Sugli spazi occupati a Milano

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Spunti di riflessione sulle occupazioni e gli sgomberi

La storia dell’autogestione e dell’occupazione di spazi a Milano è lunga quanto ricca.
È una storia complessa, articolata, sfaccettata, composta da una quantità infinita di elementi.

La pratica dell’occupazione di spazi in disuso e dismessi ha assunto diverse forme in questi anni e ha dato vita ad alcune delle esperienze di maggior valore e significato, sia dal punto di vista politico che culturale e sociale, in una metropoli che troppo spesso, senza questi luoghi e le persone che li facevano vivere, sarebbe stata infinitamente più povera, da tutti i punti di vista.

L’occupazione di spazi abbandonati al degrado è pressoché sempre stata promossa e concepita come un mezzo e non un fine, uno strumento finalizzato alla riappropriazione di luoghi di fatto sottratti alla collettività attraverso i processi di speculazione edilizia di cui Milano è stata protagonista, una forma di socializzazione e restituzione della ricchezza collettiva ai soggetti deboli del territorio, una forma radicale quanto necessaria di denuncia senza la quale le politiche di governo del territorio e le speculazioni su e intorno ad esso sarebbero troppe volte passate sotto silenzio.

La pratica dell’occupazione come forma di rivendicazione di diritto e di denuncia pubblica è diffusa nel mondo ed è diventata strumento conclamato partendo da “Occupy Wall Street” e arrivando alle occupazioni di piazze, case, e parchi in opposizione alla gestione della crisi finanziaria. L’occupazione, come forma di riappropriazione di diritto, è una pratica quanto mai necessaria in un’epoca di privazioni continue.

Come abbiamo detto, questa storia – e questo presente continuo in splendida e attiva vita ancora oggi – non è fatta solo di luoghi, di spazi fisici, muri, stanze, tetti. È anche e innanzitutto una storia fatta di corpi, passioni, relazioni. È un presente fatto di persone vere, di tempo investito, donato e dedicato alla cura del bene comune. È una realtà fatta di presa in carico collettiva della complessità sociale, dei desideri che l’attraversano e dei bisogni che la popolano.

Se mai ce ne fosse bisogno, quindi, è bene precisare che questa realtà è fatta di legami forti e radici profonde che hanno ben poco o nulla a che vedere con l’asetticità dei “piani” a tavolino. Gli spazi autogestiti non sono quindi una pedina che è possibile usare, spostare, ricollocare, rimuovere come se fossimo in un grande gioco di società dal titolo “che ne faccio del centro sociale?”

Gli spazi autogestiti sono e sono sempre stati tante cose insieme: luoghi di aggregazione certamente, giovanile spesso ma mai esclusivamente; luoghi di produzione e promozione culturale, certo; luoghi di formazione e auto-formazione; luoghi per il soddisfacimento di bisogni fondamentali; luoghi di servizio; luoghi di decompressione e sopravvivenza dai ritmi e dalle modalità di vita alienanti del lavoro e della metropoli; luoghi di partecipazione attiva, vera e non formale alla vita comune e comunitaria; luoghi di crescita, aiuto, assistenza non caritatevole nè pietista; luoghi di protagonismo, crescita, sperimentazione.
Ma gli spazi autogestiti sono poi (è sempre bene precisarlo, visto e considerato quanto questo aspetto risulti troppo spesso essere il rimosso principale quando si parla di questi luoghi) innanzitutto spazi dell’autorganizzazione politica. Questo dato è tutto tranne che secondario. Un certo “buonismo benpensante di sinistra” spesso e volentieri rimuove tutto ciò, come si trattasse di un “effetto collaterale” di cui vergognarsi in società. È bene invece ribadire che questa caratteristica, declinata spesso in modo differente da un’esperienza all’altra, è insita e propria di ogni luogo autogestito e non può essere “scorporata” in alcun modo e per nessun motivo.

Questa storia e questo presente hanno diversi elementi di continuità; tra questi sicuramente riveste un ruolo fondamentale la costante rappresentata dalle politiche pubbliche di avversità, attacco, rifiuto.
A cominciare dalla prima giunta leghista (ma volendo si potrebbe andare anche più indietro) sino ad oggi, i diversi governi che si sono susseguiti alla guida della città hanno costantemente perseguito un comune atteggiamento: nessun dialogo, nessuna possibilità, intenzione o volontà di ricerca delle possibili soluzioni allo stato di precarietà degli spazi. Quasi sempre di concerto con le altre istituzioni locali e centrali tutto ciò ha significato di fatto una costante politica degli sgomberi degli spazi occupati e una continua vessazione “ai fianchi” fatta di istanze, sanzioni, multe, divieti, controlli, finalizzata, quando non era possibile procedere direttamente allo sgombero di uno spazio, all’annullamento o diminuzione della sua capacità d’intervento politico. Questa costante ha connotato la prima giunta leghista, passando attraverso le successive esperienze targate Pdl, quelle per intenderci in cui imperversava la politica sulla sicurezza promossa dallo sceriffo De Corato, ed è purtroppo arrivata fino a noi e fino alla attuale giunta, sostanzialmente immutata.

Alle parole udite nella fase elettorale di questa nuova giunta, piene di promesse e presunte aperture, ad oggi sono seguite solo ed esclusivamente dichiarazioni formali in singole e specifiche occasioni, spesso parecchio ambigue e discutibili e in ogni caso sempre senza un seguito concreto che le supportasse. Ma, parallelamente a queste insoddisfacenti dichiarazioni, non si sono fermati gli sgomberi. Dall’insediamento della nuova giunta ad oggi ce ne sono stati diversi e non si può pensare di giustificarli sempre tutti come se siano frutto dell’onda lunga del pregresso governo cittadino o di altri poteri che non era possibile contrastare.

In tutto ciò, un costante flusso informale, non pubblico e riservato di ottime parole e intenti che però non diventano mai realtà o presa di posizione pubblica.

Come altri hanno già detto bene prima di noi risulta quindi fondamentale sottolineare come, allo stato attuale, non vi sia, concretamente quanto a livello di senso, un processo in corso che parte dall’amministrazione comunale per muoversi verso e a favore del riconoscimento di fatto (cit) delle esperienze autogestite di questa città.
In particolare ormai da qualche tempo viene ripetuto come un mantra il ritornello “bandi”, agitato, a volte in buona fede, altre volte crediamo in modo assolutamente strumentale, come la panacea di tutti i problemi, la soluzione globale che tutto sistemerà e risolverà.

Ma, come abbiamo già detto, i bandi che vengono annunciati non hanno nulla a che vedere con il “pregresso” storico e recente degli spazi autogestiti e con le caratteristiche proprie ed essenziali di queste esperienze.
Come abbiamo spiegato ormai in tanti e in diversi modi ciò che il Comune sta mettendo in campo con gli ormai attesissimi bandi sarà altro. Forse qualcos’altro di buono e positivo, forse anche il qualcos’altro migliore al mondo, ma comunque e in ogni caso altro.

Quello che invece è accaduto, ormai da tempo, è il processo contrario. La maggior parte degli spazi occupati e autogestiti non sono oggi (se mai lo sono stati in passato) solo ed esclusivamente luoghi della memoria, della ritualità militante, dell’organizzazione separata dal resto della società.

Le realtà dell’autogestione in questa città sono oggi più che mai luoghi aperti, attraversati costantemente da un flusso di idee, progetti, partecipazione, persone, gruppi, comitati, associazioni. La loro legittimità se la sono costruita negli ultimi vent’anni e più, non cercando una qualche legittimazione da parte delle istituzioni, ma attraverso la costruzione dei propri percorsi politici in rapporto con la città.

Se non fosse quasi ridicolo farlo varrebbe la pena citare le mille occasioni in cui addirittura progetti, attività e servizi dell’amministrazione comunale (intesi come progetti territoriali per minori, adolescenti, doposcuola e quant’altro) sono stati ospitati e accolti in quegli spazi “illegalmente occupati” chiamati Centri Sociali proprio in virtù della mancanza di spazi propri.

È quindi bene chiarire che chiunque volesse affrontare questi temi, si tratti dell’amministrazione cittadina o di qualsivoglia altro soggetto, deve farlo a partire dal riconoscimento di fatto del movimento dei centri sociali in questa città, una realtà troppo complessa e ricca perché sia costretta a forza nelle pieghe di una delibera sugli spazi vuoti a Milano e se realmente c’è questa volontà, bisogna che si smetta di parlare degli spazi autogestiti, sui centri sociali e iniziare a parlare con le realtà occupate di questa città. Apertamente, pubblicamente, senza vincoli a priori, divisioni auspicate, premesse da sottoscrivere.

Crediamo quindi sia fondamentale, chiariti questi aspetti, aprire un dibattito pubblico, trasversale, senza preconcetti così come saldo nei suoi riferimenti, sulla situazione degli spazi autogestiti in questa città. Intendiamo farlo a partire per noi da questo testo, che unitamente ad altri che a breve produrremo, rappresenta allo stato attuale il nostro punto di vista, il “campo” in cui ci collochiamo, la storia e il presente in cui ci sentiamo immersi e a cui facciamo riferimento. Vogliamo farlo a 360 gradi, con tutti gli interlocutori interessati a discutere di questi temi con noi, senza fissare preventivamente paletti e recinti che definiscano chi è deputato a farlo e chi no.

Ambrosia

Casc Lambrate

Labout Milano

Lambretta

Milano in Movimento

Rete Studenti Milano

Zam – Zona Autonoma Milano

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