NoTav e repressione: i numeri che spiegano come lo stato ha provato a piegare la Val Susa

Riprendiamo qui di seguito un contributo a firma Alessandro Senaldi (Università degli Studi di Genova) pubblicato sul sito della rivista Studi sulla questione criminale. Lo studio di Senaldi ci pare particolarmente meritorio perché osa fare quello che dovrebbe essere stato il minimo sindacale da parte di giornalisti e accademici quando si parla di criminalizzazione del dissenso in Italia: mettere in fila i dati dei procedimenti giudiziari contro i NoTav.

Innanzitutto dalle cifre emerge l’utilizzo spropositato di testimonianze di appartenenti alle forze dell’ordine durante i processi. I poliziotti sono di fatto la sola figura su cui si sono basati fino ad ora i procedimenti contro i NoTav, smentendo palesemente la pretesa terzietà dell’azione penale. Altro elemento fondamentale è l’abuso da parte dei PM torinesi gli istituti del concorso di persone e delle aggravanti nel chiaro tentativo di scardinare il principio della presunzione d’innocenza e intimidire gli attivisti con un profluvio di misure cautelari dai sinistri intenti preventivi. Il testo ritorna anche sull’arbitrarietà delle sanzioni comminate dai tribunali di Torino in primo grado su spinta dei PM che sono nella quasi totalità riformate in secondo grado giudizio e smontate in toto quando arrivano in cassazione. Infine, lo studio mostra in maniera incontrovertibile la rapidità sospetta con cui sono stati portati avanti i processi con i NoTav, con la procura di Torino che li ha fatti avanzare 2,5 volte più rapidamente della media nazionale.

I numeri, insomma, dimostrano in maniera indiscutibile ciò che il movimento NoTav sostiene da anni e che si vuole continuare a far finta di non vedere: la natura profondamente parziale e dunque politica della procura di Torino nella repressione di chi in Val di Susa ha osato rimettere in questione il sistema clientelare-mafioso dietro le grandi opere inutili che costellano il nostro paese.


I dati dei processi contro i/le No Tav: un contributo al dibattito

di Alessandro Senaldi

Precisazioni sulla ricerca

Questo testo è stato immaginato come un contributo al dibattito – pubblico, professionale e accademico – che si sta sviluppando1 a seguito degli ultimi eventi giudiziari riguardanti la cultura giuridica locale torinese2. È mia intenzione, quindi, fornire – sotto forma di una nota di ricerca e senza l’inclusione di troppi elementi teorico-interpretativi – alcuni risultati emersi durante il lavoro svolto nel corso della mia esperienza dottorale3.

I dati di seguito presentati, sono stati elaborati attraverso lo studio della (quasi) totalità dei processi aventi come imputati e imputate militanti del movimento No Tav. Per la precisione, la ricerca riguarda i processi che, al termine dell’assunzione del materiale empirico (il 31 dicembre 2017), erano giunti (almeno) alla conclusione del primo grado di giudizio. Complessivamente, quindi, ho analizzato i materiali giudiziari prodotti in quasi 12 anni (4.061 giorni) – per un totale 7.301 documenti – e identificati 151 procedimenti iscritti (dal 2005 al 2016) al Registro Generale Notizie di Reato, di cui di 86 è stato possibile ricostruire in maniera completa la storia processuale.

La speranza è che, attraverso questa didascalica restituzione di elementi tecnico-giuridici, storici e statistico-descrittivi, sia possibile – osservando attraverso la lente focale della criminalizzazione secondaria4 della “questione criminale No Tav” – mettere in luce tendenze e specificità della cultura giuridica locale torinese.

Evoluzione dei processi contro attivisti e attiviste No Tav

Dal punto di vista temporale l’azione penale legata alla vicenda del TAV/TAC in Val di Susa comincia a strutturarsi nel 1998, con il processo contro gli anarchici Edoardo Massari, Maria Soledad Rosas (entrambi tragicamente morti suicidi in condizioni detentive) e Silvano Pellissero. Segue, fino al 2005, una sorta di pax giudiziaria, motivata anche da una certa inattività da parte della compagine promotrice dell’opera. Per un notevole incremento delle notizie di reato, si dovrà attendere il 2010, anno in cui si registra una brusca impennata degli RGNR iscritti. Tale impennata, se per alcuni versi appare naturale conseguenza della radicalità espressa dal movimento a fronte dei primi passi concreti mossi dalla compagine promotrice, può anche essere letta come l’effetto della nascita del “Gruppo Tav”, ovvero il pool di magistrati istituito, contestualmente alle prime operazioni di implementazione dell’opera, dal procuratore capo Caselli (il 13/1/10)5. A partire dal 2013, poi, il numero di iscrizioni discende nuovamente tornando ad una situazione di “normalità” nel 2016.

Sul punto occorre, inoltre, porre un’evidenza. Infatti, se è vero quanto riportato da LaRepubblica Torino (1/3/14) – cioè che secondo il Registro Informatico della Procura tra il 2010 e il 2014 sono state indagate più di mille persone (123 i fascicoli aperti tra il 2010 e il 2012 per un totale di 707 indagati, mentre, nel 2013 sono stati aperti 70 fascicoli con un totale di 280 indagati) – vi è un’importante una discrasia tra quanto riportato ai media dalla Procura di Torino e quanto emerso da questo studio. In quanto, dalla ricerca svolta, risultano essere – in un arco temporale maggiore – solamente 477 gli imputati. Questo, se non può mettere in dubbio la veridicità della notizia, sta quantomeno a significare che, a fronte di un’alta attività investigativa della procura, solo una parte minoritaria di questa si conclude con un addebito.

Imputat*: età, provenienza e selettività dell’organizzazione Procura-Polizia

Gli imputati sono di un’età compresa tra i 17 e gli 78 anni, il che dimostra una spiccata inter-generazionalità del movimento. Sul punto, l’aspetto più saliente riguarda il dato della popolazione “anziana”. Il numero di coloro che hanno più di 64 anni rappresenta il 6,7% del totale. Tale risultato è interessante, in quanto emerge come la percentuale degli attivisti ultrasessantenni imputati sia assai superiore rispetto a quella che si incontra nelle statistiche nazionali, le quali descrivono un’incidenza del numero di indagati over 64 solo del 2,5%. Inoltre, la percentuale di attivisti imputati sopra ai 45 anni è sostanzialmente costante (imputati fino ai 34 anni sono il 54,8%, mentre gli imputati con più di 35 anni sono il 45,2%.), indice di come la radicalità non sia un fenomeno esclusivamente giovanile. Cade, cioè, la narrazione dell’esistenza di “manifestanti buoni” e “manifestanti cattivi” che si poggia sulla coppia concettuale oppositiva buoni/cattivi=vecchi/giovani.

Per quanto riguarda la provenienza degli imputati, la maggioranza di questi (37,1%) è residente in uno dei comuni valsusini, in seconda posizione vi sono coloro che risiedono a Torino (27,9%), mentre, il terzo gruppo è quello che comprende gli imputati che risiedono fuori dal Piemonte (21,4%). Ancora, vi è poi pochissimo scarto tra gli imputati residenti in provincia di Torino e quelli residenti in regione, rispettivamente il 7,6% e il 5,9%, infine, tra gli imputati vi è un’unica presenza straniera. È possibile constatare la crisi del meccanismo di criminalizzazione che ascrive la conflittualità espressa unicamente ai “forestieri”, distinguendo tra coloro che vivono sul territorio conteso, che sarebbero legittimati alla protesta e quindi “buoni”, e coloro che non vivono sul territorio conteso, che sono “cattivi” in quanto accusati di “turismo da protesta”. Infatti, non solo il gruppo di imputati residenti in valle è il più consistente ma, in termini percentuali, gli imputati residenti fuori dal Piemonte sono solo un quinto del campione (il 21,4%).

Tentando, poi, di capire quali sono i soggetti di fatto interessati dai procedimenti giudiziari, al di là quindi del mero numero assoluto di imputati, emerge una selettività di polizia e procura. Tale affermazione è suffragata da due elementi: l’uno (per l’appunto) di natura numerica, l’altro di tipo qualitativo. Per quel che riguarda il primo elemento, se è vero che negli atti giudiziari analizzati vi sono 477 imputati, molti procedimenti hanno come protagonisti i medesimi soggetti, infatti, le persone realmente coinvolte sono 301. Mentre, dal punto di vista qualitativo, il meccanismo selettivo – esempio lampante di come si esprime nel caso di specie la criminalizzazione secondaria – è così spiegato dal capo della Digos torinese Petronzi durante il maxi processo: «[…] si è scelto di concentrare l’attenzione di carattere investigativo su quei soggetti potenzialmente identificabili […]. Quindi non ci si è concentrati su quelle altre figure […] ma si è concentrata l’attenzione su questi soggetti […] perché diciamo altresì che non si stava lavorando su una massa indistinta di soggetti arrivata da chissà dove, quindi si operava altresì su di una soggettività in buona parte anche nota, sia perché facente parte del variegato movimento No Tav, sia perché molti facenti parte di circuiti antagonisti, anche anarchici, nazionali e non solo nazionali».

I numeri degli altri attori coinvolti

I dati riferibili al numero degli attori coinvolti, evidenziano come, escludendo la triade di parti necessarie nel processo penale (giudice, PM e avvocati difensori), vi sia una netta sovra-rappresentazione degli agenti di pubblica sicurezza. Tale sovra-rappresentazione, inoltre, arriva ad assumere tratti ancora più imponenti se si scompone la seconda categoria di attori presi in considerazione – nel grafico “Testimoni-Gente Comune” – che comprende tutta una serie di soggetti che vanno dai “semplici” attivisti alle parti terze offese, da testimoni che con il movimento non c’entrano nulla a lavoratori addetti all’implementazione dell’opera o di sue parti, da giornalisti e professori universitari a personaggi famosi.

Viene qui introdotto un tema centrale della storia processuale analizzata: la figura delle FF.OO. e i loro ruoli. L’importanza di tale questione, tuttavia, non deriva solo dall’assai nutrito numero di agenti coinvolti, come testimoni, nei dibattimenti dei vari processi instaurati, quanto piuttosto da un’analisi ad ampio spettro dei materiali processuali raccolti. Attraverso questa operazione si comprende come le FF.OO. non solo siano presenti, in grande numero, in tutte le fasi processuali analizzate, ma anche “attore dai mille ruoli” in grado di recitare una parte fondamentale in ognuna di esse (sono cioè: gatekeeper del processo; dediti ad attività di controllo, prevenzione e repressione di quanto accade dentro e fuori dall’aula di tribunale; testimoni; parti offese; parti civili; periti; membri di enti collettivi di rappresentanza; incaricati del controllo e messa in sicurezza dell’aula e del palazzo di giustizia, nonché le scorte di magistrati ed altri soggetti istituzionali).

Tipologia di reati maggiormente contestati

Per quanto vi sia una grossa gamma di reati addebitati, i reati maggiormente contestati dalla procura sono quelli che derivano dal contatto diretto con le FF.OO.: art. 336 cp (Violenza o minaccia a pubblico ufficiale); art. 337 cp (Resistenza a pubblico ufficiale); art. 4 L. 110/75 (Porto di armi od oggetti atti ad offendere); art. 341bis cp (Oltraggio a pubblico ufficiale). Da tale constatazione emerge come i comportamenti politici collettivi costituenti reato prendano forma su di un rapporto di biunivocità stretta tra attivisti e polizia, de facto l’unico referente istituzionale che il governo centrale ha lasciato sul territorio. Conseguentemente a tale dato, vi è, tra le parti offese, un alto numero di appartenenti alle FF.OO., questo ha reso possibile un fenomeno peculiare, ovvero la costituzione di parte civile da parte di sindacati delle FF.OO. e di loro organismi di coordinamento e rappresentanza interna. A riguardo, tuttavia, è bene precisare che, se in un primo momento, il tribunale di primo grado ammette tali costituzioni, in secondo grado e cassazione la costituzione di tali soggetti è negata6.

Sovradimensionamento del fatto di reato: concorso di persone e aggravanti

Nel materiale studiato è presente un sovra-dimensionamento del fatto di reato, operato principalmente attraverso due strade, per un verso, con una elefantiasi delle imputazioni (che rimane principalmente inalterata durante tutto il procedimento)7, trasformando, nel processo di sussunzione della fattispecie concreta a quella astratta, in abnormi le singole fattispecie concrete (ad esempio, trasformando in “terrorismo” un “danneggiamento”), per un altro verso, utilizzando largamente gli istituti del concorso di persone e delle aggravanti – il concorso di persone è contestato in più della metà dei processi di cui sono riuscito a costruire la storia, ovvero 44 volte su 81 procedimenti, e in più di un terzo dei procedimenti (59 su 150) di cui ho il materiale, le aggravanti (comuni e/o) vengono contestate nella quasi totalità dei casi. Tale sovra-dimensionamento produce alcuni importanti effetti dal punto di vista giuridico, infatti: permette alla procura di richiedere ed ottenere le misure cautelari, l’eventuale proroga delle indagini preliminari e l’uso di strumenti probatori invasivi e lesivi delle libertà individuali; rende praticamente impossibile il raggiungimento della prescrizione8; comporta – rispetto a fatti analoghi – un indurimento delle pene comminate dai giudici.

Misure cautelari

Le misure cautelari trovano un notevole spazio di applicazione, soprattutto le misure cautelari personali. Infatti, su 86 procedimenti, queste vengono richieste 19 volte dalla procura, la quale formula (con richieste cautelari talvolta riferite a più posizioni soggettive): 40 richieste di custodia cautelare in carcere; 26 richieste di arresti domiciliari, 14 richieste di obbligo di presentarsi alla autorità di polizia giudiziaria, 15 richieste di obbligo di dimora, 10 richieste di divieto di dimora. Le misure cautelari reali, invece, vengono emesse, nella forma soprattutto del sequestro preventivo, 11 volte.

Quanto avanzato dalla procura, salvo in 4 casi di accoglimento parziale, viene concesso nella quasi totalità dei casi dal GIP, tuttavia, in sede di riesame si assiste ad filtraggio maggiore da parte dei giudici.

Come si evince dal grafico, contro le misure cautelari personali, i difensori degli attivisti hanno sempre proposto istanza di riesame, ottenendo spesso esiti favorevoli (nel 46,4% dei casi si ha la riforma delle misure cautelari e nel 22,7% un loro annullamento). Da questi dati, si può dedurre come la maggior parte delle istanze proposte dai difensori abbia avuto “successo”. Quindi, se la quasi totalità delle richieste di misure cautelari formulate dai PM vengono pedissequamente accettate dagli uffici del GIP, in sede di giudizio dinanzi al tribunale delle libertà vi è un esame più rigoroso, il quale finisce per mitigare gli effetti, prodotti dall’intervento di PM e GIP.

Dall’incrocio del dato riferibile all’alto tasso di custodie cautelari in carcere richieste e alle numerose pronunce “favorevoli” ottenute in sede di riesame e nei diversi gradi di giudizio (Infra par. 10 e 11), emerge una sorta di effetto degenerativo nell’applicazione dell’istituto delle misure cautelari. Molti soggetti, infatti, che si sono visti richiedere e (a volte) applicare la misura cautelare della custodia in carcere, sono stati poi assolti in giudizio, oppure, dopo un primo periodo di applicazione della misura detentiva, hanno visto le loro istanze di riesame accolte. Vi è, quindi, una sorta di punizione anticipata che cozza sia con la ratio dell’istituto, che prescrive la custodia in carcere come extrema ratio, sia con la giurisprudenza affermatasi in ambito nazionale e internazionale volta alla tutela della libertà individuale.

Durata ed esito delle indagini preliminari

Le indagini preliminari hanno una durata media, calcolata su di un campione di 83 procedimenti in cui è possibile ricavare questo dato, di 279 giorni. Questo elemento denota come questa fase processuale subisca, nel caso di specie, un’ingente accelerazione. Infatti, il tempo medio di durata delle indagini preliminari sul territorio nazionale è, quando si tratta di reati con autore noto, di 404 giorni.

La fase delle indagini preliminari di solito si conclude, visto anche l’alto numero di reati previsti dal 2° comma dell’art. 550 c.p.p (come violenza o minaccia a pubblico ufficiale o resistenza a pubblico ufficiale), con un decreto di citazione diretta a giudizio da parte dei PM. Infatti, su 80 procedimenti – quelli da cui è stato possibile ricavare il presente dato – sono il 62,5% quelli in cui la fase delle indagini preliminari si conclude con tale atto. Il 37,5% delle indagini, invece, si conclude con la richiesta di rinvio a giudizio formulata dai PM al GIP, il quale, salvo in due casi in cui viene emessa dal GUP una sentenza di non luogo a procedere, emette un decreto che dispone il giudizio.

Processi ad “alta velocità”

È giunto il momento di prendere in considerazione l’importante elemento della durata dei processi studiati, solitamente ricavato dalla durata del processo di primo grado e dalla frequenza dei rinvii. Proprio sotto questo aspetto, emerge dal “Rapporto sul Processo Penale 2008” (Unione delle camere penali italiane), come presso il tribunale torinese il rinvio ad altra udienza abbia tempi medi di 102 giorni per i processi monocratici e 82 giorni per quelli collegiali (mentre, la media nazionale è di 139 giorni per i primi e 117 per i secondi). Per quanto riguarda i processi analizzati, invece, la media dei rinvii è più veloce: 57 giorni.

Per quel che riguarda la durata del primo grado, dalla comparazione con le statistiche fornite da fonti ministeriali in tema di velocità dei processi, emerge come quelli contro il movimento siano ad “alta velocità”, ovvero, 2,5 volte più veloci della media nazionale.

Esiti sul piano sanzionatorio

Nei processi analizzati in primo grado vi sono 30 sentenze di condanna (il 45,5%), 20 che combinano assoluzioni e condanne (il 30,3 %) e 16 di assoluzione. Complessivamente le sentenze di condanna di primo grado hanno comportato: un totale di 664 anni, 4 mesi e 17 giorni di reclusione e di 1 anno 4 mesi e 29 giorni di arresto; la comminazione di 5 pene accessorie di interdizione dai pubblici uffici per 5 anni; circa 791.590,01 euro i debiti maturati da parte degli attivisti con Stato e privati, tra multe, ammende, risarcimenti alle parti civili e spese processuali. Si tratta di un livello alto di risposta sanzionatoria, vista la qualità delle fattispecie criminose poste in essere. Inoltre, le pene di tipo economiche rappresentano una parte considerevole del trattamento sanzionatorio comminato, quasi ad indicare che, accanto ai “classici” meccanismi di controllo sociale e giudiziario, vi sia la necessità di affiancare ai meccanismi coercitivi di contenimento un uso aggressivo delle sanzioni economiche.

Nonostante la risposta giudiziaria assai importante, sul totale dei processi analizzati solo nel 45,5% dei casi i giudici del tribunale accolgono in toto l’impianto accusatorio avanzato dalla procura, infatti, sono 233 gli imputati assolti e nel 94,7% dei casi lo sono perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto (le cd. formule assolutorie piene). Quindi, da un lato, il tribunale sembra non assecondare le pretese punitive della procura, dall’altro lato, quando la procura riesce a convincere della propria ricostruzione il tribunale questo provvede a comminare pene esemplari.

Esito dei successivi gradi di giudizio

Nei successivi gradi di giudizio l’esito del piano sanzionatorio subisce una parziale mitigazione. Infatti, per quel che riguarda il giudizio di secondo grado – richiesto 33 volte dai difensori degli imputati, 3 dalla procura – i giudici emettono, nella quasi totalità dei casi, delle sentenze di riforma della sentenza appellata, pur spesso trattandosi di riforme parziali. L’opera di mitigazione di cui sopra, poi, diventa ancor più evidente nel caso dei (pochi) ricorsi in Cassazione, per cui è possibile parlare di un vero e proprio “Caso Torino”, ovvero un cortocircuito tra la cultura giuridica locale torinese e la suprema corte, la quale – pur non mancando mai di fare emergere la particolare gravità degli atti posti in essere – emette pronunce sistematicamente in contrasto sia con quanto stabilito dal tribunale torinese che con l’impianto accusatorio della procura.

Quindi, a fronte di una procura che interpreta e implementa il quadro normativo in maniera molto dura nei confronti degli imputati e di un tribunale di primo grado che commina “pene esemplari”, i magistrati giudicanti dei gradi superiori mitigano il carattere afflittivo e le risposte sanzionatorie prodotte nel corso dell’iter giudiziario.


Note

1 Peraltro, il dibattito in questione non è nuovo, ma è la riproposizione di un dibattito oramai permanente sulla reazione dimostrata da procura e tribunale torinesi al cospetto di istanze radicali di tipo politico (Senaldi, 2016).

2 Sarebbero molti, a dire il vero, gli eventi che potrebbero giustificare la necessità di un lavoro di raccolta e esposizione sistematica di dati giudiziari, ma mi riferisco qui agli ultimi recenti avvenimenti riguardanti le attiviste Dana Lauriola e “Eddi” Marcucci.

3 Il lavoro di dottorato a cui faccio riferimento, che riguarda la reazione che si instaura sul campo giuridico (Bourdieu, 2017) tra diritto e politica, è stato svolto grazie al fondamentale contributo dell’Associazione Bianca Guidetti Serra, che mi ha dato la possibilità di reperire il gran numero dei fascicoli giudiziari analizzati.

4 Tra le diverse definizioni è qui utile riportare quella di Sarzotti: «ovvero la fase di implementazione della legge penale che vede coinvolte soprattutto l’attività delle agenzie di repressione del crimine e l’istituzione giudiziaria» (2007: 5).

5 Tale sezione rimarrà attiva fino al 2015, quando verrà sostituita da Spataro con quella sul “Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, reati in occasione di manifestazioni pubbliche”.

6 In quanto, non vi sono né violazioni della condizione lavorativa e di vita dei lavoratori, né violazione di norme a tutela della sicurezza dell’ambiente di lavoro, né, tanto meno, è stato prospettato un addebito o un comportamento illecito nei confronti del datore di lavoro. Ma vi è, piuttosto, la produzione di «fatti delittuosi che, in realtà, sono espressione del rischio intrinseco della professione delle forze dell’ordine e del servizio che esse rendono sul territorio dello Stato» ( Sentenza Corte di Cassazione N. 54424/2018).

7 Normalmente, infatti, la formulazione dell’addebito operata dalla procura, così come comunicatogli dalla PG/DIGOS, viene accolta dal GUP durante l’udienza preliminare e mai modificata in sede dibattimentale.

8La prescrizione, ad esempio, in 12 anni di storia processuale analizzata interviene solo due volte, una volta in primo grado una volta in secondo. Ovviamente, tale dato soffre del fatto che la maggior parte dei procedimenti analizzati riguardano il primo grado di giudizio.


Bibliografia

Bourdieu P, 2017, La forza del diritto. Elementi per una sociologia del campo giudiziario, (Roma: Armando Editore).

Sarzotti C., 2007, (a cura di), Processi di selezione del crimine. Procure della repubblica e organizzazione giudiziaria, (Milano: Giuffrè Editore).

Senaldi A., 2016, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, (Verona: Ombrecorte).

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