L’intuizione del NoExpo Pride
Il NoExpo Pride nasceva già nel 2014 partendo da un ragionamento su due elementi:
–L’apertura di una cosiddetta “gay street” in via Sammartini, un tempo malfamatissima zona di fianco a Stazione Centrale.
–L’abusata retorica sul ruolo della donna all’interno della società legato allo slogan dell’Esposizione Universale “Nutrire il pianeta, energia per la vita”.
A questo si aggiungeva anche la riflessione sul progressivo svuotamento di contenuti radicali e di lotta in atto nel Pride sussunto e mercificato dai giganteschi (e peggiori) brand del capitalismo globale all’epoca tutti intenti, per amor di denaro, a mostrarsi aperti e inclusivi per poi rapidamente riposizionarsi con triplo carpiato con doppio avvitamento a fianco di Donald Trump (il più grande portabandiera dell’ondata reazionaria in corso a livello globale) al suo secondo mandato presidenziale.
Nel suo documento politico il NoExpo Pride scriveva con chiarezza e con una certa preveggenza:
Un esempio è l’azione di ‘ripulitura’ dalla microcriminalità del centro città, come via Sammartini, mettendo in atto politiche securitarie e di controllo, per poi colorarle di rainbow: telecamere, chiusura del traffico e militarizzazione permanente vorrebbero permettere al turismo omosessuale di Expo di trovare in quella via un ghetto protetto in cui spendere e spandere. Con l’intento – dichiarato – di puntare a incrementare le cifre del turismo omosessuale, questo mercato “pink” ha un target commerciale che è un gay maschio, bianco, cittadino occidentale, borghese e non parla alla grande maggioranza dei soggetti lgbtqi, che vivono una quotidianità di oppressione, marginalizzazione ed espulsione dal mercato del lavoro e non rientrano nell’immaginario accettabile del gay frivolo, festaiolo, alla moda e spendaccione.
La firma di Giuseppe Sala, commissario unico di Expo, sulla carta dei diritti presentata dal Unar, da molti salutata come una conquista, è in realtà funzionale a tutto questo: inglobare, mercificare e normalizzare la portata potenzialmente rivoluzionaria dei nostri corpi, dei nostri desideri e delle nostre lotte in quanto soggettività lgbtqi e ricondurla all’interno di logiche di profitto e oppressione.
Oltre a tutto questo, Expo2015 mette in campo l’immancabile retorica sul ruolo della donna.
“Nutrire il pianeta, energia per la vita” è lo slogan di Expo. E chi può ricoprire questo ruolo se non La Donna?
Women for Expo è la “quota rosa” che, attraverso campagne pubblicitarie, propone l’immaginario di una donna che può trovare il proprio posto in Expo come imprenditrice, tramite bandi e progetti dedicati, ma soprattutto come madre, in quanto “naturalmente” votata al prendersi cura, al cullare e al “nutrire il pianeta”. Questa campagna mediatica è volta ad imporre due modelli proposti come positivi ed esemplari di una realizzata ed effettiva emancipazione delle donne: la madre della vita e della terra, naturalmente predisposta alla condivisione, all’altruismo e al nutrimento; la donna imprenditrice, la cui emancipazione si manifesta esclusivamente nel “tirare fuori le palle”. La richiesta di centralità e partecipazione delle donne viene strumentalizzata per relegarci, ancora una volta, nei ruoli culturalmente imposti: l’eterosessualità obbligatoria, la famiglia, la cura, la maternità e l’ambito domestico, dove sappiamo bene che avviene il 90% della violenza maschile sulle donne.
Expo è un progetto che normalizza la condizione di oppressione delle donne, infiocchettandola come fosse qualcosa da accettare e addirittura esaltare.
Il primo momento pubblico di mobilitazione fu la Gaia Passeggiata del 17 maggio 2015.
A meno di un mese dal Primo Maggio e dai suoi strascichi, in una città dove i margini di agibilità politica erano ancora drammaticamente chiusi si riuscì a riprendersi Piazza Duca d’Aosta.
Questo il racconto della giornata:
Piazza Duca d’Aosta, finalmente aperta dopo lunghi anni di lavori, è abbagliante nel sole ancora caldissimo delle sei del pomeriggio ed è in questa luce abbacinante che la rete No Expo Pride si è data appuntamento nella giornata mondiale contro l’omotransfobia. Un grande striscione viola ricorda lo slogan del No Expo Pride: “vogliamo una città frocia, non una vetrina gay per Expo” e di fronte ad esso, tra gli sguardi incuriositi dei passanti e dei migranti che affollano la piazza, molte persone si truccano a vicenda, in un turbinio di piume, paillettes e colori. La rete No Expo Pride aveva annunciato che avrebbe attraversato le strade della città con attitudine favolosa e i preparativi sono già parte di questo percorso: truccarsi, s/vestirsi, draggarsi all’aperto significa già uscire dallo spazio privato e solitario della propria casa, specchiarsi nelle altre e mettersi, letteralmente, in piazza.
(…)
Queste parole sono state immediatamente messe in pratica con una “gaia passeggiata” verso Zara (classicamente una zona ritenuta piena di prostituzione): più di 150 tra donne baffute, uomini in calze a rete, vamp, tomboy, dominatrici in lattice e molti glitter hanno sfilato tra gli sguardi incuriositi e spesso sorridenti dei passanti, dei residenti affacciati alle finestre e degli automobilisti. Passando sotto il palazzo della Regione sono state ricordate le sue iniziative omofobe e nel corso di tutta la passeggiata è stata rilanciata la giornata del 20 di giugno in cui il NoExpo Pride sfilerà per le strade di Milano.
Avrebbe poi seguito, un mese dopo, il NoExpo Pride vero e proprio che il 20 giugno sfilava da Stazione Centrale e passando per via Padova avrebbe raggiunto il Parco Martesana.
Pur senza numeri oceanici le più di cinquecento persone in piazza erano comunque un successo nel clima plumbeo da “traversata del deserto” del post Primo Maggio, ma soprattutto, quella piazza era capace di far balenare, per un pomeriggio, i temi che sarebbero diventati quelli portanti della nuova ondata femminista che sarebbe esplosa con Non Una Di Meno a poco più di un anno da quel giugno 2015.
* foto in copertina Andrea Parapini
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