Eroi pericolosi? No, fondamentali

Dopo più di un anno dall’ultima recensione dedicata a un libro sulla lotta partigiana – Processo alla Resistenza di Michela Ponzani, autrice che abbiamo imparato ad apprezzare anche sul grande schermo per le bastonate dialettiche rifilate a Italo Bocchino e al suo libro di fantapolitica revisionista – torniamo a parlare di Resistenza sattraverso Eroi pericolosi. La lotta armata dei comunisti nella Resistenza di Gabriele Ranzato.

Partendo dal periodo caldissimo dell’estate 1943, che vide il crollo del fascismo e l’armistizio, l’autore parla delle difficoltà iniziali del movimento resistenziale italiano dovute all’assenza di modelli di lotta partigiana da seguire. La guerra civile spagnola, che alla Resistenza avrebbe fornito alcuni quadri dirigenti, era infatti stata uno scontro in campo aperto tra grandi reparti e non una guerriglia. Nei primi passi della resistenza avrebbero dunque giocato un ruolo decisivo i giovani cresciuti e “traditi” dal fascismo più che le vecchie leve dell’antifascismo.

Ranzato riconosce la potenza simbolica e identitaria fortissima del mito di Stalin e dell’Armata Rossa come vettore primario e fondamentale di mobilitazione tra il partigianato comunista: l’epopea di Stalingrado, del resto, era di pochi mesi antecedente agli episodi presi in considerazione dal libro. Per la dirigenza comunista il modello irraggiungibile era quello jugoslavo, di un esercito nazionalpopolare come quello di Tito.

Viene raccontata la tendenza moderatrice e mediatrice, a differenza di quel che sostiene la storiografia revisionista, delle gerarchie di partito rispetto alle spinte radicali dal basso con una base che faceva invece ampio utilizzo della simbologia identitaria comunista come saluti a pugno chiuso, bandiere rosse, stelle rosse, inni come Bandiera Rossa e così via. Non è un caso, infatti, che dal basso arrivasse una grande insofferenza verso i tentativi di dare alle formazioni partigiane comuniste un inquadramento militare e di sostituire l’identità comunista con quella patriottica, dovuta al totale discredito di cui godeva il Regio Esercito. Insofferenza estesa anche ai tentativi di centralizzare le strutture autonome per un fine strategico “più alto”.
Si confrontavano sul campo, insomma, due modi di essere comunisti nelle formazioni partigiane: uno più di testa, con un’adesione alla linea di partito, e uno più di pancia, mosso da un comunismo istintuale derivato quasi sempre dall’appartenenza di classe e dalle dure esperienze di vita precedenti alla lotta partigiana.

La caratteristica fondamentale che distinse le formazioni comuniste, non a caso chiamate Brigate Garibaldi, dal resto della Resistenza italiana fu una lotta continua e serrata all’attendismo e uno spirito di sacrificio fuori dal comune, che attirò moltissimi giovani coraggiosi il cui scopo primario, più che i dibattiti sul marxismo-leninismo, era cacciare i tedeschi dall’Italia. La spinta al combattentismo, tra l’altro, sanava e teneva insieme le tensioni contraddittorie presenti nelle formazioni comuniste. Vengono inoltre ricostruite la costante difficoltà, se non impossibilità, di compiere azioni comuni con formazioni di altra ispirazione politica e la diffidenza reciproca fortissima, non sempre e solo per colpa dei “rossi”.

Una delle leve fondamentali che mosse la lotta fu il riscatto dell’Italia dopo la parentesi vergognosa e ignobile della guerra fascista, cosa che molti revisionisti dimenticano presi come sono a dare, spesso in malafede e con secondi fini, giudizi astratti di moralità alle azioni partigiane, totalmente incuranti di cosa sia stata la Seconda guerra mondiale a livello di ferocia, strage e massacro quotidiano. Idea idiota e ignava che i partigiani avrebbero dovuto affrontare i nazisti in campo aperto per farsi spazzare via in uno scontro in totale inferiorità militare, numerica e tecnologica. Lo scopo della resistenza era appunto resistere, e solo chi finge di non sapere cosa fossero i nazisti può permettersi di straparlare delle rappresaglie causate dai partigiani. L’unico modo per non avere rappresaglie sarebbe stato quello di non resistere. Idea che, del resto, si adattava benissimo a quella larga zona grigia di italiani che, senza mai compromettersi e rischiare, attendevano alla finestra l’arrivo degli Alleati. I campi di sterminio e i massacri di massa dimostrano tra l’altro che, anche senza lotta partigiana, i nazisti avrebbero comunque fatto strage. Le zone più colpite dalle rappresaglie, attorno alla Linea Gotica, erano le zone a più alta attività partigiana che venivano vissute dai tedeschi quasi come un secondo fronte (campagna Wallenstein dell’estate 1944 sull’Appennino). Le stragi spesso furono dettate dall’odio verso il popolo italiano “traditore” e dall’insofferenza verso la guerriglia.
Sostegno incondizionato degli alleati alle azioni partigiane anche se queste comportavano rappresaglie che, del resto, avvennero in tutta l’Europa occupata. La volontà di riscattare la vergogna dei vent’anni precedenti veniva prima delle considerazioni sui civili e, non a caso, viene descritta la difficile convivenza con le popolazioni locali fatta di momenti contraddittori e lontana dalle agiografie della storiografia resistenziale dei primi decenni dopo la fine della guerra. Si voleva far capire agli Alleati e anche ai tanti Paesi che avevamo ignobilmente aggredito che non tutti gli italiani erano fascisti e cercare di evitare all’Italia la fine imposta alla Germania alla cessazione del conflitto nel maggio 1945.

Grande attenzione viene riservata ai GAP, i Gruppi di Azione Patriottica che si diedero alla lotta armata clandestina nelle città e furono solo comunisti. La loro vita in clandestinità in città occupate dai nazifascisti era durissima e il numero di caduti nelle loro fila altissimo, vista anche l’esiguità dei numeri. La loro importanza fu quella di aver dato vita ad azioni simbolicamente importante sotto i riflettori delle città: quella di via Rasella, per esempio, tanto esecrata qui da noi, fu l’attentato col più alto numero di tedeschi uccisi in tutta l’Europa occupata dai nazisti e la notizia di un simile attentato si diffuse con forza in tutte le terre del continente occupate dal giogo nazifascista destando grande impressione e spirito combattivo. Di notevole interesse, oltre alle citazioni di articoli della stampa partigiana tra cui spicca “La nostra lotta”, sono l’utilizzo di scambi epistolari e documenti interni e l’appendice finale con la cronologia delle azioni dei GAP nelle grandi città operaie del Nord: Genova, Milano e Torino.

Il grande ottimismo dell’estate 1944, che vide la liberazione di Roma e gli sbarchi in Francia, determinò l’idea impraticabile di costruire gigantesche zone libere. La difficoltosa esperienza delle zone libere (più di una ventina di diversa durata e dimensioni) ebbe grande valore politico, ma meno militare. Le forze partigiane divennero stanziali perdendo tutti i punti di forza tipici delle formazioni guerrigliere e subendo i colpi della controffensiva nazifascista.

L’arresto dell’offensiva alleata e il Proclama Alexander nell’Inverno del 1944 provocarono un pesante crollo morale e psicologico dopo le grandi aspettative dell’estate. Fu un inverno di pesantissime operazioni anti-partigiane e sbandamento, caratterizzato dalla cosiddetta “pianurizzazione”, ovvero lo sganciamento delle formazioni partigiane dal nemico, il loro momentaneo smembramento e il rientro di molti combattenti, filtrando i controlli nazifascisti, nelle zone di pianura.
Con i Protocolli di Roma dell’inizio del ’45 la Resistenza fu subordinata, nero su bianco, alle esigenze alleate. Questi accordi furono una moneta a due facce: da un lato vi fu l’indubbia subordinazione militare (ma anche politica) agli angloamericani, dall’altra un riconoscimento ufficiale con quel che ne consegue in termini di rifornimenti e credibilità, anche a livello internazionale. L’idea dell’unificazione delle forze partigiane e del loro inserimento nell’esercito italiano vede l’opposizione dal basso e una forte diffidenza degli Alleati (specie inglesi) per paura del peso determinante del PCI, visto quello che stava succedendo in Grecia dove era già scoppiata la guerra civile tra forze conservatrici e forze comuniste.

Gli Alleati, con l’avvicinarsi della primavera e della ripresa dell’offensiva, erano estremamente preoccupati per il passaggio di consegne del potere, per la consegna delle armi da parte dei combattenti della guerriglia e il per il trattamento che sarebbe stato riservato ai fascisti da parte dei partigiani. Londra e Washington non volevano l’insurrezione e la liberazione autonoma delle città e c’era una vera e propria paura della “calata” dalla montagna alle città delle formazioni partigiane, tanto che ci furono ordini contrari, ma la forza della storia e il vento della liberazione travolsero ogni considerazione politicamente cauta e circospetta.

Le imposizioni degli Alleati non vennero rispettate, le insurrezioni ci furono (si parla in dettaglio di Genova, Torino e Milano), le città si liberarono da sole e le formazioni di montagna arrivarono in città; si fece anche giustizia di Mussolini e di un po’ dei suoi, mentre magari qualcuno a Londra e Washington pensava di salvargli la pelle per riproporcelo in funzione anticomunista qualche anno dopo.

Chiudiamo riprendendo il titolo della recensione. Se per qualcuno, anzi molti, nel nostro Paese anche nel fronte dei vincitori del conflitto (non parliamo degli sconfitti e dei loro eredi che ancora oggi non l’hanno mandata giù e ricoprono la Resistenza di infamie vigliacche) i partigiani comunisti erano, seppur degli eroi, anche estremamente pericolosi per l’idea di mondo di cui erano portatori, per noi rimangono figure fondamentali di una delle pagine migliori della storia italiana, quasi sempre condannata a una perenne palude d’immobilismo e conservatorismo. Eroi dunque. E fondamentali.

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *