La Resistenza dei curdi contro il terrorismo di Erdogan
Con una mossa inquietante simile a quella del presidente russo Vladimir Putin in Ucraina, Recep Tayyip Erdogan ha invaso il territorio dell’Iraq per continuare l’eliminazione del popolo curdo e della sua storia, fortemente e storicamente legata ai territori di Iraq, Iran, Siria e Turchia.
La più grande preoccupazione per il Presidente turco è proprio la presenza culturale, storica, identitaria e politica dei curdi, non solo all’interno dei confini della Turchia – in cui i curdi costituiscono il 18% della popolazione – ma anche oltre.
I curdi da secoli prosperano su quelle terre; soggetti a molte invasioni straniere, rifiutarono di assimilarsi con i loro vari conquistatori e mantennero la loro cultura distintiva. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, con il ridisegnamento dei confini in Medioriente, le potenze occidentali – in particolare il Regno Unito – hanno promesso di agire come garanti della loro libertà.
Una promessa mai mantenuta, anzi. Il popolo curdo venne diviso tra quattro Stati e diverse linee di confine. Divennero minoranze nelle montagne e nelle valli della Turchia sud-orientale, dell’Iran nord-occidentale, dell’Iraq settentrionale e della Siria settentrionale.
Il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), fondato nel 1978, era ed è un gruppo politico armato di autodifesa. Rappresentante di tutte le persone nelle regioni storicamente curde, ha creato col tempo alleanze con altri gruppi politici e sociali, inclusi i principali partiti politici di sinistra in Turchia e Siria.
L’obiettivo originale del PKK era quello di stabilire un Grande Kurdistan socialista che unisse le regioni curde di Turchia, Iraq, Siria e Iran. Dalla metà degli anni 2000, però, cambia il paradigma grazie agli scritti di Abdullah Ocalan, il leader del popolo curdo imprigionato dalla Turchia dal febbraio 1999 nell’isola di İmralı nel Mar di Marmara, dove sta scontando l’ergastolo. Mettendo da parte l’obiettivo politico di unire il popolo curdo nella propria patria, il nuovo obiettivo – denominato Confederalismo Democratico – cerca di stabilire aree curde autonome in Iran, Turchia, Siria e Iraq dove poter ricreare una società che non inquadrata all’interno di ideologià capitaliste né tantomeno marxiste-leniniste; una terzia via, dove al centro della società c’è la figura della donna – nei secoli perseguitata dal Padre del Capitalismo, il Patriarcato -, dove l’ecologia politica ridisegna i rapporti tra uomo, animali e natura, dove la democrazia reale dal basso rende protagonisti tutti e tutte nelle scelte, nelle decisioni, nella creazione di comunità partecipate e inclusive. Qualcosa del genere ora esiste sia in Siria che in Iraq, ed è riuscito ad emergere nonostante il fondamentalismo dell’Isis e le persecuzioni dei Rais a capo degli Stati-Nazione.
L’attacco del 18 aprile, denominato Operazione Claw Lock, ha colpito rifugi, bunker, grotte, tunnel e anche case considerate legate al PKK.
Questa operazione è stata lanciata due giorni dopo una rara visita in Turchia del Primo Ministro della regione autonoma curda dell’Iraq, Masrour Barzani. Dopo i colloqui non pubblici con il presidente turco, Barzani ha affermato di aver accolto con favore: “L’espansione della cooperazione per promuovere la sicurezza e la stabilità” nel Nord dell’Iraq. Ma le offensive hanno messo a dura prova i legami della Turchia con il governo centrale iracheno a Baghdad.
Il Presidente iracheno Barham Salih ha definito l’ultima incursione “inaccettabile”, descrivendola come una minaccia alla sicurezza nazionale del Paese e una violazione della sua sovranità.
Il PKK è da decenni un gruppo politico che lotta per l’autodeterminazione dei popoli in Medioriente e per questo è considerato dall’establishment turco come una minaccia esistenziale per lo Stato. Non solo Erdogan, ma anche dall’altra parte del mondo il PKK fa paura; Joe Biden nel 2016, mentre era Vicepresidente degli Stati Uniti, confermò che Washington considerava il PKK un pericolo per l’integrità della Turchia e, paragonandolo allo Stato Islamico, disse che si trattava di “un gruppo terroristico chiaro e semplice”. Per quanto riguarda l’Europa, i messaggi lanciati ad Ankara sono schizofrenici e prediligono la risoluzione rapida dei problemi, piuttosto che il buon senso e la coerenza. Non c’è da meravigliarsi.
Il coinvolgimento di Erdogan nel Mediterraneo orientale, in Siria, in Libia, nel Nagorno-Karabakh, vede l’Unione Europea quasi costretta a dialogare con il Presidente turco, sia per le varie crisi in Medioriente, sia per il suo ruolo nella gestione dei flussi di migranti che raggiungono l’Unione Europea. E ora Erdogan si propone come paciere tra Russia e Ucraina.
A livello interno però, la Turchia affronta una crisi economica caratterizzata dalla svalutazione della lira, nonché un peggioramento sul fronte dei diritti civili, come dimostra il ritiro dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. E la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2023 non è ancora iniziata.
Oggi è più che mai fondamentale chiedere che il PKK venga tolto dalla lista di organizzazioni terroristiche dell’UE, e continuare ad esprimere la nostra solidarietà internazionale e internazionalista nei confronti delle persone curde, yazide, arabe e anche turcomanne che vivono in medio oriente e vogliono autodeterminare le proprie vite e determinare la propria società.
Inoltre, non dimentichiamoci che la Libertà del popolo curdo passa dalla libertà del loro leader politico:
Libertà per Abdullah Ocalan!
Nassi LaRage
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Liberta’ x Ocalan