Meno reddito e più precarietà: la ricetta Draghi
Nel rapporto annuale della Caritas sulla povertà, pubblicato il 17 ottobre 2021, si legge che il reddito di cittadinanza è stato recepito da 3,7 milioni di persone nel corso del 2020 a livello nazionale, circa uno su cinque (19,9%) fra coloro che si sono rivolti ai centri e servizi Caritas nel 2020.
Lo stesso documento evidenzia chiaramente come la crisi socio-sanitaria, legata alla pandemia, abbia anche acuito le povertà preesistenti aumentando le disuguaglianze: cresce la quota di poveri cronici, in carico al circuito delle Caritas da 5 anni (anche in modo intermittente), che dal 2019 al 2020 passa dal 25,6% al 27,5%. Se guardiamo al dato più generale notiamo che in Italia si contano oltre 1 milione di poveri assoluti in più rispetto al pre-pandemia, arrivando al valore record di persone in stato di povertà assoluta: 5,6 milioni (pari a 2 milioni di nuclei familiari). Condizione che riguarda una quota maggioritaria di donne (52%) ed un numero crescente di lavoratori e lavoratrici precarie (working poors), che passano dal 5,5% del totale nel 2019 al 7,3% nel 2020.
Gli ultimi dati Istat ad oggi ci dicono che ci sono circa 300.000 occupati in meno rispetto a febbraio del 2020 e che la graduale ripresa dell’occupazione a partire da gennaio 2021 ha visto un forte incremento del lavoro precario, soprattutto a tempo determinato.
Pochi giorni dopo l’uscita del rapporto Caritas, martedì 19 ottobre 2021, il Consiglio dei Ministri guidato da Mario Draghi, novello “uomo della provvidenza” (definizione data da un autorevole membro della Cei e che ha un tragico precedente novecentesco), approva all’unanimità il Dpb, il Documento programmatico di Bilancio che disegna la cornice della manovra finanziaria da 23 miliardi la quale dovrà essere ratificata dal Parlamento entro la fine dell’anno.
Le scelte principali del governo riguardano pensioni, bonus fiscali, riduzione delle tasse, reddito di cittadinanza. Ci sarà un’unica quota per andare in pensione («Quota 102», frutto di una mediazione al ribasso con i sindacati confederali), ma solo per il prossimo anno (2022), sono previsti inoltre una stretta sul Reddito di Cittadinanza e lo stop definitivo al cashback, un fondo per anticipare il taglio delle tasse da 8 miliardi di euro (Irpef e Irap) e la proroga del Superbonus al 110% (seppur con dei paletti: tetto Isee di chi commissiona i lavori e di spesa sulla ristrutturazione).
In queste settimane il Reddito di Cittadinanza è stato al centro di numerosi attacchi da diverse parti politiche (Italia Viva, Lega e Fratelli d’Italia in particolare) oltre che dall’immancabile Confindustria e dalla maggior parte della stampa intenta a stanare i “furbetti” del reddito e a chiedere a gran voce più controlli, un po’ meno solerte nel riportare le numerose irregolarità trovate durante le diverse ispezioni nelle aziende e alle conseguenti mancate entrate fiscali per lo Stato.
La pressione di queste parti ha portato ad una rimodulazione peggiorativa del RdC: dopo i primi sei mesi infatti, il reddito subirà una riduzione cumulativa di 5 euro al mese con alcune eccezioni (nuclei con bimbi sotto i 3 anni, disabili gravi, non autosufficienti e a chi riceve meno di 300 euro). Inoltre ci sarà l’invocato inasprimento dei controlli e i beneficiari “occupabili” dovranno sottoscrivere il Patto per il lavoro contestualmente all’invio della domanda di RdC e potranno rifiutare solo due offerte di lavoro, non più tre, pena la decadenza dal beneficio. A tal proposito, viene previsto che l’offerta di lavoro è congrua quando:
-la prima offerta: entro 80 chilometri (oggi il limite è di 100 chilometri) di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di 100 minuti con i mezzi di trasporto pubblici;
-la seconda offerta: ovunque collocata nel territorio italiano.
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo determinato o parziale, invece, l’offerta di lavoro si definisce sempre congrua se entro gli 80 chilometri, sia la prima che la seconda.
In tutti i casi la retribuzione deve rispettare i minimi salariali previsti dai contratti collettivi ed essere superiore a 858 euro mensili per un tempo pieno (proporzionata in basa all’orario di lavoro previsto).
Se si assiste dunque ad una stretta dal lato dei beneficiari del reddito da un lato, dall’altro vengono messi in campo dei provvedimenti a favore delle aziende quali sgravi fiscali non solo in caso di assunzione a tempo indeterminato, ma anche per contratti a tempo determinato, part-time e persino per chi assume con contratti di apprendistato. In una battuta: meno vincoli per le aziende e più precarietà per i lavoratori e le lavoratrici.
Per quanto concerne invece i “progetti utili alla collettività” viene chiesto ai Comuni d’impiegare almeno un terzo dei percettori di RdC residenti, fermo restando che tale attività sia “a titolo gratuito e non è assimilabile a una prestazione di lavoro subordinato o parasubordinato e non comporta, comunque, l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego con le amministrazioni pubbliche”. Anche in questo caso si sostituiscono posti di lavoro mascherandoli con “attività a titolo gratuito” assimilabili al volontariato (qualcuno ne aveva parlato a Milano al tempo di Expo2015…).
Dulcis in fundo, un incentivo alle assunzioni andrà alle Agenzie per il lavoro (precario) per ogni soggetto che sarà assunto a seguito di specifica attività di mediazione superando così il modello dei Navigators (a loro volta precari, ora disoccupati).
Rimangono invariate le modalità previste al momento per presentare la domanda per avere il Reddito di Cittadinanza, che si può continuare a presentare o direttamente sul sito https://www.redditodicittadinanza.gov.it/, o presso tutti i Caf o gli uffici postali. Dopo la presentazione della domanda, l’Inps verifica i requisiti e, in caso di esito positivo, comunica quando e in quale ufficio postale è possibile ritirare la Carta del Reddito di Cittadinanza.
Il quadro così delineato rende ancora più condizionata l’erogazione del reddito e rientra perfettamente nella logica del “workfare” che accomuna la maggior parte delle leggi sul reddito varate nei diversi paesi europei.
A nostro avviso queste misure sono ampiamente insufficienti per contrastare la precarietà e non affrontano la graduale crescita delle disuguaglianze economiche e sociali del nostro paese. Per questo sarebbe necessario superare la visione “lavorista” e “assistenziale” sottesa a questi provvedimenti, oltre a riconoscere il (plus)valore prodotto e non retribuito nella nostra vita quotidiana richiedendo con determinazione una forma di Reddito di Base incondizionata e totalmente sganciata dall’attività lavorativa.
Come ben dimostrano le lamentele degli imprenditori, la versione italiana del RdC, seppur molto limitata, ha avuto il pregio di permettere a decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici di rifiutare lavori sottopagati o in condizioni degradanti. Lavori che decenni di norme ostili o inapplicate hanno reso una cattiva consuetudine a cui il nostro sistema produttivo e i nostri cari imprenditori non sanno più rinunciare.
Accanto ad un Reddito così concepito, è fondamentale l’introduzione di un salario minimo per evitare una guerra tra poveri tramite il cosiddetto “dumping salariale”. Questi due provvedimenti non sono alternativi, ma fortemente complementari: il primo infatti riconosce e remunera ciò che oggi gratuitamente produce valore per il capitale (relazioni, dati, scambi…), il secondo invece remunera in maniera degna il lavoro certificato e comunemente riconosciuto come tale.
Le lavoratrici e i lavoratori saranno in grado di difendere i propri interessi e far cambiare rotta al novello “uomo della provvidenza”?
di FabeR (GigaWorkers)
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