Il prezzo del sì: estradizione dei curdi e armi per Ankara

Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan vede sempre opportunità nelle faglie europee, di fronte a una crisi o a un cambio di paradigma ha spesso la carta buona da giocare. Lo ha fatto con l’emergenza migratoria siriana in piena guerra civile, strappando all’Europa sei miliardi di euro per “gestire” tre milioni di profughi, e lo ha fatto nell’ottobre 2019 con il ritiro Usa dalla Siria del nord-est, occupando un pezzo di Rojava dove impiantare un semi-emirato islamista.

Oggi sul tavolo ha l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia. Erdogan sa che serve l’unanimità e ha posto le sue condizioni, niente arriva gratis: Helsinki e Stoccolma devono cessare di essere Stati-santuario del Pkk, consegnargli i membri del Partito curdo dei Lavoratori e cancellare l’embargo di armi verso Ankara deciso proprio nel 2019, a fronte dell’occupazione delle città curdo-siriane di Gire Spi e Serekaniye.
Così i due paesi scandinavi invieranno delegazioni in Turchia per negoziare il sì di Ankara all’adesione. Il prezzo lo pagheranno i curdi, quelli in diaspora e chi in Medio Oriente lavora da anni alla costruzione di società alternative al settarismo regionale, tra Siria e Iraq.

In Svezia e Finlandia vivono circa 100mila curdi, l’80% in territorio svedese. L’emigrazione è iniziata negli anni ‘70, per farsi più prepotente dopo il colpo di stato turco del 1980. Secondo Ankara, da qui il Pkk gestirebbe la sua rete di finanziamenti e reclutamento in Europa, grazie alla tolleranza delle autorità locali.
Il Ministro degli Esteri Cavusoglu ha detto di aver condiviso con le autorità svedesi le prove della presenza di membri del Pkk sul territorio dello stato, liberi di operare: «Gli abbiamo detto che non ci basta la dichiarazione della Svezia che il Pkk è già sulla loro lista del terrorismo – ha riportato ai giornalisti Cavusoglu domenica scorsa, dopo un incontro con gli omologhi di Helsinki e Stoccolma – Ci hanno risposto che penseranno a un nuovo piano».

Lunedì qualche dettaglio in più. Ankara avrebbe chiesto alla Svezia l’estradizione di undici presunti membri del Pkk, alla Finlandia di sei, seppur la lista dei desideri sarebbe ben più lunga: secondo il Ministero della Giustizia turco, negli ultimi cinque anni sarebbero state mosse 33 richieste di estradizione, mai accolte. Un comportamento che agli occhi turchi è incomprensibile, soprattutto alla luce della propaganda durata decenni intorno all’omicidio di Olof Palme del 1986: all’epoca si seguì anche la pista curda, rispuntata a fine anni ‘90 dopo le dichiarazioni di un ex membro del Pkk che dava al suo gruppo la responsabilità della morte del Primo Ministro svedese. Ordinata dallo stesso Ocalan, si disse, dopo che Stoccolma aveva dato il via libera all’estradizione di otto combattenti. Una pista presto abbandonata ma che non esita a ricomparire nei momenti di necessità turchi.

E poi c’è il legame che Stoccolma ha intessuto con l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est, espressione del confederalismo democratico teorizzato dal leader del Pkk, Ocalan: oltre al sostegno attraverso la coalizione anti-Isis, una delegazione di alto livello svedese – con a capo la Ministra degli Esteri Ann Linde – nel 2020 ha fatto visita alle Forze democratiche siriane (federazione multietnica e multiconfessionale nata durante la lotta all’Isis e ora impegnata contro l’invasione turca) e lo scorso anno il Ministro della Difesa Hultqvist ha avuto un colloquio video con il loro leader, Mazloum Abdi, a cui ha rinnovato l’appoggio del suo paese.

La seconda richiesta viene da sé: scongelare l’esportazione di armi. «Non diremo di sì ai paesi che applicano sanzioni alla Turchia», il commento di lunedì del presidente turco a cui servono armi per proseguire nelle guerre in giro per il Mediterraneo. A partire proprio da quella contro le comunità curde sparse tra Turchia, Siria e Iraq: l’ultima operazione, “Blocco dell’Artiglio”, è cominciata a metà aprile e prende di mira le regioni di Zap e Avasin, le montagne del nord iracheno base militare e ideologica del Pkk. Oltre 900 i bombardamenti turchi.

Ma non va come dovrebbe: quasi impossibili da espugnare, le montagne garantiscono al Pkk la difesa utile al contrattacco. Se secondo l’esercito turco, in un mese le perdite sarebbero state di soli sei soldati, molto diverso è il bilancio delle Hpg, le forze armate curde: in un comunicato di due giorni fa danno conto di 427 militari turchi uccisi, sette droni e un elicottero abbattuti.

di Chiara Cruciati

da il Manifesto del 18 maggio 2022

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