Cittadinanza italiana, una legge vecchia 32 anni che mette in crisi l’idea identitaria dei purosangue

E’ cambiato quasi tutto in Italia ma la legge sulla cittadinanza è rimasta sempre la stessa.
La legge n.91 del 1992  nega il diritto collegato al luogo di nascita, ma prevede misure particolarmente restrittive in materia di residenza e tempistiche straordinariamente lunghe. Ai figli e alle figlie nat* in Italia da genitori migranti sono richiesti 18 anni di residenza ininterrotta prima di poter fare domanda per diventare cittadini.

La legge sulla cittadinanza in Italia è tuttora strettamente ancorata all’antico criterio dello ius sanguinis: la logica che sta alla base di questa legislazione è quella per cui è il sangue che conferisce la cittadinanza, e questo “diritto” sanguineo può essere reclamato anche da chi può provare la discendenza italica entro una certa generazione.
E’ ancora diffuso un pregiudizio razzista legato all’idea sottointesa (ma neanche troppo) che sia la stirpe, il sangue, a definire essenzialmente l’appartenenza al popolo italiano; un pregiudizio in cui permangono le tracce della legislazione razziale del periodo fascista, che considerava il “sangue” la base della Nazione, e le leggi per “la difesa della razza” arrivavano a vietare  il matrimonio con persone “straniere” (“di qualsiasi razza”, si specificava). Questo non è cambiato nel corso degli anni, nonostante le trasformazioni avvenute nella società e nella composizione del Paese.

Per chiarire ulteriormente i termini della discussione, lo ius scholae di cui tanto si sta (ri)parlando in questi giorni di fine estate, è una proposta di riforma moderata, dove vige uno ius soli cosiddetto “condizionato”.
La riforma permetterebbe al minore nato in Italia di acquisire la cittadinanza una volta che, risiedendo regolarmente nel territorio nazionale, avesse frequentato per almeno 5 anni uno o più cicli scolastici, possibilità aperta anche al minore straniero in Italia entro il compimento del dodicesimo anno di età. E’ una misura molto delimitata, lungi dall’essere una riforma organica della cittadinanza: non si tratta di ius soli condizionato sul modello europeo, non è retroattiva, ha limiti di età precisi, non vi ricade chi non è (più) a scuola o scolarizzato.

Nonostante questi limiti, la proposta sarebbe però stata un segnale importante, perché mettendo in discussione una delle basi della legge, avrebbe potuto aprire la possibilità, dopo trent’anni, di riscriverla nel suo complesso, mettendo fine alla posizione di privilegio riconosciuta al criterio di ius sanguinis. La scelta fatta nel 1992 era già di per sé fuori dalla storia, del tutto non adatta di fronte alle trasformazioni già avviate e di tendenze prevedibili all’interno della società che vive in Italia; allargava invece a dismisura l’idea di “italiani all’estero” (per cui il “sangue italiano” regge per un numero di 7 generazioni non nate in territorio italiano: se si nasce all’estero, per ottenere la cittadinanza basta dimostrare di avere un antenato italiano entro il 1861).
Inquietante per le sue implicazioni politiche, storiche e culturali già nel 1992, oggi, a fronte di una presenza di 1 milione di studenti di origine straniera sul territorio italiano e senza il bilanciamento di un diritto alla cittadinanza basato sullo ius soli, questa norma si configura ormai come un dispositivo di razzismo istituzionale tollerato da tutti i partiti.

E…Tajani. No, non tutte le persone nate in Italia cantano fieramente l’inno di Mameli e si sentono patriottici. Riconoscere diritti per tutti e tutte non significa obbligare chi non li ha oggi, a omologarsi o a “naturalizzarsi”. Accettare che negli ultimi 30 anni una grossa fetta di popolazione che contribuisce a tenere in piedi questo paese, è stata volutamente discriminata e marginalizzata nei diritti, è il primo passo per elaborare un reale cambiamento. Il secondo, è dare la parola a coloro che hanno subito questa legge ingiusta (che si somma alle complessive leggi razziali sull’immigrazione in italia): i bambini e le bambine che oggi come trent’anni fa riempivano i banchi di scuola e sentivano addosso la differenza sociale imposta dalle discriminazioni legislative. Il patriottismo non è sicuramente il sentimento che ci spinge a chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana.
Alle file in questura avrei preferito un giorno di scuola in più, per le gite e le competizioni scolastiche negate avrei voluto avere spiegazioni, e tutti i soldi spesi per rinnovare il permesso di soggiorno sarebbero stati un ottimo gruzzoletto da mettere da parte.
All’inno di Mameli preferisco Bella Ciao, e all’idea identitaria di nazione e italianità preferisco le contraddizioni di una società che è già nel pieno del cambiamento.

Fintanto che la cittadinanza a figli e figlie di persone straniere continuerà ad essere merce da campagna elettorale per i partiti di destra, e che le controproposte della sinistra saranno unicamente oppositive e mai costruttive anche su questo tema, la situazione per questi cittadini di serie B continuerà ad essere precaria. I cittadini stranieri, non potendo votare e quindi incidere sulla politica con gli strumenti della democrazia, non riescono ad avere voce in capitolo e a limitare la propaganda razzista o perbenista fatta nei loro confronti.
Lo Stato italiano, come altri, avrebbe bisogno di accettare prima di tutto il fatto che, nonostante la guerra che è stata intrapresa contro le persone non-bianche che vivono, studiano e lavorano in Italia, la popolazione meticcia è in costante aumento e influenza – oggi più che mai – diversi ambienti culturali e sociali del Paese.
Nonostante dunque, l’Italia abbia trattato la migrazione come un problema di sicurezza e non come una normale conseguenza alle guerre, alla povertà o anche solo all’enorme desiderio di viaggiare che qualsiasi giovane nel mondo ha, non si è potuto evitare la nostra migrazione, il nostro nascere qua, il nostro vivere, esistere e raccontare.

Nassi LaRage

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