Riprenderci il presente per pensare il futuro

È successo. Erano anni che osservavamo come la rabbia sociale aumentasse, specialmente in una metropoli come Milano, anni che dicevamo che il tappo sarebbe saltato e che ci interrogavamo su come il malessere potesse diventare un’opportunità di trasformazione sociale. E’ successo in questo settembre così rapidamente che dobbiamo ancora farci i conti.

La società civile è stata più rapida dei movimenti a diventare marea, mentre i cortei degli ultimi due anni sembravano poco incisivi, non intercettavano le parole d’ordine giuste per smuovere le coscienze. In poco meno di un mese gli obbiettivi sono diventati chiari e le pratiche molteplici; è saltato il binomio “violenza-nonviolenza”, tipico delle piazze di posizionamento e abbiamo visto cortei oceanici dove coesistono vari livelli di conflitto.

Non possiamo non interpretare i moti per la Palestina del settembre 2025, il corteo per il Leoncavallo a Milano, la manifestazione nazionale “Davide contro Golia” di GKN, come espressione di una nuova frontiera di lotta, che ha forme e composizione sociale da esplorare, e che abbiamo il dovere di mantenere viva con il giusto atteggiamento “sperimentale” dei grandi momenti della storia.
D’altronde, ciò che determinerà l’impatto di questa attivazione nei prossimi anni, è la nostra capacità di pensare a nuove forme, pratiche e temi di rilancio politico coerenti: capaci di trasformare la società ma, soprattutto, la quotidianità di ciascuno dei partecipanti al processo.

A cavallo del 2000, i movimenti hanno intercettato una modalità vincente: la fluidità dei nuovi media forniva strumenti di lotta impensati: raggiungere, con un’azione di piazza, milioni di persone ha condizionato le forme delle mobilitazioni. Azioni più mediatiche, coreografiche, con l’obiettivo di essere visibili, di raccontare un altro mondo possibile e necessario. Anche Fridays For Future, in coda, ne è stato un prodotto: basta pensare all’azione pubblica di Greta Thumberg, che con la sua singola protesta ha catalizzato un movimento planetario.

Oggi però, la visibilità è un parametro ancora valido?

Quanti contenuti consumiamo ogni giorno? Tantissimi, a tal punto che essere interconnessi è diventato una caratteristica fisiologica dell’essere umano. Vediamo costantemente persone diventare famose e poi smettere di esserlo, “trend” essere ovunque e poi sparire sostituiti da altri. La visibilità è diventata un obbiettivo molto meno ambizioso da ottenere.
Il ruolo di una massa puramente mediatica non è più sufficiente a spingerci a farne parte.

Anche il movimento si è lasciato contaminare, abbiamo trasposto la pretesa di visibilità delle azioni di inizio millennio nei social network, utilizzando views e commenti come un parametro da massimizzare. Questa cosa è consumante, diventare virali negli algoritmi non ha conseguenze che escono fuori dal nostro telefono. I movimenti più visibili della storia, con sempre meno partecipanti.
Una massa che si dà soltanto la funzione di testimoniare l’indignazione sociale con il suo numero non è più sufficiente. Dopo che si è visto come temi e personaggi inutili diventino virali nelle piazze pubbliche, dopo che si ha in mente come le inquadrature distorcano la realtà rendendo speciale ciò che non lo è. Per dirlo semplicemente, una piazza che non usa il suo volume per farsi strada nella realtà, ma che si limita ad essere numerosa, sappiamo benissimo tutti potrebbe essere dimezzata o fatta in quarti, e su Instagram renderebbe lo stesso, probabilmente avrebbe lo stesso reach.

Le piazze di settembre si sono discostate da questo paradigma, chi ha partecipato si è sentito parte di una protesta con un obbiettivo e molti sono stati disposti a mettersi a rischio in prima linea per portarlo a casa. Per quanti giorni il dibattito sul modo giusto di protestare ha infiammato le nostre cerchie di amici o colleghi? Finalmente nessuno di noi si è sentito testimone, ma attore di una storia che possiamo ancora scrivere.

E ora? Come andiamo avanti?

La risposta non è così facile da trovare, i temi sono tanti e la forma da dare a questo movimento è tutta da determinare, sicuramente non possiamo fermarci: questo mese ha avuto il merito di rompere la linearità del tempo che ci viene imposta dal mondo post-capitalista. Di rendere manifesto che ci può essere qualcosa “fuori traccia” di molto importante. Su quel piano nessuno può dirci cosa è giusto fare se non noi che lo costruiamo.

Diventa fondamentale un cambio di paradigma: sostituire all’obiettivo della visibilità quello dell’effettività. Un cambio di unità e di metodi di misura, che sposti l’attenzione dal riconoscimento immediato all’incidenza reale delle azioni, dalla rappresentazione al loro potere di trasformazione. L’effettività non si misura in termini di esposizione, ma nella capacità di incidere sul tempo che viviamo, di modificare le relazioni, di trasformare la vita di chi ne prende parte. Attiva il territorio e ricostruisce legami e tessuti, lasciando tracce durevoli invece di immagini fugaci. Abbiamo bisogno di vittorie, anche parziali, ma reali, che siano in grado di dare un senso alla partecipazione. In questa prospettiva, il metodo dello sciopero generale può essere centrale: come pratica capace di bloccare, ridistribuire e risignificare il tempo e lo spazio comuni.

L’invito è di sfruttare questo momento di risveglio collettivo per diventare comunità e animare progetti che ci facciano star bene: di trasformare la dimensione di possibilità che ci hanno dato queste piazze in concreta attivazione. Riprenderci il presente per pensare il futuro!

Giano Disilvestro

* foto di Gianfranco Candida

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