Ma che razza di cittadinanza? Note a partire dal libro di Camilla Hawthorne
La costruzione dello stato-nazione si basa su tre elementi costitutivi: un territorio con dei “confini” immaginati e riconosciuti, una popolazione al suo interno e un governo che impone le proprie regole su questi due elementi. Per sua stessa natura lo stato definisce una linea di demarcazione tra ciò che è interno ed esterno, in particolare la distinzione fra “la propria popolazione” e i non cittadini. Per circostanze geografiche e storiche specifiche, ogni stato ha previsto forme di accesso alla cittadinanza diversificate. Con lo sviluppo dello stato moderno occidentale si è consolidata una cittadinanza di stampo etno-nazionalista e congiuntamente alle dinamiche speculative tipiche del capitalismo, sono emerse delle scale gerarchiche interne ed esterne, utili a garantire un disciplinamento volto allo sfruttamento delle masse.
Il razzismo gioca un ruolo chiave nella costruzione etno-nazionalista della cittadinanza.
Potremmo definire quest’ultimo come una dottrina che sostiene la superiorità di una razza sulle altre e che propugna la necessità di mantenerla pura, evitando perciò ogni contaminazione con altre razze, ritenute inferiori, mediante discriminazioni e talvolta anche con la persecuzione.
Il libro di Camilla Hawthorne ‘’Razza e cittadinanza. Frontiere contese e contestate nel Mediterraneo nero‘’ (Astarte 2023) chiarisce come le cittadinanze, in particolare quella italiana, siano una costruzione artefatta allo scopo di instaurare una gerarchia di sfruttamento: con uno sguardo critico l’autrice analizza come la formazione della cittadinanza italiana (di stampo etno-nazionalista) sia il risultato di dinamiche storiche di sfruttamento e dominio, auspicando un superamento di tali imposizioni tramite un’unione delle diaspore globali. Queste ultime hanno specificità storiche e geografiche differenti ma sono tutte accomunate dalla violenza razzista degli stati.
In Italia è diffusa l’idea che il nazionalismo razziale sia venuto meno con la fine del fascismo, ma nei fatti questi due aspetti non sono mai scomparsi: hanno semplicemente sviluppato forme differenti. L’Italia sino agli anni Settanta è stato un paese di emigrazione e di migrazione interna, ma a partire da allora, il Paese ha assunto un nuovo ruolo nelle migrazioni internazionali. Nonostante sia passato mezzo secolo da quando il numero dei nuovi arrivi ha superato quello degli espatri, la cittadinanza continua ad essere una concessione e non un diritto. Come ben esplicitato dalle parole di Camilla Hawthorne: “Questi sviluppi hanno portato la cittadinanza a delinearsi come terreno prioritario di lotta per la giustizia e l’inclusione razziale in Italia. Ma, allo stesso tempo, proprio questi sviluppi hanno aperto un pericoloso dilemma per i movimenti, nel momento in cui i tentativi di estendere i confini giuridici dell’italianità possono essere anche cooptati dallo Stato per continuare a riprodurre un “al di fuori” della cittadinanza su basi razziali, oggi incarnato dalla figura del rifugiato proveniente dall’Africa subsahariana” (Hawthorne,2022, pag. 73).
L’autrice analizza come la cittadinanza italiana si sia plasmata sulla base delle necessità del giovane stato italiano e con retaggi di superiorità razziale rispetto alle colonie e al sud Italia con la cosiddetta ‘’questione meridionale’’:
‘’Il Codice civile del 1865, primo tentativo di dare un quadro giuridico generale alla nazionalità italiana, concedeva in alcuni casi la cittadinanza per ius soli. L’intento era di riconoscere il contributo alle persone straniere che avevano combattuto nelle guerre per l’unificazione del Paese. Lo ius sanguinis è stato sancito nel 1912 con la legge n. 55/1912. Questa fu promulgata per rispondere alle diverse spinte che plasmarono e afflissero il processo di costruzione nazionale, la differenziazione interna da una parte e la diaspora dall’altra. […] In questo contesto, sostiene Cristiana Giordano, lo ius sanguinis (trasmesso per linea paterna) era visto dal legislatore come un modo per costruire «un’idea di nazionalità come un legame inestinguibile capace di resistere all’emigrazione e di essere trasmesso ai discendenti anche attraverso la diaspora»’’ (Hawthorne,2022, pp. 77-78).
Dopo più di un secolo dalla sua promulgazione, tuttora in Italia vige lo ius sanguinis, che unito al regime dei documenti, palesa la violenza razzista dello stato nei confronti di soggetti, fondamentali per il funzionamento del sistema produttivo, ma che devono essere disciplinati e resi sfruttabili sotto il ricatto del permesso di soggiorno, con il miraggio della concessione della cittadinanza. Nonostante in Italia, come in Europa, soffi un vento di estrema destra di stampo nazionalista, tutto l’arco politico italiano, compresa la ‘’sinistra’’ , sembra concorde nel non mettere in discussione la bianchezza dell’italianità. Citando Camilla Hawthorne: ‘’anche la Sinistra è responsabile del color-blindess italiano, ossia l’impossibilità di vedere colori e di conseguenza ogni presenza razzializzata, all’interno di un Mediterraneo meticcio e cosmopolita, privo di ogni forma di razzismo’’ (Hawthorne,2022, pag. 13).
Dagli anni Novanta la questione delle ‘’seconde generazioni’’ ha aperto il dibattito sulla riforma del diritto di cittadinanza. A distanza di 30 anni sono aumentati i requisiti di accesso e i tempi di attesa si sono allungati. Le prime rivendicazioni prevedevano il riconoscimento di tale diritto alle figlie e ai figli di immigrati nati in Italia o giunti in età scolare, creando di fatto una cesura generazionale. Tutti i tentativi di riforma in senso di allargamento della cittadinanza sono stati affossati nelle aule parlamentari. Negli ultimi anni nei movimenti sociali sta emergendo una maggiore consapevolezza del razzismo istituzionale, superando le dicotomie fra chi è nato qui e chi deve ancora arrivare, con una prospettiva di unione delle diaspore globali. Si pone allora una questione di fondo: è effettivamente possibile richiedere la ‘’concessione’’ della cittadinanza allo stesso stato che impone tali leggi razziste?
Da un lato il Mediterraneo è stato il luogo di contaminazioni e scambi culturali per secoli, ma dall’altro, è stato anche spazio di sviluppo del colonialismo e di mire imperialiste che si sono tradotte in violenza razzista tramite l’estrazione di risorse materiali e umane. Hawthorne ripercorre come nel Mediterraneo si siano instaurate le logiche razziali, frutto del dominio di territori e popolazioni, e come queste eredità pesino e influenzino il presente, anche in rapporto al diritto di cittadinanza. Oggi Il Mediterraneo rappresenta la frontiera più mortale al mondo: si calcolano circa 30 mila morti per raggiungere la “fortezza europea” negli ultimi decenni. Il diritto di movimento su tutto il globo appartiene unicamente ai possessori di passaporti occidentali, rispecchiando una logica razzista e contribuendo alle migliaia di morti lungo le frontiere.
L’Europa rimane sorda di fronte alla strage di donne, uomini e bambini, lungo le frontiere balcaniche e nel cimitero mediterraneo, e anzi favorisce la militarizzazione delle frontiere interne ed esterne, con accordi che monetizzano il blocco delle persone migranti, a favore dei paesi di transito. Uno degli ultimi patti è stato stretto proprio nelle scorse settimane con il presidente della Tunisia, Kais Saied, uomo autoritario che ha accentrato tutti i poteri su di sé, generando di fatto un regime di iperpresidenzialismo, capace di sostenere pubblicamente che sia in atto una sostituzione etnica nel suo paese e alimentando l’odio razzista verso i Subsahariani: l’unione europea s’impegna a fornire un sostegno finanziario al governo di Tunisi per migliorare il suo sistema di pattugliamento delle acque territoriali e il controllo delle frontiere, in cambio la Tunisia garantisce rimpatri più celeri e semplici dei cittadini tunisini ‘’indesiderati’’. Le notizie che arrivano da questo paese sono inquietanti, si parla di caccia al migrante, di rastrellamenti e di centinaia di persone abbandonate nel deserto al confine libico e quindi condannate a morte certa. Nonostante la realtà tunisina sia una bomba ad orologeria, l’Europa si autocelebra per aver eretto un nuovo argine anti-migranti, sostenendo finanziariamente e politicamente l’ennesimo dittatore.
L’inasprimento in senso restrittivo delle politiche europee in materia d’asilo, sta facendo venire meno il diritto alla protezione internazionale. La soluzione per gli stati europei è stilare ed estendere una lista di paesi ritenuti sicuri, in modo da non riconoscere il diritto d’asilo a quelle persone che scappano dal proprio paese per motivi di guerra, persecuzione e disastri ambientali. L’Europa da un lato semina povertà e sfruttamento nei territori extra europei, dall’altro impedisce alle persone non europee il diritto di movimento e di protezione, in una logica di accaparramento di risorse materiali e umane a scopo di lucro.
La lotta all’immigrazione ‘’clandestina’’ criminalizza il diritto di movimento delle persone non occidentali, rendendo la figura del migrante stesso il corpo del reato, punibile con l’incarcerazione e l’espulsione. L’Europa necessita di persone ricattabili e sfruttabili, generando una massa di mano d’opera a basso costo, utile a mantenere prezzi competitivi secondo le logiche del mercato. I rapporti di dominazione tra paesi stanno facendo precipitare velocemente le condizioni di vita della maggioranza della popolazione mondiale.
Le destre (e non solo) di tutta Europa accusano gli immigrati di sottrarre risorse ai ‘’veri cittadini autoctoni’’, alimentando una guerra fra poveri per l’accaparramento delle sempre più ridotte risorse del
welfare. Questo avviene perché il neoliberismo prevede uno stato al servizio del capitale, in cui le risorse devono essere utili a generare profitto, eliminando e privatizzando i servizi, alimentando la finanziarizzazione dell’economia.
In opposizione alle logiche dello stato-nazione e alle sue frontiere troviamo una rete di organizzazioni politiche autonome, formali e informali, gruppi e singoli individui che lottano contro la pretesa di controllo dei flussi migratori, organizzando iniziative politiche dirette contro la deportazione coercitiva dei migranti e a favore della libertà di movimento delle persone. Mettendo in discussione l’esistenza stessa delle nazioni, additate di essere causa ed effetto di tali ingiustizie. La rete “No border” lotta in prima linea in tutti quei luoghi in cui la violenza razzista e poliziesca si impone sui corpi delle persone migranti da Salonicco a Calais, da Vucjak a Ventimiglia, dalla Val Susa a Melilla. Nei diversi gruppi e movimenti si sta profilando una consapevolezza comune, e per quanto questi divergano per modalità organizzative, azioni e ideologie,
trovano un minimo comune denominatore nel contestare l’autoritarismo dello stato attraverso pratiche di solidarietà.
La cittadinanza intesa come legame allo stato nazione è una costruzione sociale che ha risvolti significativi sulla vita delle persone. Ma in quanto costrutto possiamo immaginare una cittadinanza slegata
dall’appartenenza nazionale? O per dirlo sulle note di un canto di fine ottocento:
‘’Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà’’
Sidi Nidal Amin El Kharbibi
* in copertina il corteo “Non sulla nostra pelle” del 28 aprile 2023 a Roma
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