Gaza, la guerra dopo la guerra
Prigionieri palestinesi che vengono rilasciati con visibili segni di torture, e non si intendono lividi e ferite, ma occhi esportati, gambe amputate, ossa fratturate e mai curate;
Famiglie sfollate che si incamminano verso i propri quartieri per scoprire cosa ne è stato della propria casa, che probabilmente troveranno distrutta visto che si stima che il 92% degli edifici a Gaza è stato colpito dall’esercito di occupazione israeliano;
Bambini che corrono per strade colme di macerie e resti di bombe, alcune rimaste inesplose e alcune piazzate lì appositamente, come il peluche azzurro che è esploso nelle mani di un bambino di 8 anni, ferendolo all’orecchio e traumatizzandolo a vita.
Sono alcune delle storie di vita di chi è sopravvissuto a due anni di genocidio, che tradotto significa 746 giorni di incessanti bombardamenti, privazione di cibo e acqua, impossibilità di curarsi e andare a scuola, alla mercè dell’esercito israeliano che ha provato a ucciderli tutti.
Non si esce in fretta da un lutto collettivo, e nel caso del popolo palestinese di Gaza, è il carnefice a impedire qualsiasi spirito di rinascita e costruzione.
Dopo l’arrivo del cessate il fuoco, che i potenti chiamano erroneamente piano di pace, i traumi non si sono certo interrotti ma si acuiscono ogni giorno sempre di più.
Come è successo per l’uccisione dell’amatissimo giornalista Salah al Jafrawi, appena 27enne e uno dei pochi sopravvissuti a questi ultimi due anni; è stato lui a dare la notizia del cessate il fuoco, ma due giorni dopo è stato ucciso in circostanze ancora poco note da un gruppo interno a Gaza.
Perché si sa, israele vuole tutto tranne che l’unità del popolo e la creazione dello Stato palestinese, e storicamente le sue strategie non si fermano all’uccisione e alla tortura.
La stessa testata giornalistica israeliana Haaretz ha riportato la notizia dei finanziamenti che il governo di ultradestra di Benjamin Nethanyahu ha destinato a un gruppo armato interno a Gaza, rinominatosi Abu Shabab. Divide et impera non è un concetto nuovo per i palestinesi, ma la situazione a Gaza è talmente catastrofica che israele ha maggiori possibilità di infilarsi nelle fratture di una società messa in ginocchio, e una popolazione privata di qualsiasi bene, guida politica e prospettiva futura.
Anche il rifiuto di liberare Marwan Barghouti è un chiaro messaggio che israele indirizza al popolo palestinese: non ci può essere figura unificatrice e riconosciuta dai palestinesi, non ci può essere futuro per lo Stato di Palestina.
Ecco che l’unica prospettiva di resistenza si manifesta solo sulla capacità del popolo palestinese di rifiutare qualsiasi offerta ingannevole, qualsiasi via d’uscita facile dalla miseria e qualsiasi ricatto da parte dell’occupante; un tipo di resilienza dimostrato in più di 70 anni di occupazione sionista della propria terra, ma mai come oggi il livello di devastazione del passato, del presente e del futuro, è stato così diffuso.
Da questa parte di mondo pacificato, dopo anni di cortei e l’ultimo mese e mezzo in cui in Italia si sono moltiplicati gli scioperi e le manifestazioni radicali per chiedere la fine del genocidio, non è ancora il tempo di fermarsi.
Ciò che è successo a Gaza ha sdoganato troppe cose: la morte di decine di migliaia di bambini, l’uccisione di giornalisti, il bombardamento di ospedali, di campi profughi, di quartieri residenziali.
Il tutto in diretta mondiale, perché nonostante israele abbia impedito fin da subito l’ingresso di giornalisti o osservatori internazionali, esistono i social network.
Quest’ultimi hanno reso i palestinesi di Gaza dei narratori della propria tragedia, senza filtro alcuno e spesso scavalcando l’algoritmo.
Noi invece ogni giorno ci siamo svegliati nei nostri letti delle nostre case coi nostri pasti caldi, e ci siamo ammalati di Gaza, sopraffatti dal senso di impotenza o dalla tristezza o dalla rabbia.
Per due anni Milano non ha mancato neanche un appuntamento in piazza, ogni sabato il corteo organizzato dall’Associazione Palestinesi d’Italia ha attraversato vie centrali e periferiche per ricordare alla città che c’era un genocidio in corso al di là del mediterraneo, e che un intero popolo stava resistendo all’aggressione dell’occupante.
E quando la Global e la Maghreb Sumud Flotilla sono partite da diversi paesi del Nordafrica e del Sud Europa, avvicinandosi più che mai alle coste di Gaza e scatenando la reazione di israele, le piazze si sono riempite di milioni di corpi, accendendo una fiamma che da molto tempo non si vedeva più in Italia.
Il “piano di pace” così chiamato dal suo ideatore, Trump, non ha portato e non porterà nulla di buono con sé se non la fine dei bombardamenti in alcune aree di Gaza, e la possibilità per i sopravvissuti di raccogliere i cocci della devastazione sionista.
In questi giorni si scava tra le macerie a mano per recuperare i corpi di chi, da mesi o anni, non ha potuto avere una sepoltura dignitosa per la frenesia dei massacri israeliani.
Sono stati trovati corpi con evidenti segni di tortura, le mani e i piedi legati, bende sugli occhi fino ad anche il furto di organi interni.
È questa la condizione in cui sono costretti i palestinesi di Gaza, mentre gli aiuti umanitari rimangono fuori dal territorio e non c’è spazio per ricostruire viste le tonnellate di macerie e residui di guerra dislocate lungo tutto il territorio.
Le manifestazioni e gli scioperi italiani (e non solo) di quest’ultimo periodo hanno contribuito platealmente al cambiamento di retorica; se Nethanyahu pensava di poter continuare a assediare Gaza impunemente e circondato solo da timidi rimproveri, la popolazione di tutto il mondo ha dimostrato più volte di poter invertire la rotta stabilita da chi li governa.
La seconda fase del pianto Trump su Gaza prevede un ritiro parziale dell’esercito israeliano e la smilitarizzazione di Hamas, con ingresso di aiuti e ricostruzione.
Le fratture in cui ancora una volta israele vorrà infilarsi sono chiare, ed è per questo che anche chi esprime solidarietà nei confronti del popolo palestinese deve mantenere il focus: non può esserci pace senza libertà e giustizia.
Non può esserci pace mediata dall’imprenditore multimilionario Trump, non può esserci pace senza fine del sistema di apartheid imposta da israele in Palestina, non può esserci giustizia senza l’incriminazione penale di tutto il governo israeliano, non può esserci giustizia senza il diritto al ritorno e l’autodeterminazione del popolo palestinese.
Nassi LaRage
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