Milano: non è tutto ora ciò che luccica

Prosegue il dibattito lanciato da Milano in Movimento su Milano con un intervento di Andrea Fumagalli su lavoro/composizione/conflitto nella metropoli milanese.

Non è facile parlare di Milano. Nell’immaginario italiota e in parte internazionale, grazie alle politiche di marketing territoriale, attivate da Expo2015, Milano rappresenta un’avanguardia, al pari di metropoli come Barcellona, Monaco, Parigi, Amsterdam e Berlino. Tutto ciò non deve stupire. Nell’area metropolitana milanese, infatti, sono concentrati i settori della produzione immateriale a maggior valore aggiunto (e profittabilità).

Secondo i dati della Camera di Commercio di Milano, la quota di addetti che nell’area metropolitana opera nel comparto manifatturiero è di poco superiore al 17%. Si tratta della stessa quota che ha il solo settore dei servizi avanzati all’imprese. Se poi aggiungiamo altri servizi avanzati, quali i sevizi di informazione e comunicazione (8,4%), i servizi finanziari e assicurativi (3,5%) e le attività professionali, scientifiche e tecniche (6,4%), abbiamo che il cosiddetto terziario avanzato, adibito a produzioni immateriali che non dipendono direttamente dalla produzione fisico-tangibile, è composto da un quota di addetti pari al doppio dell’intero manifatturiero. Se poi consideriamo anche i sevizi di cura che nelle statistiche locali, non hanno ancora una valutazione autonoma, ma rientrano nella più generale voce “Altri servizi” e che possiamo stimare intorno al 3,5%, se ne deduce che la composizione del lavoro milanese, a differenza di altre aree del paese, è fortemente rivolta alla produzione intangibile. Inoltre, il comparto del terziario materiale (commercio e grande distribuzione, trasporto e magazzinaggio, ristorazione e alberghi) raggiunge una quota di circa il 33%. Ne consegue che l’occupazione milanese è parimenti suddivisa su tre direttrici: poco più di un terzo nell’immateriale, un terzo nei servizi legati alla merce, e il resto suddiviso tra manifattura, costruzione, pubblico impiego e agricoltura.
Per quanto riguarda i servizi di informazione e comunicazione e le attività professionali, Milano da sola detiene rispettivamente il 30% il 25% dell’occupazione complessiva del settore in Italia.

L’immagine che ne scaturisce è quindi quella di una realtà economica e occupazionale rivolta ai settori più innovativi del nuovo millennio: una città che guarda al futuro, più simile alle grandi metropoli europee che alla provincia italiana.

A ciò aggiungiamo la narrativa, nata qualche anno fa, che fa di Milano la capitale dell’innovazione sociale, con il più alto numero di co-working e la riqualificazione smart della città, con processi di “gentrification” creativa in alcuni quartieri dove si condensano prevalentemente attività legata al design, alla moda, all’informatica, ecc.

Ma questa patina luccicante spesso nasconde una realtà assai diversa.
Milano infatti presenta una delle maggiori concentrazione nella distribuzione del reddito in Italia. Secondo i dati relativi alle dichiarazioni dei redditi, raccolti dall’Ufficio Statistico comunale, nel 2013 (ultimo anno disponibile), il 6,7% dei contribuenti dichiarava un reddito superiore ai 75.000 euro, per una ricchezza complessiva pari a 35% del totale, mentre il 66% per cento dei contribuenti deteneva redditi imponibili inferiore a 26.000 euro l’anno e circa un quarto (il 25,9%) inferiori a 10.000 euro lordi l’anno.

Considerando che a livello individuale, tale livello è prossimo alla soglia di povertà relativa, ne consegue che a Milano la povertà risulta maggiore che a livello nazionale ed è di poco superiore a un quarto della popolazione che presenta una dichiarazione fiscale (e quindi inserita in un contesto lavorativo). Si tratta di un dato non paragonabile all’indice di povertà, poiché non si riferisce all’intera popolazione residente, ma è indicativo del fatto che a Milano è più diffusa che altrove la condizione di chi, pur ottenendo un reddito da lavoro, usufruisce di un potere di pesa inferiore o pari alla soglia di povertà.

Ne consegue che la condizione di povertà interessa sempre meno i soggetti tradizionalmente considerati poveri (i disoccupati e gli anziani con pensioni molto basse) ma sempre più coloro che sono all’interno del mercato del lavoro.

Secondo l’ultima indagine della Caritas Ambrosiana, relativa a 2017, tra coloro che fanno ricorso all’Associazione, una persona su due non riesce a uscire dalla povertà e quindi è costretta a chiedere un aiuto ai centri di ascolto per più anni di seguito, mentre prima della crisi nel 2008 era uno su tre. Costoro chiedono integrazione al reddito e aiuti alimentari. È una situazione sempre più grave che ha colpito in modo particolare molti italiani, pensionati e soprattutto i più giovani.

Questi dati ci descrivono una situazione assai grave, caratterizzata da una precarietà crescente, oramai strutturale, che alimenta il perverso ciclo della trappola della precarietà. Ci sarebbero quindi tutte le condizioni perché si sviluppino spinte conflittuali: da un lato, una realtà economica relativamente ricca (ricordiamo che il conflitto tende a svilupparsi nelle fasi di espansione economica, seppur relativa), dall’altro una distorta distribuzione di tale ricchezza. Perché allora Milano appare relativamente pacificata e gli ambiti di movimento sono più impegnati a sopravvivere che a sviluppare azione critica?

Tre sono forse i fattori che possono spiegare questa situazione, acuita anche dal fatto che nei momenti di minor conflitto le realtà antagoniste tendono a individualizzarsi e a frammentarsi appunto in una logica di pura sopravvivenza.

Il primo fattore ha a che fare con quei dispositivi sociali che oggi hanno aumentato il grado di ricattabilità individuale e il senso di impotenza: faccio riferimento alla precarietà esistenziale e al ruolo crescente svolto dall’indebitamento individuale. Il ricatto economico e esistenziale sono oggi armi potenti che si aggiungono al disciplinamento sociale di derivazione fordista e vengono potenziate dall’individualizzazione della condizione lavorativa.

A questa situazione, si aggiunge l’egemonia di immaginari che sulla prospettiva della realizzazione individuale a scapito altrui impone l’obbligo a prestazioni sempre più invasive, all’accettazione di condizioni lavorativi e salariali sempre peggiori in nome o della promessa (economia della promessa) e/o dell’illusione di “riuscire”.
In una recente ricerca, sulla percezione della precarietà a Milano emerge una chiara differenza generazionale tra i precari di I° generazione, protagonisti delle lotte della MayDay e oggi disillusi e troppo presi dalla lotta per la sopravvivenza, e i precari di II° generazione, per i quali l’interesse verso il lavoro e l’idea di una propria realizzazione tramite esso, è molto scemata sino a individuare altri obiettivi di vita. La necessità di reddito viene risolta con il ricorso, saltuario, al “lavoretto”, il che è possibile a Milano (e non altrove) ma porta anche al disimpegno nel conflitto relativo alla stessa condizione lavorativa.

In questa complessa situazione di variegate soggettività, si aggiunge, infine, il terzo fattore: la repressione. Nel momento stesso in cui faticosamente si mettono in moto esperienze alternative di cooperazione sociale, produzione e di vita, spesso costrette all’illegalità, ecco che immancabilmente scatta l’intervento cd. di “ordine pubblico”. Si palesa così la contraddizione politica che oggi caratterizza Milano. Da un lato, la Milano istituzionale e progressista che vuole promuovere l’innovazione sociale, la riqualificazione delle periferie, dall’altro l’assoluta incapacità di comprendere e quindi dialogare con questi processi di autorganizzazione dal basso nel campo del welfare, della produzione e della cultura.

E’ qui che si gioca la partita. La tematica del Welfare, ovvero del “buon vivir”, è oggi al centro della dialettica capitalistica: da un lato, modo di produzione e nuovo business economico (dalla sanità, all’istruzione, alla gestione delle migrazioni e dei poveri,…), dall’altro nuovo ambito di ricomposizione sociale e di sperimentazione dal basso.
Ma su questo torneremo.

Andrea Fumagalli (Effimera.org, Bin-Itali.org)

 

Nelle puntate precedenti…

I 50 sgomberi (ma forse ce ne siamo dimenticato qualcuno…) nell’era del centrosinistra a Milano“

Allo stagno preferiamo il torrente” – Apriamo un dibattito a/su/per Milano

“Tavoli senza gambe” – Breve storia del tavolo comunale sugli spazi

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *