La salute mentale è politica: la psichiatria nella gabbia del capitalismo
Se con L’economia è politica l’economista Clara Mattei e l’editore Fuoriscena ci hanno raccontato l’evoluzione della dottrina economica con una lente politica, vale a dire come il neoliberismo capitalista sia divenuto un’ideologia totalitaria e apparentemente ineluttabile che influenza nel profondo le nostre esistenze, con il nuovo libro La salute è mentale è politica lo psichiatra Piero Cipriano e l’editore milanese provano a condurci in un interessante viaggio all’interno del mondo della cura del disturbo psichico. Spiegandoci come, anche in questo caso, il realismo capitalista (per dirla alla Mark Fisher) con la sua struttura economica predatoria, capace di incunearsi in ogni aspetto dell’esistenza umana per metterla a profitto, abbia determinato il modello dominante di pratica psichiatrica. Il percorso della psichiatria è, inevitabilmente, un percorso puntellato da grandi nomi e dalle idee che hanno camminato sulle gambe di psichiatri che hanno fatto la storia. Ma è anche un percorso che passa dalla visione di mondo e di società che questi personaggi hanno espresso, a seconda della loro sensibilità e delle epoche storiche che si sono trovati a vivere.
L’autore, con grande capacità narrativa e notevole dote di scrittura, ripercorre innanzitutto la storia della psichiatria, tornando ai tempi del manicomio. Manicomio concentrazionario che nasce nella Francia dei Lumi di fine Settecento per separare i “folli” (non colpevoli della propria follia) dai criminali (consapevoli, e dunque responsabili, delle proprie azioni). Per far uscire i matti dal carcere. L’intuizione, non priva di umanità, di Philippe Pinel viene però, nella sua ricaduta pratica, immediatamente trasformata in qualcosa di terribile, visto che le strutture che ospitano i folli divengono in tutto e per tutto simili alle galere, e i livelli di violenza e sopraffazione contro i malati quasi sempre sono più alti di quelli esercitati nei confronti dei galeotti. A quel punto, un’indelebile cancellatura era già stata tracciata sul modo, perlopiù non istituzionalizzato, in cui le società premoderne avevano affrontato e “gestito” il disagio psichico, che, ci arrischiamo a ipotizzare, esiste in qualche forma da che esiste l’uomo (e, come scrive Cipriano, ogni epoca ha il suo disturbo psichico distintivo). Il matto del villaggio, ma anche la guaritrice che ci sapeva fare con le erbe. Tutto rimosso. Il primo rinchiuso tra quattro mura – di carcere o manicomio poco importa –, la seconda bruciata sul rogo come strega.
Ma torniamo al manicomio. La lotta epica contro questa istituzione totale ha come epicentro l’Italia. Se si pensa all’Italietta vecchia, impaurita e conservatrice di oggi sembra impossibile, ma negli anni Settanta il nostro Paese è stato uno dei fulcri della critica al sistema in tutti i suoi aspetti (che ha fatto talmente paura ai miserabili poteri italiani da meritarsi un muro d’acciaio di damnatio memoriae). Una critica che ha coinvolto anche il mondo della psichiatria. È dunque in quegli anni che Franco Basaglia – ma non solo lui, come racconta Cipriano – intraprende una battaglia d’avanguardia, ma sostenuta da un certo consenso, per la chiusura di quel luogo di separazione, annichilimento e troppo spesso tortura, riuscendo infine nell’impresa.
Se gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo rivoluzionario, il decennio successivo è stato invece caratterizzato dall’impetuosa controrivoluzione neoliberista, che, proprio come l’ondata libertaria dei due decenni precedenti, ha influenzato profondamente anche la scienza psichiatrica, facendo leva su due potenti specchietti per le allodole: la valorizzazione estrema dell’io e l’esaltazione delle libertà individuali. Cipriano insiste sul ruolo di Margaret Thatcher che, non a caso, aveva studiato chimica: “l’ex chimica prestata alla politica”, come la definisce l’autore. Una fiera sostenitrice dell’idea che la società e i suoi legami non esistono. Esiste solo l’individuo, fottutamente solo e pronto a sbranare i suoi simili. E se qualcosa non va in questo individuo – se è depresso, schizzato, stanco, apatico, incazzato – il problema è solo suo, e del suo cervello. Un cervello rotto che è necessario aggiustare con la chimica. Non è un caso che il DSM-III (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, terza edizione), quello che porterà in auge la psichiatria farmacologica come panacea a tutti i mali del vivere, abbia visto la luce proprio nel 1980, dopo il primo anno di governo Thatcher in Inghilterra e poco prima dell’avvento di Ronald Reagan negli Stati Uniti, nonché nell’anno in cui viene a mancare il rivoluzionario Basaglia.
Si passa, così, dal manicomio classico, come struttura fisica, a quello che Cipriano definisce il “manicomio chimico”. Ogni persona che vive un disagio viene etichettata, incasellata dal sempre più specifico DSM (la Bibbia della psichiatria, inculcata ai futuri psichiatri in università) e trattata con farmaci che generalmente, sottolinea Cipriano, sedano, chiudono, tappano il problema senza nemmeno provare a risolverlo. Anzi, spesso lo cronicizzano, o scatenano disturbi accessori che in alcuni casi sono “peggio del disturbo primario che dovrebbero curare”. A ciascuno, insomma, il suo piccolo manicomio personale. Quanti di noi si potrebbero ritrovare in questa descrizione! Se il manicomio fisico, con la sua mostruosità visibile, era criticabile e financo abbattibile, il manicomio attuale è nella testa di ognuno di noi.
Non che i manicomi fisici siano spariti, ammonisce Cipriano. Anzi, viviamo oggi una fase di revival manicomiale. Quando sui giornali si legge qualche caso di cronaca nera legato a un disagio psichico, sono in molti ad auspicare – invocare – la riapertura dei manicomi, spesso maledicendo Basaglia e sostenendo che “persone così” sono un rischio per la società. Meglio rinchiuderle, anche legarle se necessario, e se capita qualche incidente… tutto sommato, parliamo di umani di serie b. In questo modo, come spesso capita, un sentire in parte giusto trova risposte totalmente sbagliate. Che le famiglie con casi di disagio psichico grave siano spesso abbandonate a loro stesse è un dato di fatto. E cosa rimane, a queste famiglie, specie quando non abbienti, se non affidarsi agli Spdc (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura)? Spdc chiusi, sorvegliati e ospedalizzanti, dove si somministrano farmaci depot a lento rilascio che sedino a lungo, dove si lega in attesa che passi “la fase di crisi acuta”. Non è manicomio questo? Del resto, nella nostra società, tutto ciò che non produce profitto e performatività immediata è un problema che dev’essere messo da parte, abbandonato, lasciato andare alla malora, nascosto sotto il tappeto. La strade più facile, più immediata, più invocata, meno costosa e faticosa è quella della repressione, che vale per qualsiasi categoria sociale di “devianti”: maranza, ultras, black bloc, migranti… e infine i pazzi. Troppo difficile gestire politicamente la complessità di queste situazioni e, soprattutto, troppi soldi buttati senza creazione immediata di profitto. Lo scopo resta sempre e comunque la sterilizzazione di ogni ambito del vivere sociale e dei suoi innati e naturali conflitti. Tutti dobbiamo essere soli, atomizzati, controllabili, sfruttabili.
Cipriano mostra in questo suo ultimo libro anche un certo scetticismo verso il “revival psichedelico”, ovvero la ripresa dell’utilizzo, in psichiatria, di sostanze psichedeliche come l’esketamina (furba forma brevettata, e dunque assai costosa, di ketamina, unica sostanza attualmente legale in Italia e che l’autore racconta di aver testato con alcuni pazienti, per poi abbandonarla) o la psilocibina. La sua sfiducia non è tanto nei confronti delle sostanze, anche se va fatto un importante distinguo. Scrive: “L’idea è questa: l’esketamina, molecola di pura sintesi – a differenza dell’LSD che pur deriva da un fungo, o dell’MDMA che si ricava dal poderoso albero del sassofrasso –, è solo artificiale; non c’è in natura, dunque non è buona. Non può avere la saggezza, la clemenza di una pianta. È un trucco, un trick, una trappola. Non è un caso che sia questa la molecola che ha aperto la nuova stagione delle terapie psichedeliche”. Le sostanze di origine naturale, infatti, nella fase iniziale del loro utilizzo in psichiatria avevano dato ottimi risultati, prima di essere irrimediabilmente marchiate a fuoco nell’immaginario collettivo come droghe dei frikkettoni e degli sballoni. La sfiducia dell’autore è dettata piuttosto dall’incapacità dell’attuale pratica psichiatrica di utilizzare queste sostanze con procedure safe e adatte (nel giusto setting): tra quattro squallide pareti di un qualche ambulatorio psichiatrico, circondati da rumori e odori d’ospedale e senza la guida di una persona esperta di queste sostanze e degli effetti che provocano, l’esperienza non può che trasformarsi in un bad trip.
Il rischio, già evidente, è per Cipriano quello che il capitalismo, fiutato l’affare, sussuma gli psichedelici svuotandoli del loro contenuto “eversivo”, di facilitatori dell’apertura della coscienza, rendendoli elementi di consumo e controllo alla stregua degli altri farmaci. Non solo. Come l’autore fa giustamente notare, si tratta di sostanze che si prestano perfettamente a un uso cosmetico, performativo: oggi, il microdosing di sostanze psicotrope è pratica diffusa nella Silicon Valley, tra geni e creativi, ricchi forgiatori del nostro mondo capitalista. Anche queste sostanze, dunque, rischiano di diventare privilegio d’élite molto più che strumento di cura: inscatolate e vendute a caro prezzo per i ricchi in cerca di ispirazione, euforia “disfelice”, stimolo a continuare la corsa nella ruota della produttività. Poca differenza, dunque, con le sentenze pronunciate a fine Ottocento da Emil Kraepelin e, negli anni Venti del secolo scorso, da Sigmund Freud, che con il loro lavoro hanno tracciato una linea di separazione a oggi ancora invalicabile tra i nevrotici (borghesi paganti), “salvabili” attraverso la psicanalisi, e psicotici, decretati persi in partenza.
L’autore non si limita, tuttavia, a una spietata pars destruens, ma mette in campo proposte costruttive articolate, sia organizzative, sia di senso. Tra queste, l’eliminazione degli SPDC (luoghi a lui ben noti, dal momento che vi ha esercitato la sua professione di psichiatra per quasi un ventennio), che, allo stato attuale altro non sono che piccoli manicomi annessi agli ospedali. Un’altra idea è quella di fare dei Centri di salute mentale (CSM) degli spazi in continuo dialogo con i territori, aperti 24 ore al giorno, cosicché le persone possano essere curate in prossimità dei luoghi della loro esistenza quotidiana. CSM che, ovviamente, non potranno lavorare “come lavora la gran parte di quelli attuali: erogazione di farmaci e qualche psicoterapia. La terapia dovrà essere reinventata. Non più psicofarmaci per eliminare sintomi, ma terapie assistite con i vecchi-nuovi farmaci psiche-delici che nei prossimi anni stravolgeranno la cura, e che perciò dobbiamo imparare a conoscere. Sedute psicolitiche per velocizzare la psicoterapia, o sessioni psichedeliche una tantum per innescare cambiamenti radicali. Quello che già in alcuni CSM si fa con la tecnica lappone del dialogo aperto (Open Dialogue, basata su un approccio relazionale e non gerarchico alla cura, in particolare, delle psicosi acute) inaugurata, negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, dallo psichiatra finlandese Jaakko Seikkula insieme al suo team dell’ospedale di Keropudas, a Tornio, nella Lapponia occidentale, ma con l’ausilio di strumenti farmacologici che aprono la coscienza”. Infine, come se tutto questo non bastasse a far tremare l’establishment, Cipriano immagina come potrebbero essere delle vere Case della salute mentale: poste ai margini delle città, il più possibile immerse nella natura, composte di stanze e aree pensate per attività diverse (scrive l’autore assai giustamente: dove sta scritto che una persona in crisi psicotica debba starsene a letto, a costo di legarcela? La cura mentale passa anche dalla discussione, dal cucinare, dal camminare, dall’ascoltare musica, dal leggere, a seconda della personalità di ciascuno, in solitudine o in gruppo, o entrambe le cose), dove si utilizzino cure naturali che aprono le coscienze e non farmaci sintetici che le chiudono. Allo stesso modo, ai cosiddetti sani di mente, che si barcamenano tra depressione più o meno indotta, ansia, ossessioni, ADHD, burnout che tuttavia non impediscono loro di interpretare la propria parte di produttori-consumatori nella società, Cipriano consiglia di guardarsi dalle cure suggerite dal realismo capitalista. Non più (solo) sertralina, stabilizzatori dell’umore, benzodiazepine che creano dipendenza e, alla sospensione, scatenano loro stesse le crisi e vanno dunque assunti spesso per tutta la vita. Anche per i cosiddetti sani queste vecchie-nuove terapie psichedeliche, a suo avviso, possono rivelarsi assai utili. A patto di essere pronti a fare un passo oltre, cioè ad abbandonare il realismo capitalista e accettare di guardare dritto in faccia il nostro bisogno di trascendenza.
… un essere umano non ha solo bisogni legati alla sopravvivenza, ovvero materiali, ma ha anche, soprattutto, bisogno di risposte alle domande meta- fisiche che attanagliano, a vari livelli di intensità, ciascuno di noi: «Chi sono?»; «Perché vivo?»; «Perché devo morire?»; «Cos’è il tempo?» e così via. È il bisogno di trascendenza che ci rende umani. E sono queste domande senza risposta che mandano al manicomio alcuni di noi. Alcuni esseri umani si inceppano proprio rispetto a queste domande. Si inabissano, come un tuffatore che cerca la perla, e non ritornano.
Non solo avere il coraggio di affrontare queste domande, dunque, ma trovare qualcuno, esperto, in grado di guidarci nel viaggio. È questo che la cura mentale, e dunque la psichiatria, dovrebbe imparare a fare secondo Cipriano, tanto per i malati quanto per i cosiddetti sani. Guidare le persone all’espansione della propria coscienza, per rispondere alle proprie domande esistenziali.
Se è vero che, per lo meno secondo il parere di chi scrive, il disagio psichico è connaturato all’essere umano e non è forse, di per sé, un prodotto delle società in cui egli vive, è tuttavia vero che “Ogni epoca ha la sua malattia mentale mitica. Nel Seicento è l’ipocondria (colpa di Cartesio, che riduce il corpo a organi separati dall’anima); nell’Ottocento, epoca vittoriana di repressione sessuale, è l’isteria; il Novecento è stato l’epoca della schizofrenia e, fino agli anni Cinquanta del secolo passato, è stata quest’ultima a giustificare l’esistenza della psichiatria”. Oggi, il sistema capitalista sta producendo una mole sconfinata di infelici e sofferenti cronici, di depressi in tutte le variazioni che questa diagnosi comprende. A fronte di una società performativa a livelli inauditi, lo stesso riconoscimento della performance, ovvero il patto fondante della società capitalista, sta diventando, sia a livello economico che sociale, merce sempre più rara. A fronte di un’individualismo patologico che ci rende estremamente soli, tutte le reti di protezione sociale (ma anche religiosa e ideologica) sono state spazzate via. La psichiatria farmacologica, pur nelle sue aberrazioni, va incontro quindi a un’esigenza molto solida e reale: la gente non vuole soffrire. Dove c’è domanda (seppur indotta), lì c’è offerta. E la sofferenza psichica, per chi l’ha provata, è una forma di dolore che può divenire insopportabile, imparagonabile anche ai peggiori disturbi fisici.
Ci piace chiudere la recensione di questo libro, di cui consigliamo la lettura, con una citazione dello psichiatra critico (per usare un eufemismo) Luigi Anepeta, che ci sembra cogliere il cuore della “questione psichiatrica”:
… il disagio psichico esprime un conflitto interiore e il tentativo di trovare un nuovo equilibrio. I sintomi sono messaggi che il mondo interiore invia al di fuori.
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