Le parole che non ci sono. Un contributo dalla Palestina (Meri Calvelli)
La situazione di disastro infinita che vive la Palestina, non è nuova a nessuno, ma nessuno può immaginare quanto sia pesante la quotidianità in questi territori, e soprattutto nella testa della gente che ogni giorno vive l’umiliazione di un paese occupato e diviso. L’attenzione internazionale purtroppo, arriva solo quando la pazienza e la sopportazione esplodono in “atti di violenza” chiamati “atti di terrorismo”, che le nuove e le vecchie generazioni intraprendono non riuscendo a farsi sentire in altri modi. La rabbia esplode e le risposte diventano micidiali.
I media riportano le notizie provenienti dai Territori Occupati e dalla Striscia di Gaza (anch’essa occupata e prigioniera), solo quando tutto quanto scoppia intorno; quando anche nel resto del Medio Oriente la situazione si fa dura e pesa e le risposte diventano particolarmente armate con bombardamenti e omicidi.
Per chi vive in queste zone ogni fatto sembra uguale, le atmosfere di rivolta ricordano le precedenti Intifade, gli avvenimenti si trasformano in azioni militari già viste. I pretesti sono sempre legati a “tentativi” di uccisione dei coloni (attori principali della violenza e della provocazione) e le risposte sono sempre le stesse: dura repressione e chiusura degli spazi di movimento e di espressione, fino ad arrivare ai bombardamenti sulle città e la popolazione.
Anche in questo caso, gli incidenti maggiori sono scoppiati dopo l’uccisione di un ufficiale dell’intelligence israeliana e sua moglie nei pressi di Nablus (la famigerata colonia di Itamar) ma quello che si omette è che già da tempo da questa colonia illegale, costruita su terra rubata ai Palestinesi, dove risiedono circa 1.000 persone, sono partiti molti attacchi verso i Palestinesi che transitano nelle strade sottostanti. Case bruciate, ulivi sradicati, attacchi ai pedoni, sono solo alcuni dei fatti che accadono quotidianamente; di questo nessun TG e media internazionale ne parlerà. Queste colonie, hanno invaso ormai completamente il territorio palestinese, al punto che non sarà più possibile pensare ad un territorio autonomo gestito da uno Stato palestinese, nonostante i tanti accordi e risoluzioni, ma questo non importa a nessuno.
A distanza di 15 anni dallo scoppio della Seconda Intifada (2000-2005), che vide la fine degli Accordi di Oslo, le analisi di fallimento della stessa intifada si sono susseguite senza sosta; grande responsabilità è stata attribuita, oltre alla ben nota feroce occupazione militare israeliana, anche alla politica dell’ANP che di fatto ha contribuito allo smantellamento sistematico della struttura di resistenza dei Palestinesi stessi.
Per capire lo scoppio dell’ennesima rivolta, è necessario capire quali sono i sentimenti di tutta quella nuova generazione che in questi anni è rimasta rinchiusa dentro i muri di “sicurezza” costruiti da Israele; sebbene la società civile palestinese abbia cercato di utilizzare metodi di lotta differenti dalle precedenti rivolte le proposte di trattativa e di soluzione pacifica a questa eterna occupazione, si sono rivelato comunque inadeguate e soprattutto inascoltate. I mezzi utilizzati in questa ultima rivolta non sono le armi (come fu per la Seconda Intifada), ma sono i corpi delle persone che escono dirompenti e determinanti per affrontare questa situazione. Le risposte però sono sempre le stesse.
Il presidente dell’Autorità Palestinese – Abu Mazen – ha parlato alle Nazioni Unite il 30 Settembre scorso, dichiarando che Israele deve prendersi tutte le sue responsabilità come potenza occupante ma di fatto è rimasto vincolato agli accordi ed in particolare al coordinamento tra le forze di sicurezza (israeliane e palestinesi).
Vuole una “Intifada” di bassa scala, che non paralizzi la vita sociale, e poi???…..
La mobilitazione in Cisgiordania, allargatasi anche a Gaza (dove la situazione è completamente singolare e diversa), in questi ultimi giorni, è comunque di dimensioni enormi. Continuano ad aumentare i morti e i feriti da una parte e dall’altra; agguati e vere e proprie esecuzioni sommarie (30 uccisi e oltre 1300 feriti gravemente tra i Palestinesi; 2 morti e 68 feriti tra gli Israeliani). Il triste bilancio è destinato a crescere e la rivolta non sembra placarsi. Mantenere
l’occupazione e i coloni, significa continuare ad avere uno stato di insicurezza e di tensione per tutti; non prendere posizione a livello internazionale, con dure sanzioni nei confronti di Israele, significa accettare crimini e legittimare future escalation di violenza (vedi la “guerra” della scorsa estate a Gaza).
I Palestinesi attivisti per i diritti umani, alcune fazioni ancora esistenti nella Palestina occupata, chiamano ad una necessaria riconciliazione e unità tra i Palestinesi, prerogativa importante per arrivare ad un punto fermo, “un comando unificato” che sappia proporsi al mondo, che per il momento rimane solo in tiepido e parziale ascolto degli ennesimi tragici fatti, senza pronunciarsi.
Meri Calvelli (Centro Italiano di Scambio Culturale Gaza – VIK)
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