’ennesima conferma di come l’azienda si stia riposizionando dopo l’elezione di Trump (cfr. Meta interromperà i suoi programmi interni di diversità e inclusione).

Come già scritto per il fact-checking, anche in questo caso si tratta di tentare di restituire la complessità del tema. In generale, i programmi DEI hanno indubbiamente prodotto effetti benefici nei contesti lavorativi. Tuttavia, tali iniziative si rivelano insufficienti nello scalfire le cause strutturali delle discriminazioni, inseparabilmente radicate nell’essenza stessa del sistema capitalistico che è, per definizione, orientato alla massimizzazione del profitto. Meta mostra il suo volto autentico, che poi è lo stesso volto del capitalismo: le politiche di inclusione sono sostenute solo finché sono profittevoli e abbandonate quando non lo sono più.

Quando chi sta in alto parla di pace, la gente comune sa che ci sarà la guerra (Bertolt Brecht)

Nonostante il presidente Trump abbia espresso il desiderio di essere ricordato come un pacificatore, il supporto ricevuto dalle Big Tech non è certo un elemento tranquillizzante in tal senso.

Per inquadrare il contesto sarà utile appropriarsi del concetto di “complesso militare-digitale”, per definire l’integrazione sistemica tra le principali multinazionali tecnologiche statunitensi e l’apparato militare e di sicurezza nazionale USA.

Tale integrazione configura un modello di potere che ridefinisce le dinamiche del capitalismo contemporaneo, favorendo una concentrazione senza precedenti del potere economico e tecnologico, contribuendo all’escalation di tensioni e conflitti internazionali (cfr. Dario Guarascio, I monopoli ai tempi del complesso militare-digitale).

I riposizionamenti fin qui analizzati delle Big Tech e in generale delle aziende della Silicon Valley marcano una discontinuità rispetto al passato recente, evidenziando un cambiamento di tipo ideologico, politico ed etico.

Sul piano ideologico, si è assistito a un netto passaggio dall’utopia anarco-capitalista, che promuoveva un’economia di rete orizzontale, priva di barriere burocratiche e istituzionali, a un assetto dominato da monopoli globali, accompagnati da una crescente accettazione dello Stato come partner strategico.

Sul piano politico, il Capitale dimostra per l’ennesima volta di non avere alcuna preferenza in tal senso. La Silicon Valley, finora tradizionalmente percepita come un baluardo progressista (a eccezione di alcune figure come Peter Thiel), vira ora esplicitatemene a destra.

Infine, sul piano etico, la narrazione di un mondo post Guerra Fredda, armonioso e finalmente pacificato, è stata sostituita da una realtà di giganteschi monopoli coinvolti attivamente nelle strategie militari. Per esempio, i profondi legami di Microsoft con le forze armate israeliane sono stati recentemente rivelati in un’inchiesta condotta da The Guardian insieme alla pubblicazione israelo-palestinese +972 Magazine e a un’agenzia in lingua ebraica, Local Call. L’inchiesta, che si avvale anche di interviste con fonti dell’establishment della difesa e dell’intelligence israeliana, getta nuova luce su come le Israel Defense Forces (IDF) si siano rivolte alle principali aziende tecnologiche statunitensi per soddisfare le loro esigenze strategiche. Dopo aver lanciato l’offensiva a Gaza nell’ottobre del 2023, le IDF si sono trovate di fronte a un’improvvisa richiesta di memoria e potenza di calcolo, che le hanno portate a espandere rapidamente la propria infrastruttura informatica e ad abbracciare quello che un comandante ha descritto come “il meraviglioso mondo dei fornitori di cloud” (cfr. Revealed: Microsoft deepened ties with Israeli military to provide tech support during Gaza war).

Le Big Tech, grazie alle competenze e alle dotazioni infrastrutturali – come la gestione dei cavi sottomarini , il controllo dei satelliti, lo sviluppo di algoritmi avanzati e l’investimento in ricerca e sviluppo – si configurano quindi come partner strategici per gli Stati, che vedono in esse strumenti funzionali al rafforzamento della propria sorveglianza e influenza in politica estera. In cambio, gli Stati facilitano la penetrazione nei mercati esteri, garantiscono l’accesso ai dati riservati dei cittadini, consentono deroghe normative e forniscono ingenti finanziamenti pubblici. Tale simbiosi risulta particolarmente evidente nella competizione strategica contro la Cina, dove la collaborazione tra governi e aziende tecnologiche si orienta verso un’alleanza di natura economica, tecnologica e militare, con l’obiettivo di preservare la supremazia occidentale.

La chiave di lettura indispensabile per comprendere il contesto attuale rimane il concetto di “imperialismo”, non già come categoria fuzzy tanto amata dagli esperti di quella pseudo-scienza che è la geopolitica, ma proprio come lo definì Lenin ne L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. L’imperialismo è appunto la fase del sistema capitalistico in cui la concentrazione del Capitale e le esigenze di espansione territoriale degli Stati si intrecciano, dando origine a continui conflitti e a tentativi di dominio globale. Lenin identificò nell’imperialismo non solo un fenomeno economico, caratterizzato dalla ricerca di nuovi mercati e risorse naturali, ma ne sottolineò la dimensione politica e militare, con il rafforzamento degli Stati attraverso la conquista e il controllo delle aree periferiche, in cui le esigenze del Capitale trovano espressione nella politica estera degli Stati, spesso giustificando interventi militari e politiche coloniali, con i soliti pretesti ideologici e di sicurezza a corredo.

Mala tempora currunt sed peiora parantur (e un caro saluto al ministro Valditara).

* in copertina la vignetta di Ann Telnaes censurata dal Washington Post di proprietà di Jeff Bezos

neticoconsulente informatico e hacktivista

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