“L’economia è politica” ovvero contro il totalitarismo capitalista

Negli ultimi anni abbiamo recensito diversi libri illuminanti sulla pervasività del sistema neoliberista nelle nostre società. Solo per citarne alcune, quelle di Le grandi dimissioni, Realismo capitalista e Dominio.
Oggi torniamo sul tema recensendo L’economia è politica dell’economista Clara Mattei pubblicato da Fuoriscena a fine 2023.

Il primo, fondamentale, punto che emerge dal testo (e che bisognerebbe imparare a memoria) è che, a differenza di quello che cercano di farci credere, il capitalismo non è naturale, ma un sistema tra i tanti possibili.
E qui si fa un salutare ripasso di teoria marxista (sempre attuale), che situa l’inizio del sistema economico capitalista nella privatizzazione delle terre comuni nell’Inghilterra di fine XV secolo. Un atto di violenza e prepotenza “legittimo” solo perché chi lo ha perpetrato aveva dalla sua forza e ricchezza. Questo processo, a differenza di quel che comunemente si pensa, portò al peggioramento della qualità della vita delle fasce popolari rispetto al Medioevo: ricchezza per pochi, miseria per molti insomma. La politica, allora come oggi, non fu ovviamente neutrale, ma parte in causa ben schierata, andando sempre e comunque verso i desideri delle élite.

E qui si svela l’indicibile: lo scopo dello Stato, in fin dei conti, oggi come allora è quello di garantire i diritti di proprietà e i rapporti salariali. Guai a metterli in dubbio! Le fondamenta del nostro sistema non devono assolutamente essere messe in discussione, sono piuttosto un dogma, un atto di fede. Chi osa metterle in discussione viene travolto da un fuoco di sbarramento a reti unificate, vedi la feroce campagna contro una misura minima e non risolutiva come il reddito di cittadinanza

Nelle società liberali dell’Occidente, alla libertà politica e di diritti (per ora…) di cui tanto ci si vanta non corrisponde la libertà dal bisogno economico. L’espropriazione dei mezzi di sussistenza è uno dei must del capitalismo: ne sono un chiaro esempio la vendita delle terre pubbliche alle multinazionali in India, la privatizzazione dell’acqua o la dipendenza dalle sementi delle multinazionali. La questione di classe è il grande rimosso dell’attuale fase storica, che si accompagna con la litania ormai decadente della cosiddetta classe media. Ma basta domandarsi da dove arrivano i soldi che si hanno per vivere per smontare questa narrazione. Vengono dal lavoro o dalla rendita?

Un’altra delle tendenze che va per la maggiore, in questa sciagurata fase storica, è quella di porre sullo stesso piano i datori di lavoro e i lavoratori nella relazione di mercato, come fossero soggetti paritari. È un’idea totalmente falsa, chiunque abbia lavorato “sotto padrone” ne è cosciente. Nelle guerre di concorrenza all’interno della giungla del mercato è fondamentale aumentare il più possibile il tasso di sfruttamento, e da questa consapevolezza derivano:
– l’assalto ai sindacati;
– l’abbassamento al costo del lavoro;
– il dilagare voluto di precarietà, flessibilità e atomizzazione;
– il mantra dell’aumento della produttività.
Spesso, poi, i detentori del capitale preferiscono tenere il denaro in banca o nella speculazione finanziaria o immobiliare piuttosto che investire in innovazione, che ritenuta un processo troppo rischioso.

Nella nostra società il problema della disoccupazione è, in realtà, per i detentori delle leve del comando, un falso problema. La piena occupazione, infatti, non è auspicabile dal sistema poiché il licenziamento perderebbe credibilità come misura intimidatoria repressiva e disciplinare. Un esempio lampante che ha messo in chiaro la grande ipocrisia relativa alla disoccupazione è il caso degli Stati Uniti nella fase successiva alla grande pandemia. Nel post-Covid la disoccupazione ha raggiunto livelli bassissimi. La conseguenza immediata è stata che i salari sono aumentati in modo consistente. Ciò ha messo in allarme l’establishment di potere americano che, con dichiarazioni molto esplicite e sfacciate, ha affermato senza mezzi termini che l’alta occupazione stava diventando un problema per il mantenimento dei tassi di profitto.

Gli economisti, in grande maggioranza, hanno puntellato e puntellano i dogmi di fede del liberismo. L’austerità, termine che abbiamo ripreso a conoscere dopo la crisi del 2008, viene in realtà da lontano e si divide, come pratica economica, in tre aree di intervento:
– austerità fiscale che consiste nel taglio delle spese sociali e nella tassazione regressiva;
– austerità monetaria ovvero l’aumento dei tassi di interesse;
– austerità industriale intesa come privatizzazioni e guerra al sindacato.

Tale pratica non ottiene mai i risultati che si prefigge in teoria (almeno quelli dichiarati pubblicamente), ma ottiene sempre e inevitabilmente quelli di rafforzare il capitale. È stata la Prima Guerra Mondiale, con l’intervento massiccio e “inaudito” degli stati in economia pur di garantirsi la vittoria militare, a destabilizzare le basi su cui il capitalismo si era basato ed era prosperato fino ad allora, ovvero il totale laissez-faire . Tra il 1918 e il 1920 i lavoratori che avevano compreso come le “leggi” del mercato non fossero immutabili e naturali furono forti e misero in campo battaglie e sperimentazioni radicali, sulle quali è caduto un pesante e sostanziale oblio.
Dall’altro lato della barricata, tra il 1920 e il 1922 con le Conferenze internazionali di Bruxelles e Genova veniva lanciata la restaurazione capitalista, con l’elaborazione di un’austerità ante litteram il cui motto era, non a caso, “lavorare di più, consumare di meno”.
Non è un caso nemmeno che nei primi anni del Governo Mussolini, ovvero quelli della costruzione del regime, un ruolo fondamentale di fiancheggiamento e sostegno lo abbiano giocato quattro figure tecniche: Maffeo Pantaleoni, Alberto de’ Stefani, Umberto Ricci e il “padre della patria” Luigi Einaudi. Questi ultimi due liberali, tanto per capire cosa sono stati e  sono i liberali nel nostro Paese. L’establishment internazionale liberale portò per un lungo tempo Mussolini in palmo di mano. Il governo fascista mise infatti in campo le tre forme di austerità di cui parlavamo. Misure simili furono applicate anche nel mondo liberale anglosassone di USA e Gran Bretagna. Scenari analoghi hanno poi continuato a ripetersi nei vari decenni, come per esempio negli anni Trenta, a fine anni Settanta o dopo il 2008. Siamo vittime, dunque, di una narrazione dogmatica sul vivere nel migliore e nell’unico dei mondi possibili, con capri espiatori di turno cui dare la colpa delle cose che non vanno; dall’alto si dispiegano, una dopo l’altra, campagne tese a scatenare la guerra tra poveri.

Clara Mattei conclude il suo libro con una tesi forte: capitalismo e democrazia non sono compatibili. Se si scava un po’ a fondo, è facile rendersi conto che sui fondamentali i partiti anche acerrimamente nemici sono d’accordo: la libera concorrenza è un dogma indiscutibile. Ugualmente, lo spirito di molti economisti è antidemocratico: bisogna impedire che i popoli, come di tanto in tanto fanno, votino chi vuole attenuare l’austerità.
Quando si straparla di “interesse generale” si parla sempre dell’interesse dei potentati economici cui la maggioranza si deve inchinare: ne seguono governi tecnici e austerità il cui must è ridurre la rappresentanza politica proporzionale e i vincoli di bilancio nelle leggi fondamentali degli Stati. I popoli occidentali percepiscono istintivamente quanto il voto sia diventato sostanzialmente inutile e, infatti, l’astensionismo sale.

Ormai dovremmo aver capito che nel capitalismo il fine ultimo non è il bene comune, ma soddisfare le rendite e i profitti dei pochi. Ciò che è razionale secondo la logica dei bisogni umani è invece del tutto irrazionale secondo la logica dei profitti. Il mantra sull’impossibilità di un processo rivoluzionario in virtù dei fallimenti del passato è uno strumento ideologico usato come clava da parte del potere dominante. MA ribadiamolo: il futuro non deve ripetersi necessariamente sempre uguale al passato. Per Mattei, in un mondo dove qualsiasi aspetto del vivere sociale tende a essere messo a profitto, il primo passo per mettere in discussione equilibri che sembrano immutabili è liberarsi, psicologicamente ancora prima che politicamente, dalla centralità asfissiante della sfera economica: il totalitarismo capitalista.

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