Intervista a un infermiere dei reparti COVID a Milano e attivista politico

Il 27 febbraio, quando ancora era in corso il dibattito sulla reale pericolosità del coronavirus pubblicavamo un’intervista a una nostra compagna che lavora come dottoressa in un grande ospedale pubblico a Milano che ci metteva in guardia anticipando con lucidità quello che sarebbe successo nei giorni successivi. Oggi, a un mese di distanza da quell’articolo, ospitiamo un’intervista a un nostro compagno che lavora come infermiere nei reparti COVID-19 presso un’altra grande struttura ospedaliera milanese.

Come stai?

Dall’inizio della crisi del COVID-19, la vita mia e quella di diverse migliaia di altri infermieri ed infermiere è cambiata parecchio. Ho iniziato a lavorare nell’attuale ospedale all’inizio dell’emergenza, quando mi hanno offerto un contratto peggiorativo rispetto al solito contratto iniziale delle aziende ospedaliera private. La responsabile delle risorse umane paventa l’ipotesi di lavorare in reparti COVID e tende di degenza COVID. Accetto, è il mio lavoro, e non nego che l’adrenalina del rischio abbia esercitato un certo fascino su di me. Tuttavia come tantissime e tantissimi altri, ho dovuto adottare, per evitare di contagiare le persone a me vicine, misure come l’isolamento individuale. Nulla a che vedere con infermieri più anziani che si sono separati dai figli piccoli, magari, per garantire la loro incolumità, e garantire la propria presenza sul posto di lavoro.

Com’è la situazione dove lavori?

Nell’ospedale dove lavoro, nella “Regione della Sanità efficiente” la situazione è decisamente distopica. Reparti di degenza “normale” sono stati blindati e adibiti ad isolamento COVID, dove ovviamente sono ricoverate persone con ogni tipo di patologia nella vasta gamma di specialità medico-chirurgiche. Il personale a sua volta è stato rimescolato con altri reparti, e suddiviso nel nuovo assetto, senza un addestramento o una formazione specifica per le nuove attività. Ovviamente non sulla base di una libera scelta. Chissà se hanno preso in mano le nostre cartelle della medicina del lavoro per definire le nostre destinazioni. Non hanno certo proposto incentivi economici per l’esposizione al rischio di contagio.
Molto in breve, le denunce di medici, infermieri, OSS e via dicendo, che rimbalzano negli organi di settore e talvolta nei media mainstream, sono tutte realistiche. Partendo dai Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) che sono carenti, obbligandoti a modificare quotidianamente la tua attività assistenziale in funzione della loro disponibilità, talvolta anche in assenza di dispositivi idonei. Gli ultimi dispositivi filtranti che abbiamo ricevuto, avevano le scritte in russo (FFP3? FFP2? Chissà?), non aderivano al volto, con passaggio di aria lateralmente. Questo nella tenda adiacente al Pronto Soccorso, l’attesa per i pazienti COVID o sospetti.
Non attribuirei tutto ciò unicamente alle singole gestioni ospedaliere, in quanto la regia della sanità è in mano alle Regioni.
Arriviamo alle carenze strutturali del sistema-salute, entrato in vigore nel 2016, che istituisce il sistema regionale Sanitario-sociale o socioassistenziale, prima solo Sanitario.
Non ho fonti scientifiche sotto mano da citare, tuttavia la vista, l’udito e l’analisi mi fanno riflettere. A fronte dei miliardi di euro tagliati negli ultimi anni, come si può pensare di far fronte, in un contesto già al limite, ad un boom di contagi, persone sintomatiche e infine critiche, a parità di risorse economiche e umane? È forse la prima pandemia della Storia? Adesso l’attenzione dei media e delle istituzioni è rivolta a cifre e grafici riguardanti il COVID-19. Gli ospedali pubblici, e in maniera minore e comunque più tranquilla, le strutture private, si sono riorganizzate per questa emergenza. Cosa significa? Chiusura di molti ambulatori, chiusura dei blocchi operatori per interventi programmati, chiusure e conversione, insomma. Per quanto? Quanto dovranno aspettare le persone per un intervento al ginocchio, un’indagine diagnostica? Se già prima aspettavamo mesi? Il punto, secondo me è questo. Come funzionano i servizi non d’emergenza e acuzie oggi, in epoca COVID? I servizi sanitari territoriali (al domicilio)? Mi è capitato più volte di dover prestare assistenza al domicilio, perché l’isolamento sociale ha bloccato anche pratiche di mutuo soccorso prima esistenti, nel vuoto lasciato dal Sistema Sociosanitario. Proprio io, che sono un potenziale “untore”.

Qual è il sentimento più diffuso tra chi lavora nel tuo ospedale?

È difficile interpretare un sentimento solo. Da un lato infermieri e aggiungerei anche OSS, che lavorano gomito a gomito tutti i giorni, vengono esaltati ogni giorno dai media, nei social, per il lavoro svolto. Questo a fronte dello stipendio più basso d’Europa (per gli infermieri), e una forte richiesta sempre a livello europeo, per il livello di competenze. Ma questa mi sembra solo una enorme foglia di fico, una pacca sulla spalla condita di retorica religiosa sulla “missione”, sulla “vocazione” che troppo spesso scade nella dicitura “Eroi”. Non c’è nulla di più peloso e fuorviante. Infatti chi non si lascia abbagliare dalle sirene della “gloria” (perché poi, dovrei coprire io con il mio sudore, le carenze strutturali, se poi il 10% dei contagi in Italia è personale sanitario?), qualcuno parla apertamente di cambiamento, riconoscimento della professione, temi oggi divenuti ancora più caldi. Anche lo sciopero, con tutti i problemi che porta con sé nel nostro settore, corre sulla bocca di molti.

Prima dell’esplosione dell’emergenza a Codogno c’erano stati degli step organizzativi per prepararsi a gestire un’eventuale emergenza?

Forse ai piani alti, nelle varie Direzioni, si muoveva qualcosa. Da parte mia, lavoravo in una Residenza Sanitaria per Anziani (RSA), non vi dico il dramma, lo fanno già abbastanza bene i quotidiani. Zero misure di prevenzione reali. Imponevano mascherine chirurgiche (che non tutelano l’operatore, al massimo il paziente) senza fornirle. In teoria era vietato l’ingresso agli ospiti, in pratica il sistema delle RSA si basa sulle badanti private, senza le quali il personale non riuscirebbe a far fronte alle carenze. Dunque entrava chiunque e come testimoniano i quotidiani e i miei contatti personali, è entrato il COVID-19 a gamba tesa. Leggevo di strutture con più di 40 morti (un intero reparto di degenza, per avere un’idea). Una strage.

Da quello che vedi con i tuoi occhi quali sono state le scelte della politica che hanno messo in difficoltà il sistema sanitario nazionale?

Sarò brevissimo, ho già anticipato alcuni elementi. In primis i tagli alla spesa pubblica. Al secondo posto la denigrazione continua e persistente del sistema sanitario pubblico e il favoreggiamento di quello privato-convenzionato. Al terzo posto, ma si collega in parte al primo, le condizioni di lavoro del personale sanitario. In pratica, la solita ricetta neoliberista predatoria e irresponsabile.

Da addetto ai lavori non pensi che la figura del medico di base sia in questi anni stata quasi smantellata e che abbia inciso sul controllo territoriale dell’epidemia?

Era evidente già d tempo la crisi del medico di base. In questa specifica emergenza credo sia visibile a occhio nudo, ma erano tendenze in corso da tempo. Nella valutazione iniziale dei sintomi per COVID, il medico di base indirizza la persona verso la struttura oppure verso il proprio domicilio. Ma per esempio, questa attività di “scelta” viene svolta anche dagli infermieri di Triage, presso i Pronto Soccorso, che attribuendo un codice colore direzionano la persona a seconda del quadro sintomatologico. In prima persona ho consigliato ad amici come muoversi in questo. Il problema è proprio qui: decentralizzare la salute, evitando affollamento e contagio. È ovvio che se il sistema decentrato è in crisi, questo graverà necessariamente sulle strutture ospedaliere centrali, oppure sulla popolazione nella misura in cui la scelta “politica” di ridurre i ricoveri al minimo può aggravare la patologia perché non trattata adeguatamente. Quando il Presidente della Regione Fontana esulta per la riduzione delle curve e delle cifre sul COVID-19, ricordiamoci poi di confrontarle con i decessi al domicilio o gli ospedalizzati non COVID, e vedremo se questa situazione ha portato un aumento di decessi, per esempio, e in che misura.
Per tornare al medico di base, è una figura sicuramente in crisi, anche in virtù della del disinteresse da parte della Regione e dello Stato.

Di cosa ha bisogno in questo momento la tua categoria di lavoratori?

In questo momento, formazione e addestramento per tutto il personale, soprattutto quello attivo nelle unità operative intensive, sub intensive, infettive. DPI funzionanti e in numero sufficiente per garantire la propria incolumità ed evitare il contagio di pazienti e conviventi. Tamponi per tutto il personale venuto a contatto con pazienti positivi, e di conseguenza l’adeguamento dei laboratori all’aumento dei tamponi da analizzare. Questa misura è fondamentale, per non contagiare le persone che vivono con noi.
Una riduzione dell’orario lavorativo a parità di stipendio, o un riconoscimento delle indennità per chi lavora in queste unità (anche un’indennità per l’isolamento domestico sarebbe da considerare). Successivamente una revisione nettamente in meglio del CCNL.

Pensi che questa emergenza ci insegnerà qualcosa sull’importanza del sistema pubblico e sulla sbornia legata al privato degli ultimi 30 anni o, come sempre, finita l’emergenza, gli italiani dimenticheranno tutto?

Dimenticare la vedo dura. C’è gente che non ha il “privilegio” di un contratto CCNL, a breve finiranno i soldi, già da un decennio molti stanno bruciando i propri risparmi. Aggiungiamo il terrore diffuso dai media, le persone che non si vedono garantito il diritto alla salute (nonostante Stato e Regione ci vogliano far credere il contrario). La paura nei pazienti risultati positivi al COVID si respira, si trasmette. Non credo che dimenticheremo, gli effetti sanitari (forse) finiranno entro qualche mese, quelli politici chissà.
Credo che una tendenza che emerge, che è intrinseca delle malattie infettive, è di poter contagiare chiunque. Già solo questo potrebbe portare ad una rivalutazione in termini di sanità pubblica migliore. È vero, un ricco può curarsi a pagamento dove vuole. Ma ad ora non esistono farmaci specifici, e dunque con una buona risposta a questo COVID, quindi penso sia nell’interesse di larghe fette di popolazione il potersi affidare ad un sistema che si realmente pubblico e accessibile. Se non ricordo male, è nelle pandemie di peste che sono nate le prime strutture ospedaliere. Perché pure il ricco in isolamento nella villa aveva un servo, e il servo andava come tutti gli altri a fare acquisti al mercato, dove magari si contagiava. Che la sanità torni ad essere riconosciuta come diritto universale è una tendenza possibile.
Spetterà a noi tutti credo, fare “tesoro” di questo momento buio, che porta con sé anche tendenze positive, con effetti sull’ecologia, sul consumismo di massa e sul modello di vita che vorremo condurre, sul valore della socialità di cui oggi siamo privati, sul valore delle lavoratrici e dei lavoratori “essenziali” che mandano avanti la baracca-mondo, mentre gli amministratori delegati sono in quarantena in villa o in smartworking.

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Una risposta a “Intervista a un infermiere dei reparti COVID a Milano e attivista politico”

  1. Lupo ha detto:

    È necessario in momenti come questo informarsi e capire da ambienti critici e non uniformati,aiuta a non sentirsi soli e non abbassare la guardia

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