Pulizia etnica, sete e «kill zone». Così funziona il genocidio di Gaza
I soldati israeliani la chiamano «kill zone» o «line of the dead bodies» e si estende fin dove l’occhio del cecchino può arrivare. Non ha confini precisi, la zona dei corpi morti ha frontiere immaginarie. Si trova all’altezza del corridoio Netzarim, una fascia di sette chilometri con cui Israele – da ben prima del 7 ottobre 2023 – spacca Gaza in due parti.
E’ qui, in questo spazio dove non vige alcuna legge né politica né morale, che le unità dell’esercito israeliano giocano il loro tetro torneo della morte: vince chi ammazza più palestinesi possibile. La storia la racconta Haaretz, il quotidiano israeliano da poco sanzionato dal suo stesso governo, dopo aver raccolto le voci di soldati, riservisti e ufficiali di ritorno da Gaza: in quella kill zone sono autorizzati a sparare a chiunque, senza ulteriori via libera.
Così sono stati uccisi centinaia di palestinesi, compresi bambini, e i loro corpi abbandonati. «Dopo gli spari, i cadaveri non vengono recuperati e attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare».
Alcuni corpi vengono seppelliti ed «etichettati» come terroristi. «Il comandante diceva: chiunque passa la linea è un terrorista, non ci sono civili». Nemmeno il ragazzino crivellato di colpi tra le risate dei militari: «Parlo di decine di pallottole. Per un minuto o due, abbiamo continuato a sparare al corpo. Intorno a me sparavano e ridevano. Ci siamo avvicinati al cadavere coperto di sangue e lo abbiamo fotografato. Era solo un ragazzo, forse 16 anni».
Un altro soldato racconta di quattro persone, camminavano disarmate. «Centinaia di colpi», dice, tre sono morti subito. Il sopravvissuto è stato messo in «una gabbia, spogliato e lasciato là. I soldati passavano a sputargli». I corpi degli altri tre sono stati lasciati a terra per qualche giorno, poi un bulldozer li ha ricoperti di sabbia: «Non so se qualcuno ricorda dove».
La sera, a «turno» finito si raccolgono i complimenti degli ufficiali. «Gli annunci del portavoce dell’esercito sui numeri degli uccisi – racconta un soldato – sono diventati una competizione tra unità. Se la Divisione 99 ne uccide 150, la prossima unità punta a 200».
I cadaveri attirano branchi di cani che vengono a mangiarli. A Gaza la gente sa che dovunque veda dei cani è meglio non andare (un testimone ad Haaretz)
L’esercito – le alte sfere – ha dato carta bianca agli ufficiali sul campo. Quella carta bianca è l’altra faccia della medaglia delle dichiarazioni di rappresentanti del governo israeliano e delle forze armate che, a poche ore dal 7 ottobre 2023, hanno espresso senza ambiguità l’intento genocidiario della campagna militare Spada di Ferro.
È tale intento ad aver permesso alla Corte internazionale di Giustizia lo scorso gennaio di accogliere il caso presentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della Convenzione sul genocidio del 1948 e, un paio di settimane fa, ad Amnesty di presentare un ampio rapporto in merito.
A quella mole di lavoro si è aggiunto il rapporto di Human Rights Watch, quasi 200 pagine costruite intorno a interviste, immagini satellitari, video, foto, testimonianze di agenzie Onu ed esperti e raccolta delle dichiarazioni pubbliche israeliane: l’organizzazione per i diritti umani accusa Israele di genocidio e sterminio, focalizzandosi su un aspetto dell’offensiva militare in corso da 14 mesi, ovvero la deliberata privazione dei palestinesi dell’accesso all’acqua.
Attraverso la sete, scrive Hrw, Israele infligge condizioni di vita deliberatamente volte alla distruzione della popolazione. «Non è negligenza: è una politica calcolata che ha già provocato migliaia di morti per disidratazione e malattie, niente di meno del crimine di sterminio e un atto di genocidio».
Prima di tutto i numeri. Lo standard minimo indicato dall’Organizzazione mondiale della Sanità è pari a 100 litri di acqua al giorno per persona; in Israele i cittadini hanno accesso a una media di 247 litri, a Gaza prima del 7 ottobre a 83. Oggi, a seconda delle zone e dei periodi, si va da un minimo di due a un massimo di nove litri d’acqua al giorno per persona.
Una tale deprivazione – politica annunciata nei primi giorni di offensiva dal ministro della difesa Gallant – è stata realizzata attraverso il taglio dell’acqua corrente, la distruzione sistematica di pozzi, reti idriche e impianti di desalinizzazione e attraverso il blocco all’ingresso di acqua potabile dai valichi. Hrw aggiunge un elemento fondamentale: le migliaia di morti si aggiungono ai 45mila palestinesi uccisi dall’esercito israeliano con mezzi «diretti», ovvero raid e bombardamenti.
Le diverse pratiche, se messe insieme, conducono in una direzione: ripulire pezzi di Gaza dalla sua popolazione e costringere l’enclave a impiegare anni, se non decenni, a ricostruire se stessa, le reti comunitarie e la vita, mettendo da parte la necessaria spinta all’autodeterminazione.
È una pulizia etnica di ampio spettro, fisica e politica, riassunta ieri da Medici senza Frontiere: «La gente di Gaza combatte per sopravvivere a condizioni apocalittiche, ma nessun luogo è sicuro, nessun essere umano è risparmiato e non c’è via d’uscita dall’enclave in frantumi». L’apocalisse è destinata a durare, anche quando le bombe non cadranno più.
di Chiara Cruciati
dal Manifesto del 20 dicembre 2024
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