Il ritorno della questione salariale
I prezzi corrono, le bollette sono un incubo, tutto aumenta, tranne una cosa, le buste paga, che non solo rimangono ferme, ma da Confindustria a Bankitalia non perdono occasione di spiegarci che proprio così dev’essere. Quando poi qualcuno timidamente tira fuori la proposta del salario minimo fissato per legge, allora apriti cielo e si inalbera pure il capo della Cisl. Insomma, è tornata la questione salariale.
O meglio, è tornata sulla scena pubblica, perché nella realtà dei fatti non se n’era mai andata, sebbene il peso delle sconfitte del passato e la pervasiva egemonia del discorso neoliberista l’avessero avvolta in una nebbia talmente fitta da renderla quasi irriconoscibile. Beninteso, irriconoscibile soprattutto agli occhi di chi di salario campa, comunque questo salario sia denominato, e non certo a quelli dei padroni, per usare un linguaggio vecchio come la questione salariale, che in quella nebbia, invece, ci vedono benissimo.
Ma attenzione, il fatto che si torni a parlarne, non significa affatto che la nebbia si sia diradata, anzi, come ci ricorda anche il surreale “dibattito” sul reddito di cittadinanza, messo quotidianamente alla gogna non per le sue contraddizioni e insufficienze, ma per uno dei suoi effetti positivi, cioè quello di costituire un parziale freno all’accettazione di livelli salariali indecenti.
Giusto per rinfrescarci la memoria, è opportuno produrre qualche dato sulla realtà dei fatti in tema di salari. Ovviamente, ce ne sarebbero molti altri e basta fare qualche ricerca in rete per trovarli, specie in questo periodo, ma alla fine raccontano sempre la stessa storia.
Primo, la perdita di quote di reddito complessivo da parte di lavoratori e lavoratrici e l’aumento delle disuguaglianze sociali sono tendenze globali, ma in Italia è andata anche peggio.
Questi dati sono aggiornati al 2020 e, quindi, non tengono ancora conto degli effetti di due anni di pandemia, che hanno significato un ulteriore peggioramento della situazione, come si evince dalla prossima infografica.
Secondo, come la perdita salariale, anche l’aumento delle disuguaglianze sociali è un processo che viene da lontano. Il seguente grafico copre un arco temporale ampio e la sua importanza non risiede tanto nei valori che riporta, ma nella tendenza che mette in evidenza e che ci ricorda, ancora una volta, che tali processi non sono determinati unicamente dai cicli economici, ma anche dal conflitto sociale, cioè dall’evoluzione dei rapporti di forza sociali.
Ci fermiamo qui con i grafici e con i numeri e aggiungiamo soltanto che per avere un quadro esaustivo sul salario reale andrebbero aggiunte anche altre voci, come il salario differito, le prestazioni previdenziali, la fiscalità, il costo dell’accesso ai servizi essenziali, l’abitare eccetera. Ma appunto, quanto ricordato è sufficiente per ribadire che la questione salariale non è figlia della guerra, i cui effetti sociali peraltro mancano ancora nelle statistiche disponibili, e nemmeno della pandemia. Piuttosto, pandemia e guerra, come ogni crisi, in assenza di cambiamenti politici e sociali, agiscono semplicemente da acceleratori delle dinamiche dominanti già in atto.
E il punto è esattamente questo, cioè il crescente fenomeno dei working poor, la precarizzazione nelle sue mille forme, l’elusione di ogni regola e decenza nel sistema dei subappalti, le false cooperative, il cottimo delle piattaforme e così via, sono conseguenza diretta e ineludibile di scelte politiche, dei rapporti di forza sociali e di un movimento sindacale strutturalmente indebolito e nelle sue componenti maggioritarie spesso ridotto ad erogatore di servizi, gestore della pace sociale e, in ultima analisi, guardiano della proprio rendita di posizione.
In altre parole, la tendenza dominante in materia salariale non può essere invertita senza una ripresa del conflitto sociale, cioè senza una rimessa in moto di un ciclo di lotte a partire dai luoghi di lavoro e dal territorio. In fondo, che ci sia bisogno di conflitto per avere dei risultati l’hanno dimostrato proprio alcune lotte importanti di questi anni, come quelle nella logistica, quella dei rider o quella degli operai e delle operaie della Gkn di Campi Bisenzio, purtroppo ancora troppo circoscritte per poter innescare una dinamica più generale.
In conclusione, se la questione salariale viene lasciata ai dibattiti nei salotti televisivi e alle mediazioni nei palazzi, non solo saremo condannati a tirare avanti con bonus, mance e sconti governativi, ma la stessa proposta di salario minimo fissato per legge rischia di finire in un nulla di fatto o in una semplice operazione di maquillage.
Lo so, tutto questo è più facile a dirsi che a farsi, ma cominciare a scacciare un po’ nebbia e includere il problema tra le priorità del nostro agire, sarebbe già un importante passo.
Luciano Muhlbauer
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