Turchia – Il prezzo della stabilità
La Turchia decide di affidarsi alla mano forte del Presidente Erdoǧan pur di evitare un altro periodo di instabilità e conflitti: ma diverse questioni rimangono aperte e il concentramento del potere nelle sue mani non aiuterà a risolverle.
“DEPREM”: terremoto, era il termine più ricorrente nei quotidiani turchi usciti il giorno dopo la tornata elettorale del 1 Novembre, il cui risultato ha sorpreso tutti. Nelle precedenti elezioni una ventata di novità aveva soffiato sul paese: l’AKP il partito filo islamico al potere da 12 anni, aveva perso la maggioranza assoluta e risultava sventato il piano dell’ex-premier ora Presidente Recep Tayp Erdoǧan, fondatore e leader del partito, di modificare la costituzione in chiave presidenziale; allo stesso tempo faceva il suo ingresso in un parlamento da tempo ingessato una nuova forza politica, il filo-curdo partito democratico dei popoli HDP, scelto non solo dai curdi ma anche da molti turchi come unica opzione per un cambiamento in chiave democratica del paese.
Con le recenti elezioni la Turchia ha nuovamente cambiato volto; in soli 5 mesi si è riconsegnata all’egemonia del partito unico che è passato dal 40,9 % al 49,5 % delle preferenze. 5 mesi in cui agli aliti di speranza si è sostituito il ciclone della paura. La campagna elettorale dell’AKP, piena di slogan vuoti e senza un progetto per il paese, l’hanno fatta le bombe. La strategia di Erdoǧan è stata chiara e sfacciata fin da subito: riprendere la guerra con i curdi del PKK, con il suo alto tributo di vite umane, per fomentare le pulsioni nazionaliste di una parte di elettorato, ha funzionato, e lo si vede bene nell’emorragia di voti subita dall’MHP: il partito ultranazionalista, quello dei famosi lupi grigi, ha perso più di 4 punti percentuali (dal 16,4 al 11,9 %), pagando anche lo scontento di una base che non avrebbe disdegnato la formazione di una coalizione con il partito di Erdoǧan, operazione che avrebbe portato al governo un partito da tempo ascritto a un ruolo per lo più “decorativo”.
Altri fattori poi hanno determinato, in misura minore, la nuova distribuzione dei voti: una parte è stata recuperata dall’AKP grazie alla rinuncia di alcuni partiti, in particolare di un partito islamico radicale, di presentarsi alle elezioni: operazione frutto di un accordo segreto con l’AKP avvenuto a ridosso dell’appuntamento elettorale. Inoltre nella precedente tornata elettorale aveva contato la scelta di molti elettori del CHP, il maggiore partito di opposizione, di dare il voto all’HDP, per permettergli di entrare in parlamento e scongiurare il cambio della costituzione, una sorta di “voto utile”, che in queste elezioni è invece tornato alla casa madre. Questo spiega il calo dell’HDP nella parte occidentale del paese e nelle grandi città come Istanbul ed Ankara. E ancora: la problematica situazione nell’est del paese; in quelle zone è avvenuto il numero maggiore di brogli, che in Turchia non sono una novità: nel caso di queste elezioni sono numerosissime le segnalazioni da parte di testimoni oculari supportate anche da immagini e video, di sacchi di schede caricati su macchine civili a destinazione ignota, di sacchi di schede che davano il voto all’HDP ritrovati nella spazzatura, di votazioni effettuate più volte, di intimidazioni subite dagli osservatori del voto e dai votanti stessi: si andava a votare con i carri armati parcheggiati fuori dal seggio e con la polizia all’interno a fucili spianati. Sempre in queste zone si è registrato il livello di astensionismo maggiore: fenomeno frutto della paura e della desertificazione provocata dalla ripresa della guerra fra esercito e PKK: interi villaggi sono stati attaccati, isolati, e i boschi bruciati: la gente è stata sfollata e non ha più potuto tornare per votare.
Prima delle elezioni c’erano più incognite sul dopo voto che sul voto stesso: i sondaggi più attendibili mostravano tutti che non ci sarebbero state sensibili variazioni rispetto al voto precedente, quindi si sarebbe potuto ripresentare l’impasse della coalizione impossibile, oppure, sempre in base alle previsioni, che l’AKP poteva prendere qualche voto in più e forse riuscire a convince il MHP a fare una coalizione di governo (ipotesi non molto rosea nemmeno questa), oppure che ne poteva uscire più indebolito, e allora avrebbe dovuto cedere un un’ampia coalizione e vedere il suo partito spaccarsi in due. Tutti scenari possibili e dal futuro molto incerto.
Si è realizzata l’opzione meno prevista, quella del ritorno al partito unico, che dà meno libertà, ma più certezze. Una mano forte al governo, che però stritola.
In effetti la Turchia, con l’economia in calo, la crisi dei rifugiati siriani, le infiltrazioni dell’ISIS, la guerra dentro e fuori i suoi confini, non poteva permettersi un altro periodo di instabilità: ma anche con questa scelta “pragmatica”, rimangono dei grandi interrogativi:
Come gestirà Erdoǧan la questione curda? Dopo averlo deliberatamente interrotto a fini elettorali, è molto probabile che l’AKP, fra un po’ di tempo, quando i bollori nazionalistici si saranno abbassati, cercherà di riattivare il percorso di pace con i curdi iniziato 3 anni fa, che al momento ha portato a delle concessioni ai curdi più che altro di facciata; per fare questo dovrà riprendere le trattative con il PKK, che ha bombardato fino a ieri: il PKK sarà disponibile? Anche per i sostenitori del PKK non è una decisione facile: i curdi sono stanchi, lo si è visto nelle reazioni al risultato del voto, pochi e isolati focolai di protesta a Diyarbakir e in qualche altra città, in tanti non ne possono più di morti, di deportazioni, di coprifuoco; il fronte potrebbe spaccarsi. Inoltre, qualora il processo riprendesse, quale sarà l’atteggiamento nei confronti delle zone di autonomia curda in Siria come il Rojava? Come conciliare il riconoscimento di elementi di autonomia con il contenimento del confederalismo democratico praticato in Rojava, che la Turchia vede con il fumo negli occhi?
Un’altra questione che pone interrogativi inquietanti è quella della relazione fra Turchia ed ISIS. In Turchia è ormai evidente che esista una cellula turca dell’ISIS; essa affonda le sue radici negli Hezbollah di Turchia, curdi sunniti integralisti in guerra con i curdi del PKK fin dagli anni ’90: alcuni di questi soggetti, tradizionalmente molto violenti, sono passati all’ISIS ed i loro principali nemici sono il PKK, l’HDP, gli sciiti, gli atei, i miscredenti etc.; il governo turco non solo ha sottovalutato la crescita di questi gruppi, ma in alcuni casi li ha supportati in chiave anti-Assad e anti-curda; a questo si aggiunge il fatto che per il governo turco è stato fino a poco tempo fa impossibile utilizzare il termine “terrorista” per un’organizzazione di stampo islamico. Questo per una questione di affinità culturale e perché per lo stato turco profondo, per la sua pancia, il vero terrorista, il nemico secolare, è il curdo, non il fondamentalista islamico. Quindi è prioritaria la guerra allo sviluppo dell’identità curda, come sta avvenendo in Rojava, che al terrorismo di matrice islamica. Queste lacerazioni della società turca, e le contraddizioni del Governo, rappresentano un grosso rischio. Per quanto di mano forte, Erdoǧan non dimostra affatto di avere il controllo della situazione nè gli anticorpi per affrontarla.
Un’ultima questione sulla quale preoccuparsi, è quella della libertà di stampa: a che punto arriverà l’abuso di potere che Erdoǧan ha già esercitato sui mezzi d’informazione? Mesi fa è stato chiesto l’ergastolo per il direttore di Cumhuriyet, quotidiano di tiratura nazionale che aveva pubblicato le foto che testimoniavano il passaggio di armi dalla frontiera turca verso la Siria. Dopo le elezioni di Giugno sedi di giornali sgraditi per le loro posizioni sono state attaccate e vandalizzate da sostenitori dell’AKP senza che il governo dicesse una parola al riguardo e diversi giornalisti sono stati licenziati. Pochi giorni prima delle elezioni le forze di polizia hanno fatto irruzione nella sede di due canali televisivi e di un quotidiano, le cui redazioni sono state azzerate e sostituite. 58 giornalisti non potranno ritornare al loro lavoro. Due giorni dopo il voto è toccato al direttore e al caporedattore della rivista “Nokta”, per istigazione a delinquere ed eversione dopo una copertina non gradita.
Erdogan considera ogni suo avversario un nemico, che venga dalla politica, dall’informazione, o dalla società; contro ognuno dei suoi nemici scatena una guerra, e in guerra, ogni mezzo è lecito.
Ecco il prezzo della stabilità.
Serena Tarabini
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