Milano non è una città per poveri: appunti sul Diritto alla città al tempo di Sala
Viviamo lo strano paradosso di abitare nella città che, nell’Italia gialloverde del Decreto Sicurezza, appare e si presenta come l’unica “isola felice nel mare” montante dell’ultradestra al governo. Milano è da sempre una città profondamente diseguale, con fratture interne ai suoi quartieri e con l’hinterland circostante molto marcate (1), ma è anche la capitale economica del Paese e la crescita del PIL urbano in controtendenza rispetto al resto d’Italia ha potuto mascherare le miserie con luci abbaglianti e bulimia edile fatta passare per progresso. Ma sappiamo bene che crescita non è assolutamente sinonimo di redistribuzione.
La cappa di conformismo e grigio moderatismo che domina il capoluogo lombardo è inevitabilmente figlio della sconfitta politica di quel variegato e ricco movimento che negli anni si è riconosciuto sotto il nome di No Expo e che aveva fatto del diritto alla città uno dei suoi principi globali di mobilitazione. Sconfitta gravida di conseguenze: dal punto di vista del consenso, l’opinione pubblica più moderata, ma che nei 7 anni di mobilitazione contro il mega-evento, in un modo o nell’altro era stata intercettata, si è spostata su posizioni più centriste e legittimiste nei confronti della nuova giunta meneghina, manageriale più che tecnocratica. Dal punto di vista invece più strettamente politico, complice anche la fine del ciclo conflittuale circostante, i movimenti sociali milanesi hanno trovato ben poco terreno di agibilità e capacità di fare rete.
Per noi, però, le fratture della città vetrina rappresentano tuttora dei potenziali fronti di conflitto sociale (come navigli, piazza d’armi, gli scali ferroviari, Città Studi) su cui ci siamo attivati mantenendo valido l’obiettivo della riappropriazione dello spazio fisico di vita, tempo libero, lavoro che è alla base della lunga tradizione di pensiero radicale che ha rivendicato il diritto alla città.
Lo scorso maggio la giunta cittadina ha presentato alla città Milano 2030: la vision di lungo termine che affianca la produzione del nuovo Piano di governo del territorio: rigenerazione urbana, mobilità leggera, sostenibilità, aria pulita…manca la pace nel mondo. Non conosciamo (quasi!) nessuno che storcerebbe il naso di fronte a una prospettiva di tale bellezza ed equità sociale. Qual è il problema?
Il problema è una città che ha come unico fine la valorizzazione del proprio brand e del posizionamento nella vetrina internazionale degli investimenti finanziari e del turismo ricco, più attenta a rispondere a queste esigenze che non ai bisogni e alle aspettative dei propri abitanti.
Una città che vive in modo compulsivo a colpi di grandi eventi (ieri Expo, domani, con sempre più probabilità, le Olimpiadi), medi, piccoli, senza un reale progetto sociale per chi nella quotidianità deve trovare risposte accessibili e degne ai bisogni primari: casa, reddito, salute, socialità, cultura.
Il problema sta nel gap tra la promessa e il dato di realtà, un po’ come quello che oggi separa, a Milano, il mercato immobiliare del centro città (dove i nuovi cantieri non scendono sotto la soglia dei 10.000 euro/mq) e le 25.000 persone da anni in lista d’attesa per una casa popolare.
Il problema si scorge nel progetto Reinventing cities, anima nobile del cartello di città globali resilienti C40 e, secondo uno sguardo più severo, progetto di greenwashing che porterà alla svendita di cinque aree di proprietà pubblica di grande pregio.
Il problema emerge quando i sei scali ferroviari, un unicum forse in tutta Europa, sono considerati dal Comune stesso una proprietà privata delle Ferrovie (a cui erano stati ceduti dal demanio per espletare una funzione pubblica e non come asset societario privato).
Ancora un problema è rappresentato dal “Progetto navigli” che, con le radici piantate in una pur piacevole riapertura di un tratto degli storici canali meneghini, giustifica una ingente e non prioritaria spesa pubblica attraverso il “metodo dei prezzi edonici”, o, in altre parole, con l’apprezzamento del valore immobiliare a beneficio dei proprietari del centro storico. Infine, magari fosse l’ultimo, un problema è rappresentato dalla continua cessione di patrimonio pubblico a fondi di investimento e banche per finanziare la spesa corrente. E sempre il progetto Navigli ci rivela tutta la finzione della cosiddetta “progettazione partecipata”: in ultima analisi, strumento di legittimazione della trasformazione urbana secondo i progetti decisi dall’alto, immodificabili nella debat public il cui unico risultato sembra essere solo un verbale descrittivo di interventi senza possibilità di decisione reale.
Milano è più bella e non sta mai ferma. C’è del vero. Però Milano deve scegliere se guardare anzitutto ai suoi abitanti, a chi l’attraversa per studio e lavoro, a chi attende la chance di riscatto nei Comuni di prima e seconda cintura, o se, affianco all’inevitabile mutazione dell’urbano, sia socialmente accettabile una mutazione del cittadino in utente e quindi in cliente. Le periferie sociali, la sperequazione delle politiche pubbliche, l’inquinamento che ci attanaglia, raccontano un fallimento diverso dall’immobilità: il combinato disposto di mancati trasferimenti, timidezza delle amministrazioni locali e protagonismo del privato, stanno consegnando la città in mano a nuovi decisori. Come impedire dunque la squalifica dei soggetti che non rientrano nel disegno dell’attrattività turistica internazionale?
Un mese fa, in difesa dell’esperienza di Macao, scrivevamo:
La città, fatevene una ragione, non è fatta solo di vuoti e di pieni, di giustizieri e mascalzoni, di guardie (a difesa della proprietà) e di ladri. Mentre la città esclusiva è per definizione escludente, la città che conosciamo e attraversiamo vive di zone di confine: margini geografici e “posture sociali” irriducibili ai concetti di decoro, legalità, giustizia…alla vostra stessa idea di bellezza.
Operaie e operai in uscita dallo stabilimento Pirelli di Milano nel 1905
Estrattivismo meneghino e Diritto alla città
Il modello di città che viene disegnato ricorda tanto il (falso) sogno americano, secondo il quale, se vuoi, ce la puoi fare e se non ce la fai è solo colpa tua, perché Milano è attrattiva e includente. Peccato che questa città “attrattiva e includente” neghi la questione migrante (almeno il 20% della popolazione residente) se non in omaggio ai miraggi di competitività.
Un’area metropolitana che, proprio per poter essere smart, deve nutrirsi anche di “lavori poveri” e precari, attività di servizio poco qualificate o, se qualificate, dominate dalla precarietà delle partite IVA, lavoratori e lavoratrici stagionali che, secondo il principio dell’esclusione periodica, generano una crescita polarizzata e non in grado di costruire un saldo e competitivo tessuto economico.
A chi giova allora questo modello economico? Prendiamo l’esempio tutto milanese della smart-city: zona comfort dell’abitare 2.0 o disinvolta cessione di dati utili a una sempre più precisa profilazione sociale? Milano è già il laboratorio italiano dell’accumulazione originaria di cognizione dei nostri comportamenti. Questa conoscenza, nel contesto della gig economy, è necessariamente orientata alla produzione di nuovi bisogni/consumi e altrettanto necessariamente è laccata da un’estetica suadente, ammiccante e perniciosa. Non vi è alcuna apertura né democrazia nella logica dell’algoritmo che un giorno squalifica il fattorino che non prende la comanda, l’altro vende al miglior offerente la conoscenza acquisita sui nostri comportamenti di ogni giorno.
Ecco un’altra chiave di lettura che ci può aiutare a comprendere (e combattere) meglio le dinamiche meneghine: l’estrattivismo, che Raul Zibechi ha descritto nell’America Latina neoliberale del dopo giunte militari, acquisisce nella capitale finanziaria italiana un significato ancora più forte e marcato. Non è soltanto la spoliazione tramite infrastrutture meramente speculative e privatizzanti, non è solo il furto e l’inquinamento delle terre per fare spazio ad autostrade e opere ferroviarie che si sono dimostrate inutili (a conferma delle denunce e di quanto affermato negli anni dai comitati territoriali), ma è anche la l’estrazione di dati personali, di valore dai metri quadri scambiati sulla Borsa dei Diritti Edificatori, è il dominio incontrastato degli operatori privati.
Milano, oggi, si è avviata verso “economie ‘verticali’ che non si articolano con le economie delle popolazioni. Estraggono, prendono, ma non interagiscono; impoveriscono la terra e il tessuto sociale, e isolano le persone”. Le aziende “si convertono in un attore sociale totale, tendono a ri-orientare l’attività economica e diventano agenti di socializzazione diretta con azioni sociali, educative e comunitarie. Pretendono di essere agenti socializzatori per conseguire il controllo generale della produzione e della riproduzione della vita delle popolazioni” (2). Un’immagine perfettamente coerente con quella delineata da Milano 2030.
La metafora della gig economy suggerisce che nuove periferie della cittadinanza stanno prendendo forma e illustra l’urgenza di minare le sue black boxes. Abbiamo urgenza di una nuova cognizione di come funziona, di come “si fa” o “si agisce” la città. Un nuovo protagonismo delle arti e dei mestieri, dell’attivismo e dell’uso non convenzionale degli spazi, la riappropriazione del tempo destinato al lavoro, sono tutte tappe ulteriori di questa forzatura. La città che conosciamo non è inevitabile né desiderabile. Non per tutti almeno. Diritto alla città oggi significa nuovamente capacità immaginativa, accesso allo spazio pubblico e sua occupazione/liberazione da parte di soggetti collettivi, cassetta degli attrezzi e conoscenze per ribaltare il piano previsto dall’agenda degli stakeholders e dei loro delegati politici.
(1) Due dati su tutti: il reddito medio 30.600 €/anno per il Comune di Milano, con 5 comuni area metropolitana con redditi superiori (Basiglio, Cusago, Segrate, San Donato, Arese) e quelli dell’hinterland nord con redditi inferiori (Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo, Bresso, Paderno Dugnano). All’interno del Comune di Milano si va dal reddito superiore delle zone centrali (Cerchia dei Bastioni, Lambrate) a quello inferiore delle periferie (Quarto Oggiaro, Bonola, Stadera). Per quanto riguarda invece il titolo di studio, in particolare la laurea, c’è una enorme differenza Centro / Periferia: 51,2% Magenta e San Vittore → 7,6% Quarto Oggiaro; 42% dentro la cerchia dei bastioni → meno del 12% periferie nord-ovest (Quarto Oggiaro, Comasina, Bovisasca), ovest (Quinto Romano, Baggio, Figino), sud (Barona, Gratosoglio), est (Monluè, Ponte Lambro).
(2) R. Zibechi, La nuova corsa all’oro, pp. 20-21, Re:Common 2016.
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Non sono d’accordo. Non tutto è di competenza del Comune, non il lavoro ad esempio. Per “pensare ai bisogni dei suoi abitanti” e dei migranti (ovvero per essere includente ed accogliente), occorre reperire risorse, che vengono anche dai privati (diventando attrattiva). Le due cose stanno insieme. Bene sta facendo Milano, nessun’altra meglio in Italia, anche in termini di partecipazione, cultura, welfare. Sugli Scali non è MIlano che può cambiare il fatto che la proprietà è di FS. Ha fatto un accordo sulla destinazione a verde, con bassa percentuale di edilizia, in quota parte convenzionata per locazioni a prezzi calmierati (che pure serve se vogliamo che a Milano tornino ad abitare i giovani e le famiglie e non solo anziani e turisti). A me pare un buon accordo. Vero invece il discorso sui comuni della cintura e le zone di confine sulle quali Milano dagli anni ’60 ha riversato il peso dei milanesi più poveri che lì hanno dovuto trasferirsi, non per libera scelta.