[DallaRete] La nuova Turchia tra gentrificazione e neoliberismo

 

10464169_881750851841070_3450993283968428668_nAnzitutto una premessa: la Turchia è un paese profondamente complesso e con al suo interno non una, ma molte società; il breve racconto e le riflessioni che seguono sono il frutto dell’esperienza fatta da alcuni di noi nel contesto tutto particolare di Istanbul l’anno scorso,  durante le settimane calde di Piazza Taksim e quest’anno, nei giorni del primo anniversario di quella rivolta. Come tale, il punto di vista con cui abbiamo osservato la dinamica realtà turca è parziale e molto incompleto; ciononostante vivere i quartieri, le proteste, la crisi di Istanbul offre la possibilità di toccare con mano cosa sta succedendo in quel paese al confine tra Europa e Oriente, di cui in Italia arrivano molto scremate soltanto le notizie più spettacolari e mainstream.

Vi segnaliamo, in apertura, l’ottimo lavoro preparato dai compagni di Clash City Workers sulla situazione economico-sociale del paese, in grado di fornire gli strumenti adatti per comprendere le principali trasformazioni in atto nel paese.
“Cosa sta succedendo in Turchia e cosa c’entra con noi”.

Le strade di Istanbul, specchio del potere di Erdogan…

Per chi non lo sapesse, il primo governo Erdogan e il suo partito-Stato Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) sono un prodotto della durissima crisi del debito che la Turchia attraversò tra la fine degli anni Novanta e il 2001; crisi che determinò l’intervento del FMI, con il più sostanzioso piano di aggiustamento strutturale che il Fondo avesse stanziato fino a quel momento. La crisi economica era percepita sempre più come crisi generale della società e della nazione, tenuta saldamente in mano da un ceto dominante (politico, economico e militare) visto come corrotto, da troppo tempo egemone e responsabile della profonda stagnazione economica e culturale del paese.(1)

Erdogan riuscì a presentarsi come l’uomo nuovo, espressione dei gruppi sociali e religiosi repressi per decenni dalla dirigenza kemalista (nata dalla tradizione politica avviata da Kemal Ataturk, padre della patria, negli anni Venti) e da un esercito da sempre corpo autonomo all’interno dello Stato e della società. Il rischio della bancarotta fece riaffiorare il ricordo ancora vivo dei numerosi golpe subiti dagli anni Sessanta in nome della stabilizzazione interna, delegittimando la vecchia classe dirigente, indebolendo l’immagine delle Forze armate quali protettrici dei cittadini e determinando una rottura storica nella società turca. Erdogan, in oltre 10 anni di potere ininterrotto e sempre legittimato da percentuali elevatissime (tra il 40 e il 50% dei consensi, contro le opposizioni stabilmente sotto il 30%), non solo ha evitato il default del paese ma è riuscito anche a rispettare gli obiettivi imposti dall’Fmi e ha rilanciato l’immagine della Turchia come potenza regionale. Attraverso una leadership forte e autoritaria ha costruito un sistema di potere, fondamentalmente basato su tre pilastri:

a) capillare potere poliziesco, piegando al volere del Governo gli apparati di sicurezza statali, affiancando un sistema para-militare composto da riservisti civili e militanti dell’Akp;
b) una politica economica neoliberista, in grado di garantirgli il sostegno politico dell’alta borghesia, islamica ma anche laica, oltre a legare direttamente alla sua persona e al suo circolo di fiducia le attività produttive, finanziarie ed urbanistiche del paese;
c) infine una politica culturale centrata sulla questione religiosa, costruendo forti legami degli istituti scolastici, educativi, culturali privati, veri e propri “raccoglitori di voti” in grado di garantirgli il sostegno rurale e dei ceti poveri più periferici.

A questi si aggiungono altri due pezzi: la neutralizzazione dei contropoteri istituzionali e politici (rispettivamente: esercito e nazionalisti, di destra e di sinistra); la dura repressione del movimento sindacale e delle forze politiche comuniste e socialiste (radicate, ma profondamente divise e frazionate).

Per comprendere la rivolta esplosa in maniera spettacolare nel maggio-giugno 2013 e le ragioni delle ancora forti proteste anti-governative presenti in tutte le principali città, bisogna avere ben presente questi tre livelli. Le strade di Istanbul, da questo punto di vista, ben rappresentano il sistema di potere di Erdogan e dell’Akp. Le trasformazioni urbanistiche che la città sta subendo da 10 anni a questa parte hanno da sempre perseguito un doppio obiettivo: molto realizzare una vetrina del turismo e del commercio internazionale, capace di aprirsi sia ai capitali occidentali che a quelli medio-orientali; normalizzare e pacificare i quartieri tradizionalmente esplosivi. La costruzione di centri commerciali, luoghi-evento, fiere, così come la riqualifica di vecchie stazioni ferroviarie o navali (ancora in funzione e di pubblica utilità, ma poco remunerative in quanto prive delle necessarie strutture commerciali e dello shopping) e delle vecchie zone popolari a maggioranza immigrata e di ceti poverissimi (roccaforti delle organizzazioni radicali e rivoluzionarie fin dagli anni Settanta), attraverso l’abbattimento di case popolari e caseggiati definiti “degradati”.
Operazioni di bonifica e rilancio che vanno di pari passo con la privatizzazione dei mezzi pubblici e delle strutture di servizio comunali, assieme alla chiusura delle reti di assistenza sociale laiche e non private.(2)

Anche per effetto delle durissime scelte economiche e della disciplina cui è sottoposta la forza lavoro sopravvissuta ai licenziamenti di massa, l’aumento della povertà in città (specchio del paese) è evidente; il segnale più inquietante sono i giovani e giovanissimi che si aggirano per le strade di Istanbul inalando sacchetti pieni di “colla”, sostanze chimiche devastanti per il cervello e il fisico (3). L’aumento del consumo di droga può incuriosire o spaventare i turisti, ma è una delle manifestazioni più evidenti dell’attacco alla città pubblica e la sua trasformazione parco divertimenti, escludente ed esclusivo.

Sono una serie di fenomeni collegati e che tracciano lo schema di un potere che ci racconta la stessa storia di disuguaglianza e violenza propria del neoliberismo. A vigilare, con sguardo paranoico e fanatico, sulla realizzazione dei progetti economici ed urbanistici, un impressionante corpo di polizia in ogni punto, strada e viuzza della città: l’ultimo anello nella catena che sta uccidendo lo spazio pubblico in Turchia.

…e dell’opposizione al suo sistema.

Se vi capitasse di andare a Gezi Parki vi stupireste di come un così piccolo parco nel centro di Istanbul (a Milano ne abbiamo molti di più e di molto più grandi, anch’essi minacciati dalla speculazione) possa aver fatto da detonatore alla più grossa rivolta della storia recente del paese. Il punto è che Gezi Parki non era solo un parco, ma il simbolo dell’opposizione ad un modello economico, lavorativo, culturale, politico. Soprattutto, Gezi non è esploso dal nulla: nella Storia (come nella fisica) niente nasce e finisce nel nulla.

La dura politica economica dell’Akp assieme alla forte repressione poliziesca, in particolare del movimento sindacale (tradizionalmente molto forte in Turchia), ha determinato una opposizione molto radicata e diffusa dei lavoratori, in particolare nelle grandi città e nelle cosiddette “Zone economiche speciali” (aree geografiche destinate ad attività produttive, commerciali o estrattive sottoposte a regimi di lavoro eccezionali, con condizioni molto simili allo schiavismo ottocentesco delle fabbriche europee); non è sbagliato affermare che questa lunga e difficile battaglia ha preparato il terreno per una nuova politicizzazione della società turca. Infatti, l’ultimo colpo di Stato del 12 settembre 1980 aveva chiuso in maniera drammatica un decennio di forte scontro politico, a sua volta preceduto dai golpe del 1960 e 1971; il colpo dell’80 metteva fine in modo piuttosto brutale al dinamismo interno del paese e avviava la normalizzazione definitiva ad opera dell’esercito e dei nazionalisti laici. La repressione militare, infatti, più che i gruppi religiosi e islamisti, aveva riguardato la sinistra (particolarmente radicata tra lavoratori, studenti e minoranze etniche) e in parte la destra kemalista non allineata. Si è saltata una generazione politica, cresciuta in un paese costretto sotto la cappa conformista e pacificata imposta dall’esercito, i cui effetti si sono sentiti anche nei primi anni dell’era Erdogan, quando le proteste hanno riguardato principalmente la vecchia opposizione laica spodestata o i sindacati di sinistra rinati sotto l’urto delle riforme neoliberiste. L’importanza fondamentale della rivolta che ha avuto il suo epicentro a Gezi e Taksim, ma che si è presto espansa anche ad Ankara e Smirne (mantenendo quindi una connotazione urbana) sta proprio nell’aver “scoperchiato il vaso di Pandora”, ovvero aver liberato le forze e le energie di una nuova generazione che ha deciso di schierarsi e di entrare nell’agone politico. E’ stata un’esplosione inaspettata per i più e anche per il Governo, che è stato colto alla sprovvista e lo si è visto in particolar modo nella coraggiosa tenuta della piazza ad Istanbul e nelle manifestazioni di massa svoltesi per un mese di fila nel paese.
Dopo è arrivato il riflusso dei movimenti e il contrattacco: non è stato un anno facile quello trascorso da luglio 2013 al 31 maggio 2014. Il livello di controllo e repressione poliziesca è aumentato in modo impressionante, nessuno viene risparmiato (non solo gli attivisti e i militanti, ma anche quei corpi della società civile in teoria neutrali e garantisti, quali avvocati e medici nel caso aiutino gli oppositori); le strade brulicano letteralmente di poliziotti in borghese e al minimo accenno di presidi o piccole dimostrazioni in piazza, si affiancano puntuali plotoni armati accompagnati dai Toma (idranti corazzati).

Non solo: la tradizionale repressione dello Stato turco, sia durante il periodo kemalista che sotto Erdogan, ha determinato anche una forte frammentazione e settarismo dei gruppi della sinistra, che faticano a trovare una piattaforma comune e unitaria; al tempo stesso, l’unità di piazza Taksim di tutte le forze dell’opposizione (che andavano dalla destra nazionalista ai curdi, ai comunisti fino agli anarchici, comprendendo al suo interno una sfaccettatura vastissima di formazioni e sigle) si è consumata quasi subito nelle inconciliabili differenze interne.4 Così, mentre le destre e l’ala moderata hanno deciso di rifugiarsi nella competizione elettorale (rientrando nei partiti di base, il Chp e l’Mhp, i principali partiti di opposizione, rispettivamente kemalisti di centro e di destra), le proteste anti-governative sono continuate ad opera principalmente dei sindacati, delle formazioni più radicali e dei gruppi nati dagli Occupy di Taksim e Ankara.

Oltre ai 10 morti di Gezi Parki, bisogna anche ricordare gli assassinati dalla polizia nelle proteste di periferia, i feriti e gli arrestati. Senza dimenticare i 300 minatori del disastro di Soma: la loro tragedia ha dato il via a nuove dure proteste, che hanno avuto il loro seguito negli scontri del Primo Maggio, perchè l’opinione pubblica antiliberista li ha giustamente visti come caduti delle durissime condizioni di lavoro cui sono costretti i minatori delle Zone speciali; oltre a ciò, la loro organizzazione sindacale è stata in prima fila nelle proteste contro Erdogan e secondo molti il ritardo nell’inizio dei soccorsi e la loro breve durata è stata una scelta voluta. Nei giorni di Soma, girava voce che funzionari del Governo avessero commentato la morte dei minatori affermando: “Trecento oppositori in meno”. Nella piazza principale del quartiere di Besiktas nei giorni precedenti il 31 erano stati esposti due striscioni giganti, a ricordo dei caduti di Gezi e dei 300 di Soma.

La chiusura dello spazio pubblico che abbiamo visto riguardo le trasformazioni urbanistiche e sociali di Istanbul, si riflette anche nella chiusura completa della dialettica maggioranza-opposizione tipica di regimi parlamentari.

Il 31 maggio, primo anniversario della rivolta di Gezi, è stato possibile avere un assaggio di tutto questo nelle strade di Istanbul: in un contesto surreale, tra migliaia di turisti ignari, una città militarizzata, con piazza Taksim chiusa e blindata, si preparava ad una prova importante.

Già nei giorni precedenti non solo ad Istanbul, ma anche ad Ankara, Smirne e altre città del paese, erano previste iniziative, incontri, manifestazioni per fare il punto ad un anno dalla rivolta e rilanciare, con ancora più rabbia e consapevolezza, le proprie parole d’ordine. Tranne che nella capitale, la polizia è riuscita ad impedire ai movimenti di organizzarsi e incontrarsi e, nonostante l’imponente numero di sigle che avevano lanciato le giornate verso il 31 (circa 160 nella sola Istanbul), il Governo ha deciso di vietare ogni diritto di riunione e assembramento. 29.000 poliziotti, con il supporto degli ausiliari e delle squadracce dell’Akp, hanno bloccato ogni tentativo di riunirsi e dar vita e presidi o cortei. Soltanto a fine pomeriggio, da diversi punti della città, le molte anime della Istanbul antiliberista hanno provato coraggiosamente a muoversi verso Taksim incontrando subito però i lacrimogeni, i Toma, i proiettili di gomma, i manganelli della Polici: il 31 maggio ad Istanbul non è stato possibile fare alcun corteo, ma in un vasto perimetro intorno alla piazza simbolo della rivolta si sono susseguiti per diverse ore scontri, cariche, ritirate, contrattacchi. I fumi pesanti dei gas Cs assieme al fumo nero delle barricate in fiamme hanno avvolto la città, dalle vie del turismo (Istiklal e Galata) ai quartieri periferici dove maggiore è stata la violenza degli scontri (Gazi e Okmeydani). <<Per qualche ora>>, hanno affermato gli attivisti e i compagni turchi, <<Istanbul è stata strappata dalla normalità in vetrina che crea sempre più emarginati per regalare la città ai più ricchi; per qualche ora si è rotto il disco della propaganda e del conformismo, abbiamo sfidato i meccanismi della repressione poliziesca e dell’oblio del turismo e dei centri commerciali>>. Come in altri paesi e in altri contesti, a scegliere la strada e la piazza per urlare la loro protesta sono stati giovani e giovanissimi, assieme alle organizzazioni dei lavoratori e agli abitanti dei quartieri a maggioranza migrante (in particolare curdi e armeni, ma anche molti siriani); infatti, oltre agli assembramenti spontanei, la polizia ha provato a bloccare e ingaggiato scontri anche con i concentramenti di fronte le sezioni sindacali e di partito, presenti nelle periferie e dove più forti sono i gruppi radicali. I grandi esclusi dal processo di modernizzazione imposto dall’Akp e dal suo leader. La città ha comunque saputo dimostrare quella solidarietà che aveva dato tanta forza ai rivoltosi di Taksim un anno fa: dai kebabbari che offrivano bottigliette d’acqua per curarsi dai lacrimogeni, ai negozi e ai condomini che aprivano le loro porte per nascondere i manifestanti durante le cariche della polizia.

Da registrare a fine giornata, guardando anche alla sola Istanbul, un bilancio pesante: 83 fermi, 14 feriti, più le decine di arrestati nei momenti precedenti lo scoppio dei disordini.

Movimenti ed opposizione ad un bivio.

Non si può affermare che il primo anniversario di Taksim sia andato bene: il risultato di piazza è sicuramente coraggioso, ma molto pesante; il bilancio politico negativo. Il Governo e gli apparati di sicurezza statali hanno dimostrato di aver imparato la lezione dell’anno scorso e, leggendo dietro le parole di Erdogan, non sono più disposti a lasciare alcuno spazio a quelli che la propaganda definisce “nemici della Nazione”. Il vasto, eterogeneo e diviso fronte dell’opposizione interna viene infatti presentato come la presunta quinta colonna di un “complotto europeo” ai danni del Governo, oppure come potenziali alleati dei “terroristi interni”, curdi e di estrema sinistra. Sebbene dunque mantenga la forma di una democrazia parlamentare, è ormai evidente la torsione autoritaria del paese e la trasformazione dell’Akp in partito-Stato.

A questo punto i movimenti giovanili, i sindacati, i partiti e le formazioni della sinistra devono capire come riorganizzarsi e quale sia il modo migliore per portare avanti la lotta politica. Sicuramente, da un lato, sarebbe necessario evitare l’effetto normalizzazione della protesta ad opera in particolare del Chp (opposizione di centro, 28% alle ultime consultazioni, viene visto come l’unica possibile forza di opposizione laica anche da parte dell’opinione pubblica di sinistra), riuscendo a costruire un soggetto politico unitario in grado di togliere ai kemalisti il ruolo di unica opposizione: questo è quello a cui punta una parte dell’ala partitica e sindacale del movimento.

Ma pesanti anni di settarismo e divisioni, causate da una repressione capillare, non si possono cancellare rapidamente e da qui nasce una seconda possibile risposta che numerosi gruppi ritengono sempre più necessaria: pur mantenendo un’organizzazione pubblica, presente nei quartieri e nelle manifestazioni, radicalizzare la lotta e passare allo scontro armato. In parte questa scelta è una necessità di autodifesa che ci ricorda molto da vicino i contesti in cui operava l’IRA in alcuni quartieri di Belfast negli anni Settanta e Ottanta, oppure le Black Panthers nei ghetti di Oakland e di altre città americane: di fronte ad una crescente violenza poliziesca, mantenere una base sociale radicata che garantisca consenso e copertura, ma reagire e rispondere.

C’è poi, infine, la terza possibile strada che riguarda in questo caso l’ala più giovanile dell’opposizione, rappresentata dagli Occupy: portare avanti esperienze di autogestione e lavoro sociale nelle città, organizzare proteste pubbliche di piazza, rilanciare lo spirito di Gezi Parki. Infatti, dal movimento dell’anno scorso sono nati alcuni centri sociali (i primi nella storia del paese) ad Istanbul e Ankara, figli dei Forum collettivi che si svolgevano nei parchi e nelle piazze delle città e che in alcuni casi sono riusciti a sopravvivere al riflusso, lasciando queste importanti eredità.

Non sappiamo come andrà a finire. Sappiamo solo che la battaglia politica in corso in Turchia ci riguarda molto da vicino ed è scritta con un linguaggio che conosciamo: con tutto l’internazionalismo di cui siamo capaci, auguriamo ai compagni turchi di farcela. Erdogan, senza farlo apposta, ha ragione: esiste effettivamente un complotto straniero per rovesciare il suo governo; ma non è quello degli Stati e delle istituzioni internazionali: è la cospirazione dal basso che movimenti antiliberisti e antiautoritari portano avanti in sostegno dei loro fratelli dall’altra parte del Bosforo.

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1) In particolare si fa riferimento ai leader del Chp (Partito popolare repubblicano), il più antico partito della storia repubblicana turca, e ai vertici militari del 1997: autori dell’ultimo atto di forza dell’esercito contro il parlamento, quando costrinsero il premier Necmettin Erbakan (capostipite del neoislamismo turco e mentore di Tayyip Erdogan), a dimettersi a causa della sua politica istituzionale considerata un pericolo per la laicità dello Stato.

2) Per approfondire il tema della gentrificazione e delle trasformazioni urbanistiche di Istanbul, consigliamo la visione del documentario turco “Ecumenopolis: city without limits”, qui in lingua originale con i sottotitoli in inglese.

3) Abbiamo qui riportato nostre impressioni dirette. Il consumo di droga da parte della popolazione giovanile non è un fenomeno nuovo: si era già presentato all’inizio dello scorso decennio e si sta nuovamente manifestando; essendo però ufficialmente ignorato dalle autorità e chiudendo la maggiorparte delle reti di assistenza pubblica, mancano dati relativi.

4) A questo proposito, le piazze di Istanbul, Ankara, Smirne, Adana ben rappresentavano la caratterizzazione di questi movimenti. Principalmente urbani, al loro interno era possibile ritrovare tre principali categorie: lavoratori, disoccupati e studenti precarizzati; classe media laica di centrosinistra; nazionalisti di destra, anti-islamici. Oltre a questi, un ruolo importante lo hanno svolto anche le minoranze etniche, in particolare i curdi: non è un caso infatti che fuori dalle città della costa occidentale, solo l’estremo oriente del Kurdistan sia stato protagonista di significativi episodi di rivolta.

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