“Confindustria nella Repubblica”, quando per difendere il privilegio ogni mezzo è buono
“Ciascuno deve stare al suo posto.
La Polizia a reprimere, la magistratura a condannare,
la stampa a persuadere la gente a pensarla come vogliamo noi.
Tutti in fondo stanno facendo il loro dovere.
Sono gli operai che non stanno al gioco.
Non lavorano abbastanza, se ne fregano, vogliono sempre soldi!
Non riusciamo a rialzare la produzione, questo è il vero guaio!”.
(Sbatti il mostro in prima pagina, 1972)
Apriamo questa recensione libraria con una citazione cinematografica a nostro parere abbastanza esplicativa del contenuto dell’opera di Elio Catania Confindustria nella Repubblica (1946-1975) (Mimesis).
Prima di addentrarci nelle 357 pagine della pubblicazione è buona cosa per noi smettere i panni dell’osservatore oggettivo e super-partes. Conosciamo da anni l’autore e ci è capitato di fare importanti tratti di strada con lui nella politica di movimento a Milano. Inutile quindi fingerci disinteressati o equidistanti. Ma del resto, come già scritto più volte, se c’è un aspetto che caratterizza MilanoInMovimento è il suo essere partigiano.
A questa excusatio non petita aggiungiamo due ulteriori osservazioni che, seppur cronologicamente lontane dal periodo preso in esame nel libro, ci sembrano mettere bene in evidenza come, nei fatti, di fronte a un mondo completamente cambiato Confindustria non sia mutata affatto. La prima riguarda la posizione degli industriali a inizio pandemia, tra la fine di febbraio e il marzo 2020, quando la necessità di decidere il lockdown e salvaguardare la salute dei cittadini si è scontrata con dure resistenze da parte del mondo datoriale di cui resteranno incancellabile testimonianza per i posteri alcune vergognose dichiarazioni a mezzo stampa. La seconda, freschissima di questi giorni, è l’ennesima lagna del Presidente di Confindustria, il falco Bonomi, che di fronte alla prospettiva di alzare gli stipendi dei lavoratori, fermi da 30 anni e tra i più bassi d’Europa, per far fronte all’inflazione ha messo in campo tutto l’armamentario scenico e retorico dell’abituale piagnisteo padronale. Confindustria, insomma, continua a perseguire sempre gli stessi fini: la salvaguardia, costi quel che costi, degli interessi di pochi a discapito delle vite di molti.
Il libro di Catania è un’opera coraggiosa e piuttosto rara nel mercato editoriale italiano – perché, come afferma nell’introduzione Aldo Giannuli, di opere sulla storia degli industriali italiani che non siano apologetiche o agiografiche ce ne sono assai poche – e attinge da una mole consistente di interessanti fonti giudiziarie e d’archivio, attraversando molti decenni partendo addirittura dagli albori dell’associazione degli industriali, passando per il fascismo e arrivando all’Italia repubblicana.
Il primo elemento che emerge a proposito degli industriali italiani è la continuità nel trasformismo di gattopardesca memoria. Con continui giri di valzer, i padroni cercano il partner più affidabile nel dato momento storico che possa tutelare al meglio i loro interessi. Del resto, la continuità non è un elemento peculiare solo per Confindustria, ma per quasi tutti gli apparati dello Stato italiano che passano dal regime alla repubblica senza scomporsi troppo.
Il secondo elemento centrale è il continuo flirtare, per usare un eufemismo, con gli ambienti peggiori della destra neofascista ed eversiva in funzione anticomunista. E non si tratta solo di anticomunismo. Se è vero che l’anticomunismo è un mastice fortissimo, anche la nascita del centrosinistra nei primi anni Sessanta, con l’ingresso del PSI al governo, era visto da alcuni come fumo negli occhi e da altri addirittura con terrore, tanto che molti industriali tra i più oltranzisti parlavano di rischi di sovietizzazione o di derive jugoslave… Inutile ricordare che alla fine i socialisti entrarono nel governo con la DC e l’Italia non divenne sovietica. Fu anzi difficilissimo varare alcune minime riforme di civiltà, proprio per l’opposizione degli industriali e della parte più conservatrice del Paese. Bastano queste paure relative all’ingresso dei socialisti al governo a far capire come qualsiasi fattore che potesse mettere minimamente in discussione i profitti e i privilegi dei soliti noti per redistribuire qualche briciola a chi stava sotto fosse visto con stizza da chi aveva le leve del comando economico.
Come dicevamo, nel libro emerge una certa contiguità e internità di settori di Confindustria ad alcune trame eversive di destra. Quanto questo fosse dovuto alla volontà di tenersi le mani libere giocando su diversi tavoli qualora la Democrazia Cristiana non fosse più stata capace di garantire stabilità e quanto invece certi ambienti industriali fossero realmente convinti della bontà di certe ipotesi golpiste (del resto ampiamente diffuse in tutta l’Europa mediterranea) resta difficile da comprendere. È come trovarsi di fronte a un complicato gioco di specchi in cui non si riesce a capire quale sia l’immagine originale. Questo anche perché Confindustria, pur essendo unita e granitica nella difesa degli interessi dei pochi, non era un soggetto monolitico, ma anzi era caratterizzata da dialettica interna e posizioni diversificate.
Confindustria, insomma, a ogni momento di svolta minimamente progressista del Paese è sempre stata costantemente dall’altra parte della barricata, pronunciando una serie continua di no. E per farlo si è servita di ogni mezzo possibile, dalle lobby alle strategie meno confessabili.
Il momento di svolta, nel quale il libro si conclude, viene giustamente visto nell’accordo del 1975 tra il Presidente di Confindustria Gianni Agnelli e il leader della CGIL Luciano Lama sul punto unico di contingenza. In questo modo l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione diveniva comune a tutti i lavoratori e lavoratrici.
Molti, in seno al mondo industriale, videro in questa scelta un inaccettabile cedimento alle pretese operaie, ma si sbagliavano. Di fronte al cambiamento dello scenario internazionale con il crollo delle dittature fasciste nell’Europa meridionale e con la fine degli scossoni eversivi da destra, in Italia il quadro politico cambiava completamente e questo lungimirante accordo serviva a garantire al padronato un calo della conflittualità nel mondo del lavoro. Una conflittualità che era stata incessante dal 1969. Questa tregua nelle lotte avrebbe consentito al padronato italiano di recuperare forze, margini e intelligenza per la grande battaglia che si sarebbe svolta alla FIAT nell’autunno 1980: lo scenario italiano di una più complessiva guerra controrivoluzionaria vincente giocata dal capitalismo internazionale in tutto il globo. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Insomma, per chi è interessato agli intrecci tra economia e politica in quello che è il gioco del vero potere, un libro da leggere.
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