Devastazione e saccheggio – Un imputato
Quinto capitolo della serie di articoli sul reato di devastazione e saccheggio. Intervistiamo Daniele G., educatore, che è stato imputato, con l’accusa di devastazione, nel procedimento per gli scontri al corteo antifascista contro la Fimma Tricolore del’11 Marzo 2006 in Corso Buenos Aires. Arrestato l’11 Marzo passa 4 mesi in carcerazione preventiva a San Vittore per poi essere assolto al processo con rito abbreviato celebrato nel Luglio del 2006.
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-11 Marzo 2006. Gli scontri di Corso Buenos Aires. Che ricordi hai di quella giornata?
Non è semplice mettere in ordine e a fuoco i ricordi legati ad una giornata intensissima e lunghissima come quella dell’11 Marzo 2006. Credo che, per avere un quadro più chiaro degli eventi, si debba partire un poco a monte rispetto a quella giornata, dalla preparazione di quell’iniziativa. La motivazione fondamentale che spinse le realtà di movimento a voler dare, quel giorno, un “segnale forte” alla città ed in particolare ai suoi amministratori, fu la concessione, da parte delle autorità preposte, dell’autorizzazione per un’iniziativa fascista a ridosso del terzo anniversario della morte di Dax. La ferita era ancora fresca e la rabbia per quella decisione era fortissima e percepibile tra i compagni delle realtà più disparate. Ricordo che l’iniziativa fascista di cui sopra, inizialmente, era prevista per la fine di Gennaio, proprio nel periodo in cui si celebra la Giornata della Memoria dell’Olocausto ebraico; fu in seguito alle pressioni della comunità ebraica milanese che le autorità decisero di rinviare l’autorizzazione ai fascisti, anziché vietare tout court l’iniziativa, applicando le leggi vigenti.
Nei giorni precedenti l’iniziativa antifascista dell’11 Marzo vi furono numerose assemblee, molto partecipate ed accese nelle quali si discusse molto in merito alle pratiche da portare in piazza quel giorno, il movimento si trovava in una fase di riflusso che durava ormai da anni (il G8 di Genova ne segnò drammaticamente l’inizio) ed arrivava a quella giornata impreparato ed incapace di gestire le pratiche di piazza necessarie ad innalzare il livello del conflitto.
Quel giorno ricordo di essermi incontrato in P. con alcuni compagni; da lì, dopo esserci organizzati e confrontati sulle ultime questioni, ci muovemmo alla volta di Corso Buenos Aires nel primo pomeriggio. Arrivati nei pressi di Piazza Oberdan notai che eravamo pochi, la sproporzione tra noi e lo schieramento di Polizia e Carabinieri era evidente; l’accesso alla piazza era completamente presidiato. Dopo pochi minuti dal nostro arrivo iniziò un lancio di oggetti in direzione delle Forze dell’Ordine; all’inizio non ci furono reazioni se non il lancio di alcuni lacrimogeni. Ricordo che dopo qualche minuto ebbi la sensazione che la gestione della piazza, era piuttosto caotica e che una rabbia incontrollata, certo più che giustificata, stava prendendo il sopravvento. C’erano auto in fiamme ed anche una sede di AN stava bruciando. Vedevo che lo schieramento di Forze dell’Ordine rimaneva fermo, quasi impassibile.
La tensione, tuttavia, cresceva di secondo in secondo, sentivo che non eravamo lucidi e nel frattempo Polizia e Carabinieri scalpitavano per intervenire in maniera più decisa. È difficile dire con esattezza quanto tempo durò lo scontro, non credo più di dieci o quindici minuti. Ad un certo momento tutto lo schieramento delle Forze dell’Ordine si mosse compatto compiendo una prima carica di pochi metri, mi pare che l’operazione si ripeté altre due volte, noi arretravamo ma rimanevamo abbastanza compatti mantenendo la posizione anche se si era concordato che, dopo qualche minuto, avremmo dovuto ripiegare ed andare via; credo che fu quello il momento in cui si videro chiaramente i limiti e l’incapacità di gestire iniziative di quel tipo, il momento in cui lo stomaco prevalse sul cervello. L’ultimo attacco fu violentissimo: caricarono a piedi e con le camionette, fu il panico generalizzato. Il gruppo dei compagni si disperse, ognuno correva disordinatamente cercando di mettersi in salvo. Ricordo che mentre scappavo mi girai per vedere quanto erano lontani i carabinieri che ci seguivano, li vidi spuntare da una nube di fumo e lacrimogeni a meno di dieci metri; quando mi rigirai vidi un ragazzo che non conoscevo che mi faceva segno di entrare in un portone e così feci insieme ad altri, pensando che la persona che ci aveva invitato ad entrare conoscesse una via di fuga. Purtroppo non fu così, eravamo in trappola. Dopo nemmeno un minuto infatti udii forti colpi al portone provenire dall’esterno, erano i carabinieri; dopo poco il portone cedette ed entrarono nel cortile con i manganelli alzati, decisi a farci male. Subito dopo entrò un agente in borghese, un funzionario, che disse ai carabinieri di non torcerci un capello, testuali parole, e così fu, non ci fecero nulla. In seguito i carabinieri cominciarono a frugarci addosso, ricordo che quello che perquisiva me continuava ad insultarmi sottovoce e, con la visiera del casco alzata, mi dava dei colpetti sulla fronte. Un altro, visibilmente alterato da sostanze eccitanti, continuava a ripetere che la galera era inutile, erano meglio tre mesi di ospedale. Dopo qualche minuto entrò nel cortile un funzionario della Digos che conoscevo al quale chiesi cosa ci sarebbe successo e lui mi rispose che San Vittore ci stava aspettando. Dopo circa un’ora dal fermo ci portarono via, quando uscimmo dal portone i residenti della via ci insultavano e applaudivano i carabinieri. Da lì fummo portati dapprima alla Questura di via Fatebenefratelli dove uomini della Digos fecero foto e riprese video degli indumenti e dei tatuaggi, le attese erano lunghe e snervanti. Nel tardo pomeriggio ci trasferirono alla Caserma dei Carabinieri di via Vincenzo Monti dove ci fecero le foto segnaletiche e ci presero le impronte, anche qui rimanemmo per ore senza che nessuno ci dicesse nulla. Ricordo che arrivammo a San Vittore che era già notte, saranno state forse le 2. Le operazioni all’ufficio matricola del carcere durarono altre due ore, fummo privati di tutti i nostri effetti personali e perquisiti; ricordo che dovetti togliere le protezioni rigide dalla giacca da motociclista che indossavo e che il secondino addetto alle operazioni si divertiva a far battute e a provocare, ricordo il suo forte accento sardo. Finalmente alle 4 circa entrammo nella nostra cella, quella che sarebbe stata, nostro malgrado, la nostra triste dimora per i 4 mesi a venire.
Il primo impatto con il carcere fu duro, non si può descrivere la sensazione di essere privati fisicamente della libertà. Tuttavia avemmo la fortuna di essere messi tutti nella stessa sezione, in una zona del carcere che normalmente veniva utilizzata come “sezione punitiva” per i detenuti comuni. A San Vittore eravamo 11 di cui solo io e altri 2 di Milano, gli altri erano tutti di Reggio Emilia. Inizialmente non ci rendemmo conto di questa “fortuna nella sfortuna” perché pensavamo che saremmo usciti dopo poco tempo ma, nel periodo successivo, per noi fu molto importante essere tutti in celle vicine, in un settore della prigione dove non c’era sovraffollamento e che, tutto sommato, era abbastanza tranquillo. Mentre gli altri compagni occupavano tutti i posti delle loro celle, io ero in cella con due compagni arrestati insieme a me ma c’era una quarta branda libera sulla quale, nel periodo della nostra carcerazione, si alternarono diversi detenuti comuni: un ultrà juventino cocainomane e psicologicamente instabile, un anziano contrabbandiere cardiopatico e un giovane rapinatore gentiluomo, ma questa è un’altra storia. Anche se, come ho detto, tutto sommato eravamo stati “fortunati”, la carcerazione fu difficile da sopportare: la noia e l’attesa erano i nemici invisibili contro cui combattere ogni giorno. A differenza dei compagni detenuti a Bollate, che potevano spostarsi nell’intera sezione per gran parte della giornata e svolgere attività di vario genere, noi di San Vittore avevamo solo quattro ore d’aria, due la mattina e due il pomeriggio, durante le quali dovevamo anche fare la doccia; per le restanti 20 ore della giornata eravamo chiusi in cella. I rapporti sociali pertanto erano limitati ai compagni di cella per gran parte del tempo. L’amministrazione penitenziaria inoltre non prevedeva alcun genere di attività per i detenuti.
-Vi viene contestato l’articolo 419 del Codice Penale e quindi l’ormai noto “devestazione e saccheggio”. All’epoca il reato non era così noto. E’ vero che c’erano già stati gli arresti per il G8 di Genova e il processo di primo grado per quei fatti era in corso, ma negli stessi ambiti di movimento c’era ancora poca consepevolezza sulla pesantezza di quell’imputazione. Come reagisci a questa contestazione?
Quando fummo informati delle accuse a nostro carico la preoccupazione fu forte, soprattutto per il fatto che la pena prevista per il reato contestato era compresa tra gli 8 e i 15 anni; non riuscivamo nemmeno ad immaginare una detenzione così lunga. Inoltre, alla preoccupazione si aggiungevano la rabbia e la frustrazione di essere incarcerati per una lotta giusta, sacrosanta. Eravamo incarcerati per aver contrastato un’iniziativa fascista vietata dalla Costituzione Italiana, per aver in qualche modo difeso l’ordinamento repubblicano, era una situazione che aveva un che di paradossale.
Tutto era nelle mani dei nostri avvocati che, senza tregua, cercarono dapprima di farci scarcerare e di fare decadere le necessità della custodia cautelare e in seguito, per tutta la durata del processo, si concentrarono sul tentativo di smontare un’accusa che andava molto oltre alle eventuali responsabilità penali dei singoli. Si trattava infatti di un’accusa politica, di un tentativo di reprimere in maniera generalizzata, colpendo nel mucchio, coloro che avevano preso parte a quella giornata di mobilitazione. Con il passare del tempo prendemmo sempre maggiore consapevolezza riguardo alla gravità della nostra posizione, in particolare per il fatto che, attraverso il dispositivo del “concorso morale”, era sufficiente che fosse provata la nostra presenza sul luogo dei disordini per essere condannati.
Il reato di devastazione e saccheggio, che come è noto risale al Codice Penale fascista ed è stato messo a punto appositamente per contrastare gli oppositori politici al regime, è stato contestato negli anni successivi, e lo è tuttora, ogni qual volta vi sia la necessità di reprimere qualsivoglia movimento politico auto-organizzato e potenzialmente destabilizzante, si pensi per esempio alle lotte contro il TAV.
-In quei mesi eravamo in campagna elettorale per le politiche del 2006 (poi vinte dal centro-sinistra di Prodi per il rotto della cuffia) e la destra strumentalizza il vostro caso per picchiare durissimo. Anche nella sinistra istituzionale, ma più in generale nella società civile milanese è stato difficilissimo aprire dei varchi di solidarietà e agibilità politica. Alla fine, puntando sul tema del garantismo, ci si è riusciti, portando sotto le mura di San Vittore un corteo di 10.000 persone. Era Giugno se non erro… A te, a voi, in carcere l’eco di queste difficoltà è giunto?
Ogni giorno arrivavano molte lettere e telegrammi dall’esterno e il morale dentro, nonostante la nostra condizione, era piuttosto alto anche e soprattutto grazie alla vicinanza e alla solidarietà dei compagni fuori. Da molte di queste lettere traspariva la preoccupazione per la situazione politica del momento e la frustrazione dovuta alla difficoltà di organizzare iniziative a sostegno dei compagni in carcere. Ricordo le strumentalizzazioni della destra, su tutte l’ormai famosa fiaccolata dei residenti e dei negozianti della zona Buenos Aires con lo striscione contro i “Prodi autonomi” alla quale parteciparono anche alcuni esponenti della “sinistra” cittadina. La vicenda dell’11 Marzo è stata sicuramente un’opportunità propagandistica in vista delle elezioni sia per la destra, che faceva di tutto per far ricadere sulla sinistra istituzionale parte delle responsabilità di quanto avvenuto sia per la “sinistra democratica” che non perdeva occasione per dissociarsi dagli “ultrà dei centri sociali”. Il corteo in solidarietà ai detenuti arrivò come una boccata d’ossigeno, fu il segnale per noi che finalmente, dopo mesi di difficoltà, si era riusciti a portare attenzione e solidarietà concreta ai compagni detenuti. Tra l’altro, per noi fu davvero emozionante sentire le voci solidali di tante persone sotto le finestre delle nostre celle.
-Milano non era più abituata a una carcerazione preventiva di così tanti attivisti per così tanto tempo. Penso che una cosa del genere non si vedesse dai primi anni ‘80 e per ben altre vicende. Voi eravate consapevoli di una sorta di “eccezionalità” della vostra situazione?
In tanti anni di militanza non avevo mai vissuto una situazione di quel genere, né in prima persona né per quanto riguarda i compagni. C’era stata qualche anno prima la vicenda dei 4 compagni arrestati (con l’accusa di rapina aggravata) per aver cacciato dei fascisti da un treno, ma la loro carcerazione non era stata così lunga. Quando realizzai che la custodia cautelare sarebbe durata fino al processo ebbi sicuramente la sensazione di trovarmi in una situazione nuova, diversa nella sua negatività. Negli anni precedenti, soprattutto in quelli precedenti il G8 di Genova, il movimento raccoglieva ben altri numeri, il suo peso in città era tenuto in considerazione e questo aveva forse un effetto di deterrenza: le denunce erano all’ordine del giorno ma arrestare dei compagni significava avere poi a che fare con una reazione che avrebbe portato disagi, più o meno grandi. Credo che nel 2006, dopo anni di botte, denunce, arresti e perfino morti, le forze repressive abbiano voluto dare ad un movimento già agonizzante un ennesimo durissimo colpo.
-Dopo 4 mesi di carcerazione preventiva inizia il vostro processo con rito abbreviato. Ricordo ancora i controlli molto rigidi per entrare in aula, gli imputati nelle gabbie, il tanto pubblico… Una situazione che riportava a immagini di altri periodi. Tu la vivevi nello stesso modo?
Come ho già detto, la situazione era sicuramente eccezionale e rimandava ad un immaginario da “anni di piombo”, era strano assistere al nostro processo da dentro una gabbia, trattati alla stregua di pericolosi criminali; la percezione di questa eccezionalità l’avevamo noi e l’avevano i compagni fuori. Credo comunque che, nella sua drammaticità, questa vicenda sia stata in grado di unire tante persone, anche molto diverse.
-Alla fine vieni assolto. Cosa pensi del fatto che sia stato contestato il reato di devastazione e saccheggio per un episodio di conflittualità di piazza tutto sommato circoscritto sia nello spazio (a dir tanto 200 metri di strada) che nel tempo (forse mezz’ora) che sicuramente non ha messo in crisi l’ordine pubblico generale della metropoli di Milano? Pensi che Procura e Questura avessero la necessità di dare un segnale? Un monito? Che ne pensi che per questo tipo di reato, di fatto, basti la mera presenza sul luogo dei fatti, per rischiare di essere condannati ad anni di carcere?
Sì, alla fine fui assolto, cosa che purtroppo non è stata per tanti compagni condannati a 4 anni. Come dicevo, il reato di devastazione e saccheggio e il suo inseparabile corollario costituito dal concorso morale sono figli del “Codice Rocco” del 1930 e sono stati messi a punto, durante il regime fascista, con lo scopo di contrastare eventuali moti rivoluzionari di piazza. Ciò che successe a Milano l’11 Marzo del 2006, come dici giustamente, fu circoscritto nello spazio e nel tempo e sicuramente non mise in pericolo l’ordine pubblico in città. Non sono certo un giurista ma appare chiaro che l’accusa è assolutamente pretestuosa, infondata. Oltre a ciò, il concorso morale mira evidentemente ad aggirare uno dei cardini del nostro ordinamento, ovvero quel principio secondo cui la responsabilità penale è personale. Un’assurdità giuridica che istituisce una zona intermedia tra innocenza e colpevolezza che poi però finisce per ricadere nella seconda: se eri sul posto avrai sicuramente fatto qualcosa e se non hai fatto nulla ti condanno comunque perché non hai contrastato coloro che commettevano reati. Non c’è modo più efficace per disincentivare la partecipazione alle lotte, quindi credo che di certo ci fosse la volontà di dare un segnale.
-Come hai vissuto, se hai voglia di raccontarcelo, i fatti del Primo Maggio NoExpo 2015 a quasi 10 anni dai fatti di Corso Buenos Aires?
Il Primo Maggio ero in piazza, nella parte tranquilla del corteo. In breve credo che, quel giorno, chi ha deciso di portare in piazza certe pratiche abbia fatto, oltre che un errore politico, anche un grave atto di prevaricazione nei confronti dei compagni che da tempo stavano portando avanti la campagna contro Expo. Non credo che il riot del Primo Maggio abbia prodotto risultati politici apprezzabili, credo anzi che abbia allontanato il cittadino comune, “l’uomo della strada”, dalle sacrosante ragioni per le quali opporsi all’ennesimo grande evento mangiasoldi. È stato fatto un grande favore al governo, ai media e a tutti coloro che non aspettavano altro che un pretesto utile a nascondere le magagne di Expo.
Ho sempre ritenuto che la politica di movimento, debba certo produrre conflitto ma senza allontanarsi dal consenso, ho sempre creduto più nei movimenti di massa che nelle avanguardie. Un riot di 1.000 persone non è politica, è solo una messa in scena teatrale di qualcosa che oggi, purtroppo, non esiste in nessun settore della nostra società, ovvero la spinta a mettersi in gioco anche in maniera radicale per cambiare l’esistente. Credo che questa spinta necessiti di coscienza collettiva e questa si costruisce con il consenso attorno a determinate idee e determinate pratiche.
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