Elezioni ’22: potrebbe esser peggio, potrebbe piovere!
Autunno 1922-autunno 2022. Sono passati cento anni esatti dalla presa del potere, con la Marcia su Roma, del fascismo in Italia. E, a brevissimo, se tutto andrà secondo i pronostici la destra guidata da Giorgia Meloni, nata e cresciuta nel vivaio e nella tradizione politica del Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante (sotto il fascismo redattore de “La difesa della razza”, ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana e capo gabinetto del Ministero della Cultura Popolare nella RSI, così, giusto per non dimenticare il suo cursus honorum), vincerà le elezioni. I parallelismi ovviamente si sprecano. Specie sui giornali “progressisti” che, a ogni tornata elettorale, sbandierano il “rischio fascismo” almeno dai tempi della prima discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994. Un disco rotto che, va detto, mobilita e convince sempre meno.
Il fascismo con buona probabilità non tornerà. Niente adunate oceaniche il sabato, niente camice nere e fasci littori, niente imprese coloniali e soppressione delle libertà fondamentali. Ma, per la prima volta dai tempi della caduta dei governi fascisti nel Mediterraneo negli anni Settanta, un Paese dell’Europa occidentale potrebbe essere governato da un partito maggioritario di destra estrema il che ci allineerebbe con alcuni tra i paesi più reazionari del continente come Polonia e Ungheria. Insomma, quello in cui Marine Le Pen sembra aver fallito potrebbe invece riuscire a Giorgia Meloni. E, per ironia del destino, la prima donna Presidente del Consiglio nella storia italiana rischia di provenire da una storia politica di destra neofascista.
Anche se non sarà fascismo duro e puro, basta leggere il suo programma elettorale per rendersi conto della direzione che prenderebbe un eventuale Governo Meloni caratterizzato com’è non da elementi di destra sociale, ma da neoliberismo in salsa thatcheriana con un po’ di vecchio caro autoritarismo. E quindi:
–bastonate simboliche e non a tutti i soggetti e gruppi deboli e “devianti” eletti come capro espiatorio di turno e additati come responsabili di tutti i mali della Nazione. Berlusconi e Salvini per un lungo periodo hanno preparato il terreno a chi di questa pratica, quella di addossare le tensioni e i problemi interni di un paese sull’altro, da noi è sempre stato campione assoluto ovvero i fascisti e le loro derivazioni. Il primo soggetto nel mirino, neanche a dirlo, saranno i migranti, tanto non votano…
–flat tax per la gioia dei redditi più alti con conseguente ricaduta sulla qualità dei servizi pubblici fondamentali (già devastati da 30 anni di criminali politiche neoliberiste).
–attacco forsennato al reddito di cittadinanza con in più un pizzico di odio contro i meridionali che ci riporta diritti ai “fasti” degli anni Ottanta e ai “bei tempi andati” della Lega Lombarda di Umberto Bossi che di questo odio fece un potente strumento di consenso (salvo poi passare al nuovo capro espiatorio di turno: albanesi, islamici, neri o cinesi…tutto fa brodo!).
–trasferimento di soldi dallo Stato ai privati intesi come imprenditori e compagnia di giro per la gioia di Confindustria nella tradizionale dinamica tanto cara al nostro paese di “privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”.
–nessuna speranza di passi avanti per quanto riguarda i diritti civili e quelli sociali delle fasce più deboli del mondo del lavoro le cui lotte, come quelle della logistica, rischieranno di essere represse ancor più forsennatamente di quanto non siano già ora.
–tentazioni presidenzialiste con lo stravolgimento della nostra Costituzione fortemente basata su una Repubblica parlamentare anche se va detto, storicamente i tentativi di cambiare radicalmente la carta costituzionale hanno sempre avuto scarsa fortuna.
Se la Meloni invece, nonostante la sua decantata lealtà atlantica (agli Stati Uniti poco interessano le misure di politica interna reazionarie, in questo momento l’unica cosa che conta è la fedeltà degli alleati europei nello scontro con Russia e Cina), le rassicurazioni verso i mercati, il filo diretto con Mario Draghi e le visite “segrete” al Presidente della Repubblica non dovesse riuscire a governare vista la terrificante congiuntura internazionale con il rischio default dietro l’angolo ci aspetterebbe un nuovo “governo dei migliori” teso a mantenere lo status quo, il potere delle oligarchie e la messa in sicurezza del PNRR in modo che un mare di soldi arrivi ai soliti noti. Esso potrebbe assumere due modalità: o un Governo Meloni messo immediatamente sotto tutela con l’inserimento di nomi graditi a Washington, Bruxelles e compagnia di giro oppure direttamente un governo guidato da un personaggio affidabile e credibile per i potentati internazionali. Insomma, la tragica, consueta scelta tra il malissimo e il male. Da un lato un’Italia non troppo dissimile da tanti Stati dell’Europa dell’Est, ma anche della stessa Grecia dove Kyriakos Mītsotakīs ha portato su posizioni di destra più aggressive Nea Dimokratia drenando i consensi di Alba Dorata e mettendo in campo una dura politica economica neoliberista e repressiva contro i movimenti sociali, dall’altro un Paese messo sotto tutela costante. Prospettive per nulla entusiasmanti dunque. Come se non bastasse, questo scenario preoccupate viene “impreziosito” dal previsto arrivo di una grave recessione economica.
Sui due principali alleati della Meloni non c’è molto da dire. Sembra continuare il declino di Matteo Salvini in una parabola assai simile a quella di Matteo Renzi. Colpiti entrambi dalla hybris dopo gli ottimi risultati delle elezioni europee (per Renzi quelle del 2014, per Salvini quelle del 2019) entrambi hanno perso una scommessa peccando d’arroganza: Renzi quella del referendum costituzionale del 2016 e Salvini quella dell’estate dei “pieni poteri” del 2019. Da lì, per entrambi è iniziato il declino. Se la Lega, fallito il progetto di partito nazionalista dovesse essere superata al Nord da Fratelli d’Italia, a livello nazionale dai 5 Stelle e andare sotto il 12% potrebbe aprirsi la corsa alla successione con molti governatori del Nord pronti a fare lo scalpo al “Capitano” decaduto. Per quanto riguarda Silvio Berlusconi, per chi lo ha visto all’apogeo della sua potenza, fa quasi tenerezza il lunghissimo tramonto sempre più simile a un’agonia dell’uomo di Arcore. Le modalità comunicative di Berlusconi, anche nell’utilizzo di mezzi nuovi come TikTok, sono rimaste ai fasti degli anni Ottanta. Peccato che il mondo non sia più lo stesso. Continua dunque il declino di Forza Italia, abbandonata anche da berlusconiani di ferro come Brunetta, Gelmini e Carfagna. Un declino guardato con interesse dall’accoppiata Calenda-Renzi pronti a drenare voti oggi e negli anni che verranno. Sempre che non si accoltellino (metaforicamente) prima tra loro. Vedremo se FI, col suo pacchetto di seggi da spostare a seconda delle convenienza, sarà ancora numericamente rilevante per gli equilibri all’interno del Parlamento.
Spendiamo alcune parole sulla controparte citando un’arguta frase di qualche settimana fa del professor Aldo Giannuli che ha parlato di un “campo largo” che in pochissimo tempo è diventato “campo santo”.
Il PD legato mani e piedi alla “fantomatica” (e impopolare sia a destra che a sinistra) “agenda Draghi” ha messo in campo una strategia di alleanze scombinata e pervicacemente perdente (se si crede veramente al rischio fascismo l’unica arma di difesa sarebbe stata un fronte antifascista largo. Il resto sono solo vuote chiacchiere buone per la campagna elettorale). La lezione dell’appoggio a Mario Monti (un altro tecnico “salvatore della Patria”) dieci anni fa costata la vittoria alle elezioni del 2013 probabilmente non ha insegnato nulla ai vertici del Nazareno. La campagna elettorale poi è stata veramente scialba e incolore senza alcuna proposta veramente forte, ma mettendo in campo una sorta di “pesca delle occasioni” cambiando di giorno in giorno topic senza mai apparire convincenti. Non si è ancora votato è già si parla del successore dell’incolore Letta alla leadership del Partito Democratico, non proprio il massimo per galvanizzare la propria base elettorale! I nomi che si fanno sono quelli del Presidente della Regione Emilia-Romagna Bonaccini o quello del Sindaco di Bari Decaro. Un partito, quello democratico, che letteralmente “divora” i suoi leader con ben 8 segretari in 15 anni e che, nonostante la “vocazione maggioritaria” sventolata da Veltroni alla fondazione non è mai riuscito a vincere in modo convincente un’elezione politica, anzi… Lo spettro degli ultimi giorni è rappresentato dalla soglia del 20%. Se il PD dovesse andare sotto a questa soglia ci si avvicinerebbe al risultato disastroso delle politiche del 2018.
I 5 Stelle in macerie dopo quattro anni di governi che li hanno visti alleati con tutto e il contrario di tutto e dopo la corposa scissione guidata da Di Maio (destinata a quanto pare al disastro) sono forse stati dati per morti (come già altre volte negli ultimi 10 anni) troppo presto. Basandosi solo sul one man show Conte che ha fiutato la prateria aperta a sinistra rianimando un partito dato per defunto fino a qualche settimana fa, hanno iniziato a recuperare punti percentuali, ma pagano ancora la sciagurata scelta di sostegno al governo di unità nazionale e la memoria lunga dell’elettorato di sinistra insoddisfatto che non perdonano al leader dei 5 Stelle i decreti sicurezza firmati con Salvini. Anche qui l’abc della politica insegna che un partito con posizioni “radicali” non può in alcun modo sostenere un governo di solidarietà nazionale che è quanto di meno radicale possa esistere. Pena: l’autodistruzione. Vedremo se la percentuale finale si avvicinerà più al 10 o al 15. Se dovesse essere superiore a questa seconda soglia sarebbe un successo personale dell’ex premier che imiterebbe le grandi rimonte elettorali del Berlusconi degli anni d’oro del 2006 e 2013.
Ci sono poi i due galli nel pollaio del cosiddetto Terzo Polo. Partiti con grandissime ambizioni le hanno via via dovute ridimensionare rischiando di non riuscire neanche a raggiungere il risultato della montiana Scelta Civica del 2013 (tra l’8 e il 9%). Insomma, più che un grande centro rischierebbero di essere piuttosto un “centrino”: il piccolo partito dei grandi interessi. Non è detto che però il risultato sarà deludente. La retorica della “meritocrazia” e della “competenza” ha fatto molte vittime in questo paese, specie tra i ceti produttivi del Nord. In secondo luogo, l’alleanza Calenda-Renzi, in termini di lungo periodo potrebbe avere la capacità di drenare voti all’agonizzante Forza Italia. Poi molto dipenderà anche da che rotta prenderà il PD nel futuro: se un partito di centro che guarda al centro o un partito di centro che guarda a sinistra.
L’alleanza SI-Verdi, con i temi forti dell’uguaglianza e dell’ambiente sembrerebbe aver fiutato il vento che spira in una parte della società italiana (specie tra i più giovani), ma… C’è un gigantesco ma. L’alleanza (tecnica) col Partito Democratico ha generato malumore e mal di pancia in una fetta consistente di persone che sarebbero state disponibili a votare i rosso-verdi. La critica è semplice: temi forti e radicali sviliti da un’alleanza con un partito vissuto da molti come il bastione ultimo dell’establishment e della difesa dello status quo. C’è poi la concorrenza spietata di Conte che, con un’abile scelta di marketing elettorale si è riscoperto leader progressista. Va salutata la candidatura di due persone meritevoli del massimo rispetto come Aboubakar Soumahoro e Ilaria Cucchi protagonisti, negli anni passati, di coraggiose battaglie contro i poteri di turno leggi padroni del vapore e Arma dei Carabinieri. C’è poi Unione Popolare che è riuscita nell’impresa titanica di raccogliere migliaia di firme in agosto guidata dall’ex Sindaco di Napoli De Magistris. L’ambizione di UP sarebbe quella di mettersi in scia all’esperienza di Jean-Luc Mélenchon in Francia capace di fare da guastafeste tra i due litiganti Macron e Le Pen. L’Italia però non è la Francia e non viene da un ciclo di lotte sociali e di strada paragonabili. In aggiunta a ciò Unione Popolare si confronta con i risultati non entusiasmanti ottenuti da liste di questo tipo negli ultimi anni rischiando di ridursi a voto militante e di “testimonianza”. Staremo comunque a vedere.
Per concludere lo confessiamo. Le elezioni non ci lasciano indifferenti. Sarebbe altezzoso e bugiardo affermarlo. Non siamo neppure fautori del “tanto peggio, tanto meglio” e del “sono tutti uguali”. E non ci convince neanche l’idea che un governo di destra potrebbe risvegliare le piazze, cosa effettivamente accaduta nel 1994, nel 2001, nel 2008 (ma in quest’ultimo caso solo grazie all’inattesa esplosione del movimento universitario dell’Onda), che tuttavia già nel decennio successivo non si è ripetuta. Se la conflittualità sociale esploderà lo farà per il rapido peggioramento delle condizioni di vita degli italiani a prescindere dal governo in carica. Se succederà bisognerà farsi trovare pronti. Il climate strike di domani e la giornata in difesa dell’aborto libero e gratuito del 28 saranno una prima cartina tornasole dei giorni che ci attendono.
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