Dont’ look Up – Una recensione corale
Tra fine 2020 e inizio 2021 si è parlato tantissimo di Dont’ look Up, il film di Adam McKay con un cast stellare e che proprio oggi viene definito, a pochi giorni dalla sua uscita, il terzo film più visto di sempre su Netflix.
La pellicola, a sfondo apocalittico, parla dell’imminente impatto tra un asteroide e il nostro pianeta e della reazione dei diversi attori che caratterizzano la nostra società in questo nuovo millennio.
L’opera ha fatto discutere e ha avuto recensioni discordanti.
Noi abbiamo pensato di non fare la consueta recensione “a blocco”, ma di mettere insieme i pareri della redazione e non solo.
Ecco il risultato!
B. – Don’t look Up con toni realistici e surreali ci racconta il mondo attuale, vissuto attraverso il filtro dei social, un mondo in cui si preferisce dubitare, essere scettici piuttosto che affidarsi alla scienza, un mondo di complottisti e negazionisti.
La voce della scienza non viene dunque ascoltata, non viene presa seriamente, c’è sempre qualcosa di più importante da trattare, da monetizzare.
Il film é sostanzialmente un’analisi della società contemporanea persa forse troppo tra la frenesia dei consumi e il “progresso tecnologico”, una società che non è più in grado di alzare gli occhi e rendersi conto della sua stessa condizione.
Il regista, con un approccio satirico e talvolta paradossale, mette alla berlina non solo la classe politica e quella dell’informazione, ma anche quella dei comuni cittadini non più collettività pensante ma ormai meri e singoli burattini in mano ai giochi del potere.
D.S. – Cosa ho apprezzato di Don’t look Up? La semplicità e la chiarezza con cui servendosi della metafora del meteorite descrivono alcuni dei drammi che viviamo oggi. La metafora del meteorite è perfetta per descrivere non solo la crisi climatica che sicuramente rappresenta una delle più grandi minacce dell’epoca che stiamo vivendo, ma anche il modo in cui in generale nella società di oggi affrontiamo qualsiasi tematica di rilievo. Da qui però è giusto aprire un ulteriore punto: cosa rende una opinione degna di essere presa in considerazione? Quali temi che viviamo oggi possono essere paragonati al “Dont look Up” del film? Come valutiamo un’idea così stupida e insensata da non aver diritto di rientrare nella sfera del “balance” con cui i mezzi di informazione costruiscono le notizie? Tra negazionisti climatici, complottisti del Covid e retorica dell’invasione, viene semplice puntare il dito su coloro che nel film fanno la parte degli idioti. Ma è davvero questo il punto o forse dovremmo interrogarci sulle storture strutturali che da anni hanno deformato sempre di più il modo in cui vengono creati movimenti d’opinione e viene gestito il dibattito pubblico? Forse più che accanirsi contro i soliti idioti, la pellicola ci offre uno spunto di riflessione su tutto ciò che riguarda la sfera pubblica, il modo in cui si costruisce consenso politico, una democrazia che de facto è asservita al ruolo di pubbliche relazioni per lobby e detentori di grandi capitali.
D.V. – Chissà cosa avrebbe detto Mark Fisher di questo film.. d’altronde la sua passione per la cultura pop è nota, in K-punk troviamo analizzate centinaia di film, serie tv, canzoni e altri fenomeni mainstream che hanno contribuito a segnare la contemporaneità o ne sono in qualche modo espressione.
Da ciò il nesso che automatico mi è affiorato alla mente guardando Don’t look Up, film quanto mai attuale e lapalissiano nel proprio monito.
Anche in Realismo Capitalista vengono citati dei film basati su distopie catastrofiste come I figli degli uomini diretto da Alfonso Cuarón, che mostra l’inscenarsi di un edonismo nichilista esemplificabile nella frase di un personaggio: “Io cerco semplicemente di non pensarci…”.
Un altro passo di Fisher qui riproponibile alla lettera mostra la sua capacità di anticipare tendenze culturali: “Un tempo le distopie (letterarie e cinematografiche) erano veri e propri ‘esercizi’, in cui veniva allenata proprio la facoltà dell’immaginazione: i disastri che esse mettevano in scena fungevano da pretesto narrativo per concepire differenti modalità dell’esistenza. Tutt’altro avviene […]. Il mondo delineato in questa distopia sembra infatti più un’estrapolazione, esacerbata, del nostro mondo presente che un’alternativa ad esso”. Colpisce la spettacolarizzazione del dramma costantemente messa in atto dai personaggi dello spettacolo, coerente con il degrado culturale che caratterizza il nostro presente. Ancora parafrasando Fisher, il film “è segnato dal timore e dal sospetto che la fine sia già avvenuta. […] forse che, nel futuro, non vi sarà più spazio per cambi di rotta, […] Ansie simili si risolvono in un’oscillazione bipolare: la ‘debole speranza
messianica’ che qualcosa di nuovo debba necessariamente arrivare scivola nella cupa convinzione che nulla di nuovo possa mai accadere” in questo c’è il ruolo della tecnologia, al servizio dei ricchi ma abbaglio per i più e la dinamica dei media continuamente in rincorsa verso la ‘prossima eclatante novità’.
Infatti proprio il passaggio alla ‘spettatorialità’ è ritenuta una caratteristica del realismo capitalista.
Questo film conferma la sensazione diffusa che “è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo” (Frederic Jameson, Slavoj Žižek) infatti piuttosto che proporre un’alternativa all’attuale gestione economica-sociale risulta più naturale la catastrofe. Eppure ormai potremmo concepire la catastrofe nel capitalismo stesso, infatti il paragone tra il meteorite e il cambiamento climatico risulta inadeguato per due ragioni, il secondo non è visibile a tutti ed è stato causato direttamente dall’attività antropica. Deleuze e Guattari “descrivono il Capitale come ‘la Cosa innominabile’ contro cui si facevano scudo, in maniera preventiva, le società primitive e feudali. […] il capitalismo porta con sé una profonda desacralizzazione della cultura. […] smantella tutti i codici all’occorrenza. I limiti del capitalismo non sono stabiliti dai decreti, ma definiti (e ridefiniti) pragmaticamente e secondo lo spirito dell’improvvisazione”. Queste frasi descrivono bene il ceto politico evideziato nel film, calcolatore e senza etica.
In una presunta era post-ideologica come la nostra il cinismo risulta il modo per leggere con distacco la realtà, ma proprio questo presunto realismo è la trappola che trasforma l’individualismo da nido protettivo a gabbia mortale. In Don’t look up anche quando il disastro è ormai alle porte la gente non è in grado di leggere gli avvenimenti, strattonata tra le mistificazioni di chi vuole preservare l’ordine esistente fino alla fine, tentando goffamente di controllare e sfruttare la natura a proprio vantaggio e negando ciò che appare come la conseguenza di un modello sociale distruttivo, o una metafora del sistema stesso, alla fine inevitabilmente evidente a tutti per quello che è.
Citando Karl Marx nel Manifesto del Partito Comunista: “La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate”.
J. – A me è piaciuto, lontanissimo dal capolavoro descritto dal socialdemocratico x, ma comunque carino. Diciamo che il j’accuse è rivolto verso tante cose diverse (politica, media, multinazionali tecnologiche) ma senza andare nello specifico su niente. Lo scazzo di Di Caprio in studio mi è sembrata una strizzatina d’occhio sbiadita a Quinto Potere di Lumet. Nel complesso è un altro step di mainstreamizzazione di tematiche sociali che ha caratterizzato la wave ecologista di questi anni, fenomeno che ancora non so valutare se più positivo o negativo.
Tematica più interessante, anche se forse passa un po’ sottotraccia: la scienza non è neutra, tantomeno oggettiva, quello che ci arriva passa sempre da influenze politiche ed economiche, travestite da “La scienza” per avere quel barlume di credibilità che altrimenti non avrebbero.
S. – Credo non sia un film sul cambiamento climatico, ma sull’essere umano (occidentale), e nello specifico su come comunichiamo, come ci “informiamo”, sui nostri valori, in definitiva su cosa siamo diventati. Mi è sembrato da una parte un film antropocentrico per essenza, ma al contempo profondamente anti-antropocentrico nel mostrarci come in definitiva tutti gli esseri viventi del pianeta sono soggetti alle stesse dinamiche ambientali. Da una parte la cometa non è come il cambiamento climatico (da noi causato o più probabilmente solo molto accelerato), è un evento che non ha nulla a che fare con noi e la sua potenza distruttiva spazzerà via la vita in tutte le sue forme. Dall’altra parte l’essere umano è mostrato come unico essere vivente a poter – forse, perché non ne siamo sicuri – intervenire per deviare la traiettoria della cometa, ma “sceglie”, o meglio lo fa l’élite mondiale qui identificata con gli USA, di non farlo in nome di interessi futili al confronto con l’estinzione dell’intero pianeta (mania di potenza?).
T. – Il primo elemento che mi sembra emergere con potenza è che, a differenza di molti altri film che parlano di catastrofi apocalittiche che minacciano il genere umano, in questo manca completamente lo slancio unificante che di fronte al rischio di estinzione imminente faccia mettere per un attimo da parte le mille divergenze che contraddistinguono il vivere quotidiano compattando tutti verso una sfida superiore. Anzi, qui appare proprio tutto il contrario! Come la pandemia ha ben dimostrato le divisioni e l’odio/rancore reciproci impazzano. Il secondo tema che emerge è la totale inadeguatezza della classe dirigente occidentale nel gestire un’emergenza che vada al di là del qui ed ora dettato da sondaggi, social, interessi economici e vivere alla giornata (e anche qui il Covid ha dato ampia dimostrazione dell’assunto). Citando una delle protagoniste del film: “Non sono abbastanza intelligenti per essere cattivi” dice riferendosi alla leadership americana. Il terzo tema è che il nemico non è tanto la cometa che, silenziosa e indifferente viaggia veloce verso la Terra (anzi, di fronte alla pochezza di tanti umani che emerge dalla pellicola qualcuno potrebbe essere tentato di simpatizzare per il corpo celeste!), ma il megamiliardario-santone-guru-magnate di turno dell’industria tecnologica che, mascherando la sua rapacità con falso umanitarismo porterà all’evitabile disastro. Il quarto tema è come l’agire collettivo (anche questo caricaturizzato in alcuni suoi tratti caratteristici) di tutti e tutte coloro che si mobilitano contro l’ottusità della classe dirigente, la cecità dei media e la rapacità dei grandi interessi economici nell’impedire la catastrofe non riesca ad avere un happy ending. In conclusione, parlando del finale, forse sarebbe stato necessario terminare in modo amarissimo e da groppo in gola con l’impatto della cometa sul pianeta senza le due ulteriori scene finali che la buttano di nuovo in caciara rivirando sulla commedia grottesca.
V. – Allora io non ho un’analisi così accurata.
Quello che mi ha trasmesso nell’immediato, ma anche in un secondo momento è un parallelismo con la situazione pandemica, non tanto in relazione al tema, ma in termini di reazioni, giochi di potere, incapacità di gestire, o meglio, non volontà di gestire nell’interesse del bene collettivo.
La scienza è uno strumento ad uso e consumo dei più svariati interessi, ma mai presa in considerazione realmente né viene posta in dubbio allo scopo di sostenere il bene collettivo.
In pratica, quando mina il potere della classe dirigente, non viene presa in considerazione.
A questo si collega il valore della vita, spesso osannato nell’Occidente come uno dei più alti principi, ma biecamente sottoposto al potere economico e partitico.
Altro elemento che emerge è l’appiattimento socio-culturale che porta ad essere nelle mani di una Maryl Streep, una donna alla Trump o alla Johnson, perfetta nell’immagine, impeccabile nell’edulcorare, per niente stupida, manipolatrice.
L’emblema dell’unica figura che può governare un popolo instupidito.
Il trash qui non è espediente ma è fedele rappresentazione della realtà che viviamo: grottesca, trash, imbarazzante.
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