Genova 2001, manifesto del possibile – Intervista con Blicero

-Ci fai un breve quadro della tua militanza al momento in cui scoppia la rivolta di Seattle?
Breve eh… (ride) Io sono un compagno dei movimenti milanesi, in particolare, quando cominciano le mobilitazioni contro i vari summit sto partecipando a vari spazi milanesi. Era da poco terminata l’esperienza di Bredaoccupata, di cui avevo fatto parte. Si trattava di uno spazio sociale che aveva la caratteristica di essere un luogo fortemente eterodosso e sperimentale come posizioni politiche e che offriva ospitalità a molte altre realtà senza chiedere nulla in cambio. Dava spazio a chi voleva trovarsi senza imporre la propria linea su chi fruiva dello spazio che veniva messo a disposizione. Quindi, per esempio, lì si trovava la RASC, la Rete Autogestita Studenti e Collettivi, che nel dicembre ‘97 occuperà il Deposito Bulk, occupazione cui partecipo. E da lì parteciperò a tutte quelle esperienze che in qualche modo ruoteranno attorno a quella come per esempio l’Ostello Autogestito Metropolix o l’occupazione del secondo Bulk dopo lo sgombero del gennaio 2000. In aggiunta a ciò farò parte di alcuni collettivi che lavoravano all’interno del Deposito Bulk pur mantenendo una propria autonomia politica come, per esempio, Chainworkers che poi originerà il collettivo di San Precario. Chainworkers nasce all’interno di Oben, uno spazio interno al Bulk che potrei definire una “caffetteria di approfondimenti intellettuali”. Oppure l’hacklab del LOA. Quindi la mia militanza è divisa tra l’internità agli spazi sociali milanesi e la scelta di fare della comunicazione e della tecnologia uno degli ambiti principali in cui elaborare il prorpio intervento politico. Questo avveniva già dentro Breda, ma poi prosegue con la partecipazione a Isole nella Rete, Ecn.org, al progetto Autistici/Inventati e con l’organizzazione successiva degli hackmeeting tra cui quello al Bulk e con la partecipazione agli hacklab, i laboratori hacker che si sviluppano in vari spazi in giro per l’Italia, in particolare, come dicevo, a Milano col LOA.

-Ci racconti come nasce Indymedia Italia, il primo portale di informazione indipendente di movimento?
A livello internazionale Indymedia nasce come strumento di comunicazione per la mobilitazione di Seattle. In Italia nasce come “presa in giro mediatica” in corrispondenza con una mobilitazione contro l’OCSE a Bologna nel giugno 2000. Viene lanciato come strumento per attrarre l’attenzione dei media su quella vicenda. Quando nasce non c’era l’idea di fare un portale, era un po’ una boutade mediatica da parte di Matteo Pasquinelli e Void. Poi la cosa prende piede. Si vede che è uno strumento che può funzionare. Viene coinvolta tutta quella rete di persone che già lavoravano sulla comunicazione indipendente. Collettivi che si erano formati sui territori e che più o meno erano legati agli hacklab e agli spazi sociali “non allineati”. Non appartenenti a particolari aree politiche, ma che anzi, cercavano di tenersi un po’ fuori da questo gioco delle aree politiche che all’epoca andava per la maggiore. Quindi, per esempio, a Milano le persone del giro dell’hacklab del LOA, che è vero che era all’interno del Bulk, ma che aveva una sua autonomia operativa. Anche perché, il Bulk era un soggetto abbastanza indipendente dalle aree. Più vicino ad alcune che ad altre, ma di fatto, con una sua indipendenza. Ed era anche il motivo per cui si era scelto di stare lì. Era una garanzia importante da quel punto di vista. Quindi viene coinvolta questa rete di persone tra cui il LOA piuttosto che il gruppo degli Sgamati di Firenze o le persone che giravano attorno al Forte e ci viene sostenzialmente detto: “Abbiamo questo strumento, sta funzionando, ma non è che lo possiamo tenere in piedi in due. Diamoci tutti una mano”. Le persone che vengono contattate pongono come condizione che lo strumento venga utilizzato in modo orizzontale, collettivo e aperto. Una sorta di specchio delle mailing list aperte che giravano su Ecn e che, all’epoca, venivano utilizzate dagli spazi sociali per comunicare quello che avveniva. Quindi uno spazio che offrisse a tutti la possibilità di raccontare il proprio punto di vista sulle cose che accadevano. Questa condizione viene accettata. Le idee di chi aveva fondato il progetto probabilmente erano diverse. Si pensava a uno strumento più giornalistico, mentre noi avevamo in mente uno strumento più militante e alla fine prevale questa seconda posizione anche perché entriamo in tanti in Indy e ovviamente questo determina un po’ l’identità del progetto. Quindi Indymedia parte, fa un anno di sperimentazione coordinandosi con gli eventi che accadono in quel periodo come Praga o il No Global Forum di Napoli. E poi arriva Genova e Indymedia assume una sua centralità nella storia politica di movimento soprattutto in relazione a quell’evento che la “lancia” come luogo di comunicazione e informazione principale.

-Quel’è il percorso che porta alla costruzione dell’esperienza del Media Center durante le giornate del G8?
Il percorso parte dal fatto che nessuno di Indymedia voleva andarci! Cioè gran parte della rete che stava dietro a Indymedia non voleva andare a Genova perché in qualche modo percepiva l’idea della trappola. Poi, mentre si avvicina l’evento, quando ci si rende conto che c’è una dimensione che non può essere ignorata, veniamo contattati da Luca di Radio Onda Rossa che confluiva nel network di Radio Gap che si stava organizzando per seguire gli eventi di Genova che ci dice: “Noi ci siamo organizzati, ci siamo fatti dare dalla Provincia uno spazio, abbiamo i computer, abbiamo tutto, ma non abbiamo le competenze tecniche per mettere in piedi la struttura”. A quel punto, non tanto come Indymedia, ma come rete di relazioni e persone che facevano comunicazione: Indymedia, Autistici, gli hacklab, ci guardiamo e ci diciamo: “Va bene. Ci stiamo!”. L’unica condizione posta, come al solito, è che se ci sono degli strumenti questi possano essere utilizzati da tutti e quindi non solo dalle aree politiche o dal Genoa Social Forum. Il lavoro che poi abbiamo fatto se fosse stato commissionato commercialmente sarebbe costato più dell’intero summit! (ride) Viene cablata da zero un’intera scuola. Viene costruito un vero centro stampa totalmente attrezzato con computer, stampanti, rete… Vengono collegati in rete, che oggi può far sorridere, ma all’epoca si viaggiava ancora con l’ISDN, con una connessione a 64K, adesso noi siamo abituati che la rete è ovunque, che hai il telefono che viaggia coi giga, ma all’epoca non era così! E vengono collegati tra loro tutti i centri di raccolta dei manifestanti come il Carlini dove ognuno può pubblicare liberamente quello che sta avvenendo in quelle giornate senza passare attraverso gli “house organ” delle varie aree politiche. Per fare un esempio; se eri al corteo della Disobbedienza e l’avevi vissuto in prima persona potevi raccontarlo con le tue parole senza dover passare dalla Redazione di Radio Sheerwood. Potevi farlo dal Carlini, potevi farlo dal campeggio del Blocco Nero, potevi farlo dalla Diaz, potevi farlo da un’enorme sala nel Media Center dove l’accesso era libero.

-Quando scendi a Genova?
Io vado lì due settimane prima e firmo…
Chi doveva firmare la presa in carico dei locali non si presenta e quindi tocca a me firmare e assumermi la responsabilità della struttura e dei computer.
E quindi divento il responsabile di tutta la struttura senza neanche volerlo!
In qualche modo utilizziamo la nostra competenza tecnica come strumento politico perché quel luogo, il Media Center, fosse un luogo aperto.
C’era il piano del GSF, il piano delle radio, il piano della stampa tradizionale, il piano di Indymedia e l’open space al piano terra.

-Dormivate lì?
Sì, non tutti. Ma di fatto Indymedia era un piano dormitorio.
Eravamo proprio dei punkabbestia!
Nella settimana di Genova credo di aver dormito due, tre ore a notte.
Mi nutrivo solo di pizza che arrivava a degli orari improbabili.

-Partecipi al corteo dei migranti? Che sensazioni ne ricavi?
Non partecipo al corteo dei migranti. Io, di fatto, non partecipo a nessun corteo. Questo perché sono inchiodato ad aggiornare Indymedia. Passo tutti e tre i giorni dentro la stanza dei server a tenere in piedi la rete, a aggiornare il sito di Indymedia e a fare da snodo di coordinamento e di verifica del flusso di notizie che ci arriva da tutti quelli che erano in piazza. Sia interni a Indymedia che quelli che si aggregano in quel momento riconoscendosi nel progetto e che erano dislocati un po’ ovunque. Oggi noi siamo abituati ad avere lo smartphone e quindi la pubblicazione è immediata. Ma all’epoca non era così! All’epoca le cose venivano pubblicate dai computer. C’erano i telefonini…e qui colgo l’occasione per narrare l’aneddoto della celebre assemblea al Bulk in cui si presenta mia madre col cellulare urlandomi: “Adesso lo prendi!”.

-Perché tu non avevi il cellulare?
No, me lo regala mia madre per andare a Genova.
Ma era tipo un Nokia 3310, ci potevi mandare al massimo degli sms.

-Ma avevate una linea fissa al Media Center?
Sì, al Media Center c’erano due ISDN per la connessione di tutto e un mare di linee telefoniche. Avevamo un centralino con un sacco di linee dove la gente telefonava dove voleva. Gratis. E poi avevamo i cellulari.
Quindi la gente doveva chiamarti o al cellulare o sul telefono fisso e ti raccontavano cosa stava succedendo in giro per la città. Ma dovevi aspettare che rientrassero a un punto con della connessione e quindi un computer, che scaricassero il materiale foto o video e che lo pubblicassero.
Quindi per avere gli aggiornamenti in tempo reale ci voleva una persona fissa davanti al computer. E quella persona ero io! Che stavo con sette chat aperte e l’interfaccia dell’amministrazione della colonna centrale di Indymedia convogliando il mare di notizie che arrivavano di minuto in minuto.
L’unico momento in cui “rischio” di partecipare ai cortei è la mattina di sabato 21 luglio perché dopo l’omicidio di Carlo l’intenzione è quella di rispondere a tono e, dal mio punto di vista, era l’unica cosa sensata da fare. Quindi esco dal Media Center, ma mi fermo molto prima di arrivare in corteo perché prima di arrivare alle scale che portano giù (la scalinata che da via Nizza porta a corso Italia – Ndr), avevo già litigato con una ventina di persone che avevano idee diverse su come sarebbe dovuta andare la giornata. Quindi mi rendo conto che mi sarei picchiato di più con i compagni che con gli “altri”. E quindi mi realizzo che ero più utile a fare quello che stavo facendo, faccio dietrofront e torno al Media Center.

-Dov’eri durante il vero e proprio nubifragio che colpisce Genova nella notte tra il 19 e il 20 luglio?
Indovina dove!? (ride).
Essendo la nostra una struttura in muratura noi non abbiamo problemi, ma accogliamo un bel po’ di “profughi” che arrivano a un certo punto dai vari centri di raccolta dei manifestanti in giro per la città che si erano trasfromati in un mare di acqua e fango.

-Che ricordi hai della giornata del 20 luglio?
La sera prima facciamo la riunione al piano di Indy. Capiamo dove partono le varie iniziative e ci dislochiamo per seguirle coprendole tutte. Dividendoci i compiti: chi con la videocamera, chi con la macchina fotografica, chi avrebbe scritto i testi. Ognuno sceglieva il media da usare per raccontare gli eventi. Le piazze erano tutte coperte perché dentro Indy c’era gente di tutti i tipi. C’era chi era pacifista e sapeva sarebbe stato a piazza Manin. C’era chi avrebbe partecipato al corteo della Disobbedienza. Chi invece avrebbe seguito altri percorsi. Per esempio, era abbastanza scontato che da piazza Paolo da Novi sarebbe partito il “cinema”.

L’assalto al carcere di Marassi del 20 luglio 2001

-Come vieni a sapere della morte di Carlo Giuliani?
Mi chiamano i compagni che sono presenti in piazza.
Di fatto sono io che aggiorno Indy e sono io a dover dare la notizia al network internazionale.
E lì, all’inizio si diffondono le notizie più disparate. Prima quella di una ragazza uccisa perché travolta dai blindati. Poi, lentamente, i contorni della vicenda iniziano a chiarirsi.
Di fatto la notizia esce prima su Indy che sui notiziari ufficiali.
E poi mi ricordo il rientro al Media Center delle persone che erano in piazza e le reazioni sulle scale. Gente sotto shock, in preda a una rabbia incontenibile.

-Hai dei ricordi netti dell’arrivo al Media Center di qualche documento particolare o che ti ha particolarmente impressionato sulle violenze delle Forze dell’Ordine o sull’omicidio di Carlo?
No perché per come sono fatto io se c’era una cosa da fare si faceva quella.
In quel momento il lavoro di coordinamento, di aggiornamento e di verifica delle informazioni era un lavoro enorme. Quindi andava tenuta in piedi la baracca.
E c’era anche un lavoro di coordinamento politico di Indymedia. Un lavoro di coordinamento gigantesco perché c’erano un sacco di stranieri e quindi dovevi sempre tradurre. Quindi non mi occupavo dell’arrivo dei materiali.
Ero, come si diceva una volta, in autismo sul target. Ma era inevitabile perché c’era da gestire una mole di informazioni spropositata.

-Come ti vivi il corteo internazionale del 21 luglio?
Il corteo viene spaccato con cariche selvagge della Polizia che gasa e massacra sul lungomare. Noi, dalla nostra posizione privilegiata riusciamo a vedere sia la scena della manifestazione che viene spaccata e riempita di lacrimogeni che il comizio in fondo, a Marassi, sul palco. E ricordo chiaramente questa cosa. Quando i portavoce del GSF rientrano al Media Center dopo che hanno deciso di sciogliere il corteo quando erano ancora in corso le cariche. Cioè loro chiudono il comizio quando è ancora in corso l’attacco poliziesco e il massacro su corso Italia e in zona Foce. Tornano al Media Center e alcuni di noi non la prendono proprio benissimo. Diciamo che ci sono forti tensioni e si deve mettere in mezzo il servizio d’ordine della CGIL. L’accusa era quella di avere “abbandonato” la gente in strada mentre veniva massacrata. C’è in atto la caccia all’uomo e tu chiudi dal palco per paura delle conseguenze politiche di quel corteo. Dal nostro punto di vista era una mancanza di solidarietà inaccettabile.

-C’è una punta di polemica…
Su quella cosa non si sono mai fatti i conti.
Milioni di discussioni su violenti e non violenti e non su quella decisione.

-Non pensi che era in corso una cosa talmente enorme e terribile da essere impossibile da “gestire”?
Se tu dici che il corteo è concluso dici che quelli che sono rimasti in strada non sono “tuoi”. Con tutto quel che ne consegue dal punto di vista politico e soprattutto repressivo. Per me è un problema. Se tu avessi detto: “Questo è il nostro corteo, va difeso, è inaccettabile quello che sta succedendo!”, dal punto di vista degli esiti non sarebbe cambiato nulla però politicamente cambiava parecchio. Questo è il mio punto di vista, ma l’ho sempre detto!

-Tu sei presente durante il blitz poliziesco contro la scuola Diaz e contemporaneamente contro il Media Center che si trovava proprio di fronte. Che ricordi hai? Avevi sentore di quell’operazione?
Non tanto.
Il clima era molto teso. Io ho un ricordo molto nitido di quello che viene definito il prequel di quella situazione. Le Forze dell’Ordine hanno sempre sostenuto di essere intervenute in via Cesare Battisti perché erano state attaccate. Praticamente, durante il pomeriggio, con la gente che tornava tutta distrutta dalla caccia all’uomo, loro hanno la brillante idea di passare con una volante davanti alle due scuole: la Diaz e la Pertini. C’era un’auto della Digos che nessuno nota e la volante. Quando passano io sono lì e penso: “E’ finita!”. E invece, inaspettatamente, non succede nulla! Qualche insulto, qualcuno tira una o due bottiglie senza neanche beccare le macchine che sgommano e se ne vanno. Rispetto alla dimensione di quello che stava succedendo attorno a noi nelle strade di Genova sostanzialmente non succede un cazzo!

-Cercavano la provocazione?
Sì. Non l’hanno trovata, ma hanno deciso che andava bene lo stesso!
Dopo quell’episodio la situazione è molto tesa, ma lentamente, col passare delle ore la tensione scema. Noi diamo l’indicazione di andare a dormire in posti con molta gente. Di non stare in posti piccoli. Tanti li abbiamo mandati al Carlini o in altri centri sportivi. E’ vero che era un rischio, ma in caso d’irruzione era più “controllabile”. Immaginare un’irruzione armata in un posto con migliaia di persone è molto più complicato che in uno con qualche decina. Il materiale che abbiamo lo facciamo sparire. Esce un famoso zaino pieno di materiale video, foto e hardisk.

-A un certo punto arrivano. Tu dove ti trovi?
Io sono in mezzo alla strada!
Perché avevo finito di fare il lavoro di coordinamento di Indy e mi occupavo del coordinamento e organizzazione degli spazi e quindi davo indicazioni alla gente.
Tant’è che quando vedo la Polizia arrivare e fare lo schieramento per caricare prendo la gente e urlo: “Dentro, dentro, barricatevi!” compreso Sky, il ragazzo di Indy che poi verrà massacrato in mezzo alla strada. La gente si chiude dentro la Diaz, io chiudo il cancello col lucchetto e mi fiondo dentro il Media Center, che aveva un ingresso sotto il livello stradale, chiudo la porta e la barrico. Mentre stiamo barricando ci accorgiamo che c’è un ragazzo fuori, credo si chiamasse Sebastian, e lo tiriamo dentro dalla finestra. Lui riesce a scappare, con la schiena già piena di ferite di manganellate mentre Sky rimane in mezzo alla strada e viene picchiato selvaggiamente. Noi riusciamo a barricare, ma siamo talmente geniali dal punto di vista militare che ovviamente la Polizia entra da una porta laterale…
Loro entrano, ci tirano addosso le cattedre, ci danno qualche legnata e ci piazzano in palestra faccia a terra. Poi spaccano tutto quello che trovano sui piani e prendono la gente che incontravano e la fanno mettere lungo i corridoi con la faccia al muro.
Il ricordo più nitido comunque sono le grida della gente della Diaz. Noi siamo sdraiati per terra e sentiamo, da pochi metri di distanza, le persone massacrate di botte. E tu non puoi fare nulla.
Da noi non entra il VII Nucleo di Canterini, ma entrano altri.

-La Polizia che irrompe dentro il Media Center distrugge praticamente tutto il materiale audio, video e informatico che trova sul suo cammino. Secondo te era una scelta lucida e voluta? Temevano che saltassero fuori delle prove contro di loro?
Da noi entra un nucleo molto più piccolo di agenti rispetto alla Diaz. Secondo me avevano l’ordine di impedire che qualcuno iniziasse a filmare o documentare quello che stavano facendo dall’altro lato della strada. Ma anche in questo non riescono perché un ragazzo straniero di Indy riesce ad andare sul tetto, nascondersi e filmare l’irruzione alla Diaz. Loro già si erano sputtanati con il fatto che la gente uscisse in barella massacrata dalla scuola. Ma non uno o due! Decine e decine di persone! Ma poi, quando escono le riprese dell’inizio del raid risulta evidente che loro non sono entrati per recuperare materiale e perquisire, sono entrati per massacrare.
Comunque, tornando a noi, a un certo punto i poliziotti entrati al Media Center se ne vanno. Forse avevano completato l’opera non so. Onestamente, noi ci siamo presi un po’ di manganellate, ma non è neanche minimamente paragonabile a quello che viene inferto a chi stava dentro alla Diaz. Quindi noi riusciamo a uscire e andiamo sotto al cordone di Carabinieri che bloccava l’ingresso alla scuola scandendo: “We whole world is watching!”. In quel momento Agnoletto e gli altri non erano ancora arrivati. Una situazione tesissima. Mi ricordo io e C1 che prendiamo un polacco enorme e lo dobbiamo immobilizzare a terra perché si sarebbe lanciato contro un cordone di decine di Carabinieri. E lì non è che ci siamo messi a pensare: “Facciamogliela pagare! Che cazzo gli fai pagare!?”. La priorità era il soccorso ai feriti e riuscire a sbloccare l’ingresso alla scuola.
Quindi è chiaro che la Diaz è una vendetta. Loro hanno fatto una figura di merda epocale nella gestione dell’ordine pubblico e quella è una vendetta. Secondo me loro hanno scelto la Diaz perché dentro c’erano poche persone, tendenzialmente non organizzate. Quindi era meno rischioso per loro. In altri posti avrebbero incontrato una resistenza molto più tosta. Tant’è che le vittime alla fine sono un centinaio. Quindi centinaia di agenti contro pochissimi manifestanti. Comunque anche questa vicenda dimostra la loro pochezza. Perché se vuoi fare un’operazione di Polzia in cui ti sfoghi non la fai davanti al luogo dove ufficialmente vengono fatte le riprese di quelle giornate!

-Tu, se non ricordiamo male, rimani a Genova nei giorni successivi al G8. Per fare cosa?
Quasi. In realtà il giorno dopo, dopo aver dormito quasi niente, prendo il treno per tornare a Milano. Vado in Pergola, dove tutti quanti insieme avevamo messo in piedi un convergence center per capire cosa fare. Lì inizio a sentire alcune discussioni, che nello shock del giorno dopo, di stomaco, potevano anche essere comprensibili, su “buoni e cattivi, violenza e non violenza” e, per il mio caratterino, sbrocco e me ne torno a Genova. Mi metto a lavorare con quei pochi rimasti giù, tra cui alcuni avvocati. Io, se non ricordo male, dormivo a casa di Megu. Sono rimasto lì praticamente tutto agosto. Seguivamo le persone in carcere, andavamo a trovare quelli in ospedale: Sky, Lena, Federico, Manfredi, Nils… Tutta gente che era stata conciata talmente male che aveva delle prognosi che non gli consentiva di tornarsene a casa. Il tutto in un clima surreale perché a Genova praticamente c’eravamo solo noi e gli sbirri. Tu giravi di sera e tutti zitti. Vedevi solo pochi balordi come noi e le volanti della Polzia. Quindi passi da giornate in cui Genova era piena di energie eplosive, in tutti i sensi, a una città spettrale. Ed è veramente una dissonanza emotiva e cognitiva fortissima. C’erano diversi compagni di Genova, come Matteo Jade, con cui si cercava di distendere la situazione e capire cosa fare. Ma anche dei compagni di Genova tanti se n’erano andati perché il trauma era enorme per tutti.

-Tu hai fatto parte del Supporto Legale che negli anni ha affiancato avvocati e imputati durante i lunghissimi processi per i fatti del G8. Come nasce quella struttura?
Intanto non è una struttura, ma è un collettivo. Questo è importante. Durante le giornate del G8 c’è il Genoa Legal Forum che sono gli avvocati che si danno disponibili a seguire le persone legalmente durante il vertice. Dopo Genova, quando è già chiaro che ci saranno delle conseguenze in termini di repressione, si inizia a fare il lavoro legale come le istanze di scarcerazione e simili. Subito dopo il GLF trova una sede in via San Luca, dove c’era un’associazione genovese, è lì viene messa in piedi la Segreteria Legale dove c’era Carlo e pochi altri, che si rende disponibile a raccogliere il materiale. Poi cosa succede? Nel 2002 avvengono una serie di perquisizioni e sequestri in vari centri sociali che vengono identificati come sedi in Indymedia per trovare altro materiale video (le perquisizioni sono del 20 febbraio 2002 – Ndr). E va detto che non è che la Procura non ne avesse di materiale video! Perché i solerti cittadini genovesi avevano già ampiamente contribuito a costruire un bell’archivio documentale della Procura insieme alle telecamere dei Vigili Urbani, della Digos, dei giornali, dei telegiornali… Ma questa è una scelta politica della Polizia, quella di cercare di ottenere anche i video dei manifestanti e in parte li ottengono. Al Tpo vengono sequestrati dei video che erano serviti per la comunicazione alternativa. In seguito a questo episodio che è uno shock pazzesco per la rete che sta dietro a Indymedia ci si rende conto che la Procura di Genova sta mettendo in piedi un sistema coordinato molto grosso per costruire un capo d’imputazione corposo nei confronti dei manifestanti. E quando questa cosa si sa ufficialmente, attorno all’udienza preliminare contro i 25 manifestanti arrestati nel dicembre 2002 e accusati di devastazione e saccheggio, viene chiesta a Indy una mano da parte di Carlo e dagli avvocati, per gestire la quantità sconsiderata di materiale relativo al processo. Come Indymedia ci sembra chiaro che dobbiamo gestire questa cosa e quindi un gruppo di persone si trasferisce a Genova e inizia a fare questo lavoro di analisi e catalogazione di tutto questo materiale. Per capirci… Stiamo parlando di decine di migliaia di foto, centinaia di ore di girato, centinaia di migliaia di pagine di atti. E quindi, per quasi due anni, viviamo giorno e notte all’interno di questo spazio in via San Luca. All’inzio è un gruppetto di compagni di Indymedia, ma di fatto era un lavoro totalmente assorbente, non vivevamo più. Quindi andavano fatte delle scelte che non potevano aspettare i tempi della discussione collettiva della rete di Indy che era di 700 persone. Quando c’è un processo vanno fatte delle scelte rapide. Quindi Supporto Legale diventa un progetto autonomo. E anche lì poniamo delle condizioni politiche: che si difendessero tutti, che non ci fossero divisioni tra buoni e cattivi. La condizione viene recepita e iniziamo a lavorare. Va detto che gli imputati non hanno mai avuto un collettivo di imputati quindi noi eravamo una sorta di “cane da guardia” su questa questione. Siamo riusciti a salvare tutti? Purtroppo no. Ma è anche merito della Segreteria Legale se si è riusciti a non far condannare tutti. Infatti dopo la sentenza di primo grado c’è uno iato in cui noi continuiamo a organizzare manifestazioni a Genova in modo che non venga dimenticato che ci sono persone che stanno pagando per tutti e che se non ci sarà una presenza forte dei movimenti le sentenze saranno ancora più dure. Passiamo dall’essere un soggetto politico che si interfaccia con gli avvocati a un soggetto che organizza e coordina la soldiarietà attiva quindi: le manifestazioni e le raccolte fondi. Da lì quindi l’organizzazione della gigantesca manifestazione a Genova del 17 novembre 2007 “La storia siamo noi” in cui sfilarono 100.000 persone fino al passaggio finale dell’aiuto concreto ai detenuti che continuiamo fino ai giorni nostri. Supporto Legale è questa storia qua. Non penso ci siano molti altri collettivi che possono raccontare una storia simile cioè collettivi che si fanno carico della solidarietà complessiva di persone che stanno pagando per tutti. Di solito ogni area si gestisce i suoi processi. Ogni gruppo ha il suo supporto. In qualche modo la vicenda di Supporto è un unicum.

-Riesci a fare il punto della situazione giudiziaria dei manifestanti?
Jimmy è in affido, Marina gli hanno tolto la sorveglianza speciale poco fa, Vincenzo è in Francia con la spada di Damocle dell’estradizione e Luca è ritornato in carcere in queste settimane. Lui era in affido in comunità e con una scusa gliel’hanno fatto togliere e deve scontare ancora un anno. Nel numero di Zapruder c’è una sua lettera che racconta tutta la sua vicenda. Poi c’è anche Alberto di Radio Onda Rossa che si è scontato il suo carcere. Altri hanno avuto sentenze più leggere, per modo di dire, che tra carcerazione preventiva, indulto e domiciliari hanno scontato così.

-Due dei più grossi successi delle difese dei manifestanti nei processi per i fatti del G8 sono la scoperta che la Polizia aveva costruito delle false prove (sia le molotov che le armi improprie) per incastrare i massacrati della Diaz e il fatto che la prima carica al corteo della Disobbedienza da parte del Battaglione Lombardia dei Carabinieri fosse partita senza alcun motivo e che i Carabinieri avessero utilizzato durante le cariche delle armi improprie. Che ruolo ha Supporto Legale in queste acquisizioni?
E’ evidente che noi ci siamo occupati soprattutto del processo sui manifestanti, ma per forza di cose seguiamo anche i processi della Diaz e di Bolzaneto. E siamo noi, insieme alla Segreteria, che troviamo la prova determinante per il processo della Diaz: il sacchetto con dentro le due molotov, che trovano su corso Italia nel pomeriggio di sabato 21 e che, passando di mano in mano, portano dentro alla scuola come grande scusa per giustificare il massacro. Non bastava che avessero saccheggiato il cantiere della scuola in ricostruzione per fare la loro bella esposizione di armi improprie durante la conferenza stampa in Questura. Le molotov erano il pezzo forte! Ma anche questo li sbugiarda e diventa chiaro che è un’operazione costruita a tavolino. C’è il filmato dei funzionari che entrano alla Diaz col sacchettino blu. Non è che loro da dentro lo portano fuori. Da fuori lo portano dentro! E comunque, dal lato Forze dell’Ordine, al massimo, abbiamo avuto dei rallentamenti di carriera per le condanne. Ai nostri hanno distrutto la vita. Dieci anni di carcere sono un’eternità! Forse la gente non si rende conto. Non sono solo parole! Cinque persone che hanno pagato per tutti. Cinque persone che avrebbero potuto essere tranquillamente ognuno di quelli seduti a questo tavolo e con noi migliaia e migliaia di altri. E’ inaccettabile!

-Non pensi che paradossalmente il G8, pur essendo uno degli eventi più filmati della storia umana, per chi non era in quelle strade risulti difficile capire fino in fondo quello che è accaduto? Come la distanza siderale tra chi è stato in guerra e chi no?
Secondo me solo in parte.
Secondo me quello che è accaduto è abbastanza chiaro. In alcuni suoi aspetti è abbastanza storicizzato. Cioè il fatto che sia stato un momento di grande scontro. Purtroppo penso siano storicizzati anche alcuni elementi su cui non c’è stata alcuna riflessione e che sono diventati la retorica dominante su quei momenti. Del tipo: “Gli scontri sono stati colpa dei cattivi e della Polizia!”. Questa è una visione mainstream, ma è una visione consolatoria che non si fa carico del significato più profondo di Genova. Genova è stato un momento in cui c’erano 300.000 persone disposte ad andare in piazza in modo totalmente diverso e accettando le differenze degli altri. E c’era una potenzialità di conflitto e di forme di conflitto enorme. E anche la capacità di coinvolgere nel conflitto un mare di persone che non facevano parte dei percorsi organizzati. Su quello potevi costruire. Su quella sensazione di forza ed energia. E di fatto, ci hai costruito la politica dei movimenti sociali dei quattro anni successivi. Ma di fatto, invece che costruire per far crescere quell’onda di partecipazione l’hai dilapidata lentamente un po’ appoggiandoti su percorsi e meccanismi già noti. Quello che manca nella narrazione di Genova è quanto fosse potente e ricco il conflitto messo in campo. La gente, soprattutto il sabato, è scesa in piazza sapendo che ci sarebbero potuti essere degli scontri e non erano tutti militanti! C’era un momento di egemonia culturale dei movimenti su una fetta consistente della società che invece che essere potenziata è stata consumata per costruire la politica degli anni successivi senza portare a casa vittorie. E parlo anche di noi! E’ come se avessimo avuto una riserva di energia da cui attingevamo, ma che non rifornivamo mai. Perché rifornire quell’energia avrebbe voluto dire affrontare le discussioni su Genova. E invece Genova è stata messa in un limbo un po’ rimosso con due o tre parole chiave. Alcune anche assolutamente non condivisibili come quella degli infiltrati.

-Cosa ti hanno lasciato, vent’anni dopo, le giornate di Genova?
Che l’orizzonte dell’autodeterminazione della vita delle persone si possa praticare. Se l’abbiamo fatto noi può farlo anche qualcun’altro. In altri tempi e in altri luoghi. Genova, in questo, è un manifesto del possibile.
Infatti la grande differenza tra la nostra generazione e quelle che vedo oggi è proprio la possibilità che noi abbiamo avuto di sperimentare l’autogestione delle nostre vite. Del considerare l’autogestione un elemento fondante. Cioè discostarsi dallo schema già predefinito scuola-lavoro-famiglia-pensione. I giovani dell’oggi non possono discostarsi da questo modello, prendere una strada alternativa. I percorsi sono già preconfezionati. Ma questo non è colpa delle nuove generazioni! Io ci vedo più colpa nostra. Non vedo l’ora di essere sorpreso da traiettorie inaspettate. E’ la cosa più bella per chi fa politica. Ritrovare la tua eredità dove non te l’aspetti e senza che tu ne faccia parte. E’ anche l’onda lunga di relazioni e azioni politiche nate in quelle giornate che mi ha dato la possibilità di girare per il mondo nei posti più improbabili, ospitato da gente simile a me da San Francisco alla Palestina all’Argentina. Adesso sembra banale perché in un secondo sei connesso a tutto. All’epoca non era così. E oggi sei connesso a tutto, ma sei connesso da un filo che è cosparso di soldi. Vai ovunque e ti prendi un Airbnb, vai dappertutto e usi i social degli altri, ti sposti e fai esperienza con asssociazioni finanziate da fondazioni. Non è la stessa cosa del fare esperienza vivendo insieme a loro, quelli che vivono tutti i giorni quelle situazioni. Ma ovviamente non è solo una colpa nostra, c’è anche chi era contro di noi. La storia è dialettica!

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