Le strategie economiche coloniali dello Stato di Israele
La Palestina sta vivendo uno dei momenti peggiori della sua storia. La Striscia di Gaza è stata ormai completamente rasa al suolo. Ad essere spazzati via non sono solo le case, le scuole e gli ospedali, ma anche ogni progetto e prospettiva futura, già immaginati e costruiti in un contesto di estrema precarietà grazie all’instancabile capacità di resilienza dei palestinesi. Intanto in Cisgiordania l’occupazione coloniale israeliana strangola gli abitanti locali amplificando misure repressive già in atto prima del 7 ottobre 2023, che portano alla diffusione di povertà e fame. È in corso una crisi economica senza precedenti che mette in ginocchio intere famiglie, che stanno vivendo in condizioni di crescente precarietà economica ed insicurezza fisica e alimentare.
Secondo molti palestinesi in Cisgiordania, “la situazione non era così dura neanche ai tempi del Corona.. molte famiglie soffrono la fame. Soffrono in silenzio perché comunque non stiamo male come i nostri fratelli a Gaza e vogliamo che tutti pensino prima a loro”.
L’oppressione economica della Cisgiordania
Dalla sua creazione nel 1994, l’esistenza dell’Autorità palestinese, la costruzione delle sue istituzioni ed infrastrutture pubbliche e la capacità di impiego del settore pubblico dipendono dal consenso di Israele e dai finanziamenti delle agenzie di sviluppo e delle potenze occidentali come gli Stati Uniti e l’Unione Europea – il principale partner internazionale dell’Autorità palestinese. Consenso e finanziamenti concessi solo a patto che l’Autorità palestinese operi per controllare qualsiasi forma di resistenza locale, spontanea o organizzata.
I finanziamenti per la costruzione di uno Stato palestinese indipendente, che in realtà è solo illusoria, stanno pagando i costi dell’occupazione coloniale Israeliana. Infatti, la Convenzione di Ginevra obbliga i paesi occupanti a prendersi cura delle popolazioni occupate, fornendo beni e servizi di prima necessità, come faceva Israele prima degli Accordi di Oslo, sebbene in modo discriminatorio. Con gli Accordi di Oslo e l’illusoria creazione di uno Stato palestinese separato e distinto da quello israeliano, Israele riesce ad eludere quest’obbligo di fronte alla comunità internazionale, sostenendo che non sia più una sua prerogativa, ma dell’Autorità palestinese, come se fosse uno Stato indipendente. In questo modo Israele ha ridotto i costi politici ed economici del suo regime d’occupazione coloniale, garantendo così un’occupazione a lungo termine che altrimenti difficilmente avrebbe potuto mantenere economicamente e legittimare politicamente per altri 30 anni (dagli Accordi di Oslo). I paesi occidentali e le agenzie di sviluppo internazionali hanno quindi un’importante responsabilità e un ruolo decisivo nel mantenimento e nella legittimazione del dominio coloniale sionista del popolo palestinese.
In virtù di queste relazioni di dipendenza, le potenze occidentali esercitano un forte potere di coercizione nei confronti dell’Autorità palestinese, in collusione con Israele. Già nel 2006, in risposta alla vittoria delle elezioni legislative palestinesi da parte di Hamas, gli USA e l’Unione Europea avevano sospeso l’elargizione dei finanziamenti all’Autorità palestinese, influendo sulla scelta del partito di Fatah di non partecipare a un governo guidato da Hamas, dichiarato “terrorista” da Israele, e sulla conseguente guerra civile palestinese nella Striscia di Gaza. La stessa cosa hanno fatto in seguito agli eventi del 7 ottobre, nel tentativo, invano, di forzare l’Autorità palestinese a schierarsi pubblicamente contro la lotta palestinese guidata da Hamas nella Striscia di Gaza.
Gli accordi economici di Parigi del 1994, che come quelli di Oslo avrebbero dovuto avere un carattere temporaneo e durare cinque anni, hanno portato alla dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana e hanno dato allo Stato di Israele gli strumenti per rendere permanenti questi accordi. Questi accordi, infatti, hanno stabilito l’integrazione dell’economia palestinese e di quella israeliana attraverso un’unione doganale, in virtù della quale Israele detiene il controllo di tutti i confini, inclusi quelli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza che in teoria dovrebbero essere sotto il controllo dell’Autorità palestinese. Questo implica che i Territori palestinesi non hanno un accesso indipendente all’economia globale, ma sono sottoposti alle limitazioni stabilite da Israele sull’esportazione e sul trasporto dei prodotti, oltre che a tasse elevate sulle importazioni. Secondo gli Accordi di Parigi, il governo israeliano è responsabile della riscossione delle tasse sui beni importati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (in media tra 190 e 220 milioni di dollari al mese), che dovrebbe trasferire al tesoro dell’Autorità palestinese in cambio di una commissione del 3%. Per l’Autorità palestinese queste risorse economiche sono necessarie a pagare gli stipendi degli impiegati nel settore pubblico e a continuare a garantire i servizi pubblici di base (sanitari, educativi…) non solo in Cisgiordania, ma anche nella Striscia di Gaza, dove l’Autorità palestinese eroga ancora alcuni servizi (come l’elargizione di un aiuto economico alle famiglie dei martiri e dei feriti), nonostante dal 2007 sia governata di fatto dal partito di Hamas.
In seguito agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich ha deciso di interrompere il trasferimento delle entrate fiscali riscosse da Israele per conto dell’Autorità palestinese. Più tardi il governo di Netanyahu ha proposto di trasferire all’Autorità palestinese queste entrate fiscali pagate dai palestinesi, a condizione di detrarre e trattenere l’importo destinato alle istituzioni dell’Autorità palestinese nella Striscia di Gaza, corrispondente a circa il 30% del budget totale (che ammonta a circa 75 milioni di dollari al mese), adducendo che questi fondi potrebbero cadere nelle mani di Hamas. La proposta di queste condizioni avevano il chiaro intento di amplificare le disparità e la divisione politica tra la società palestinese in Cisgiordania e quella nella Striscia di Gaza, nel quadro delle strategie politiche israeliane che ho descritto precedentemente con la locuzione “divide et impera”. L’Autorità palestinese non poteva che rifiutare queste condizioni, per evitare il rischio di una ribellione dei palestinesi in Cisgiordania. Come dicono in molti, “siamo disposti a rischiare di morire di fame insieme ai nostri fratelli nella Striscia di Gaza piuttosto che lasciare che l’Autorità palestinese li abbandoni”.
Il timore di un’ulteriore destabilizzazione della situazione sociale e politica in Cisgiordania ha suscitato qualche disaccordo all’interno del governo israeliano, che a gennaio 2024 aveva approvato un nuovo piano per congelare la parte delle entrate fiscali destinata alla Striscia di Gaza, che vedeva la Norvegia fungere da intermediario per detenere questi fondi al posto di Israele. Questa nuova proposta era stata accettata dall’oligarchia palestinese che governa la Cisgiordania, motivata dall’urgenza di evitare la bancarotta e dalla volontà di mantenere la legittimità internazionale a governare la Cisgiordania – e nella visione postbellica degli Stati Uniti, anche la Striscia di Gaza – e, con questa, la propria posizione privilegiata legata al controllo delle strutture e delle risorse dell’Autorità palestinese. Tuttavia, in seguito al riconoscimento, il 22 maggio 2024, dello Stato palestinese da parte della Norvegia e di altri due paesi europei (Irlanda e Spagna), ed alle decisioni della Corte Internazionale di Giustizia contro Israele, lo Stato di Israele ha riconfermato la decisione di bloccare le entrate fiscali pagate dai palestinesi, che continua a trattenere direttamente. Israele elude così gli obblighi stabiliti dagli Accordi di Oslo, avvalato dal consenso della comunità internazionale (Stati Uniti e Europa in prima fila), che si mostra complice dell’occupazione coloniale sionista.
Questa misura punitiva contro l’Autorità palestinese non è una novità, ma una strategia adottata da Israele ben prima del 7 ottobre per indebolire l’economia palestinese e per esercitare pressioni sull’Autorità palestinese, punendola per qualsiasi passo politico intrapreso come, ad esempio, la sua adesione alla Corte Penale Internazionale nel 2015. A partire dal 2019, inoltre, lo Stato di Israele detrae sistematicamente parte di questi fondi, con il pretesto che l’Autorità palestinese paga gli stipendi alle famiglie dei prigionieri e dei martiri, pratica considerata come un “sostegno al terrorismo”. Allo stesso modo, a settembre 2023 Israele aveva già deciso di trattenere 800 milioni di dollari dall’Autorità palestinese. Secondo i dati del Ministero delle Finanze di Ramallah, nel mese di maggio 2024 l’importo totale delle entrate fiscali trattenute da Israele ammontava a 1,6 miliardi di dollari, equivalenti al 25-30% del bilancio annuale totale dell’Autorità palestinese.
Queste misure punitive hanno ha portato a un deficit finanziario senza precedenti nelle casse dell’Autorità palestinese, provocando una grave crisi economica e minacciando la bancarotta, ed il conseguente collasso, dell’Autorità palestinese. La significativa riduzione del sostegno finanziario all’Autorità palestinese da parte degli Stati arabi ha peggiorato ulteriormente la situazione.
A causa di queste detrazioni, dal mese di novembre del 2021 il governo palestinese non è stato in grado di pagare l’intero stipendio ai suoi circa 147.000 dipendenti pubblici, che hanno ricevuto solo l’80-85% del loro salario, percentuale che è scesa progressivamente al 50% a partire dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. Attualmente i dipendenti pubblici non sono in grado di assolvere i loro obblighi finanziari mensili verso banche e altre istituzioni, non riescono a pagare affitti e mutui per le case o le rate universitarie e delle scuole private, con il conseguente abbandono degli studi e, spesso, la perdita di un alloggio per la propria famiglia.
Se gli stipendi arretrati che l’Autorità palestinese deve ai dipendenti pubblici dal 2021 ammontano a circa 750 milioni di dollari, i debiti dovuti al settore privato ammontano a circa 800 milioni di dollari. In conseguenza all’impossibilità dell’Autorità palestinese di adempiere ai propri obblighi finanziari (l’Autorità palestinese ha raggiunto il limite di indebitamento con le banche) ed alla riduzione del proprio potere d’acquisto di beni e servizi, il settore privato commerciale e dei servizi (come ospedali privati e aziende farmaceutiche) si trova ad essere paralizzato.
La capacità dell’Autorità palestinese di fornire servizi di base nell’ambito della sanità, dell’istruzione e della sicurezza è gravemente compromessa. L’Autorità palestinese ha ridotto l’elargizione e la qualità dei servizi sanitari ed educativi, così come l’orario di lavoro dei dipendenti pubblici, imponendo, ad esempio, che l’insegnamento nelle scuole pubbliche si svolga principalmente online, con il conseguente grave peggioramento della qualità dell’istruzione e con l’ampificazione delle disparità tra studenti appartenenti a differenti classi sociali e con un differente accesso a internet ed alle tecnologie educative.
Il settore privato palestinese (nel quale il 40% dei dipendenti riceve meno del salario mensile minimo in Palestina), così come quello pubblico, è schiacciato anche dall’appropriazione di gran parte delle risorse da parte di Israele (come acqua, terra e altre risorse naturali) e da altre condizioni amministrative imposte nei Territori Occupati Palestinesi con gli Accordi di Oslo del 1993. L’amministrazione militare israeliana ostacola la costruzione di edifici, di infrastrutture e di strutture industriali, impone restrizioni sulla produzione (come sul tipo e sulla quantità di prodotti agricoli e industriali) e sul trasporto dei prodotti, impedendo lo sviluppo di un settore agricolo e industriale palestinesi che possano competere con quelli israeliani. In questo modo Israele ha aumentato e rafforzato la dipendenza dei palestinesi dal mercato, dalle infrastrutture e dai servizi israeliani per avere accesso all’acqua, al cibo e ad altre risorse e beni di prima necessità, che devono comprare da Israele. Dal 7 ottobre le autorità militari hanno aumetato e intensificato queste restrizioni e divieti, così come hanno moltiplicato i posti di blocco e i checkpoint che ostacolano gli spostamenti tra i governatorati della Cisgiordania, impedendo il trasporto di merci o il raggungimento dei posti di lavoro.
Questa situazione è stata ulteriormente aggravata dalla riduzione del potere d’acquisto delle famiglie palestinesi, che contribuisce al fallimento delle imprese private (con la perdita di migliaia di posti di lavoro) e al raggiungimento di un livello di disoccupazione in Cisgiordania senza precedenti.
L’apartheid economico dei palestinesi
Il livello di disoccupazione (già molto elevato prima del 7 ottobre) e la diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie sono stati amplificati, a partire dal 7 ottobre 2023, dalla decisione dell’Amministrazione Civile israeliana, un’istituzione militare sotto il Ministero della Difesa israeliano, di impedire ai palestinesi di accedere al mercato del lavoro israeliano, congelando e negando i permessi necessari ad attraversare i checkpoint per lavorare nelle colonie israeliane e ad oltrepassare il muro di segregazione israeliano per lavorare in Israele.
Infatti, nel contesto di un crescente tasso di disoccupazione nei Territori occupati palestinesi e dell’iniqua competizione economica con il mercato israeliano, per molti palestinesi l’unico modo per soddisfare i bisogni primari dei propri familiari è di partecipare al mercato del lavoro israeliano, legalmente o illegalmente. Prima del 7 ottobre 2023 più di 170.000 palestinesi lavoravano in Israele e nelle colonie israeliane come manodopera a basso costo nei settori dell’edilizia (contribuedo alla costruzione delle colonie israeliane in Cisgiordania), in quello agricolo, e una minoranza nell’industria, spinti anche dalla disparità dei salari nei Territori palestinesi e di quelli in Israele, che sono significativamente più elevati. Questi lavoratori (molti dei quali sono istruiti e qualificati) sono soggetti a sistematiche pratiche di sfruttamento e di violazioni dei diritti, nonostante le leggi sul lavoro progressiste dello Stato di Israele siano invece estese a tutti i lavoratori israeliani. Oltre a trascorrere ore presso checkpoint affollati in attesa di poterli attraversare e a vivere in alloggi in condizioni indecenti, spesso vengono pagati in nero, sono soggetti a licenziamenti illegali ed alla negazione del compenso di lavoro, e non godono dei diritti sociali previsti dalla legislazione israeliana (come il salario minimo, i diritti di sicurezza sul lavoro, l’indennità di malattia, la pensione, le ferie ed altri benefici sociali).
Le condizioni di lavoro dei palestinesi sono anche peggiori nelle colonie israeliane, dove le leggi israeliane sul lavoro, sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro non sono applicate e i compensi sono più esigui di quelli in Israele.
L’accesso a un lavoro in Israele o nelle colonie è reso precario anche dall’imprevedibile chiusura dei checkpoint o dalla negazione dei permessi di lavoro, che generalmente sono rilasciati con più facilità per lavorare nelle colonie israeliane rispetto ai permessi per lavorare in Israele. Infatti, la creazione della dipendenza dei palestinesi dalle risorse dello Stato e del mercato israeliani e le condizioni di apartheid stabilite con gli Accordi di Oslo del ’93 hanno consentito a Israele, già dagli anni ’90, di usare la politica dei permessi, rilasciati o negati in modo discrezionale, come strumento di ritorsione e di coercizione individuale e collettiva. Spesso i lavoratori che avevano ottenuto un permesso sono stati improvvisamente rimandati a casa a causa di operazioni militari o di decisioni amministrative o securitarie, senza sapere quando avrebbero potuto fare ritorno al lavoro e privi di meccanismi per difendere i loro diritti.
Dal 7 ottobre questo strumento di ritorsione viene usato in modo amplificato, escludendo dal mercato del lavoro israeliano, inizialmente, tutti i palestinesi. Migliaia di lavoratori provenienti dalla Striscia di Gaza che avevano un permesso di lavoro valido improvvisamente sono diventati immigrati clandestini (situazione unica a livello globale), costretti a fuggire in Cisgiordania per salvarsi la vita, o arrestati in modo arbitrario dalle forze militari israeliane e detenuti nelle carceri israeliane in condizioni disumane, spesso senza ricevere neanche lo stipendio per il lavoro svolto precedentemente.
Il permesso per lavorare in Israele e nelle colonie israeliane è diventato un “privilegio” ancora più inaccessibile e sfruttabile. Infatti, le procedure per richiedere un permesso di lavoro ha sempre dato adito a pratiche di sfruttamento molto redditizie attuate da attori israeliani e palestinesi che si approfittano delle condizioni di vulnerabilità dei lavoratori palestinesi, spesso in collusione con funzionari delle istituzioni militari israeliane. La domanda di un permesso di lavoro al COGAT (Coordinator of Government Activities in the Territories), un’agenzia del Ministero della Difesa israeliano, può essere presentata solo a condizione che un datore di lavoro o un’impresa israeliani facciano richiesta del lavoratore. Questo implica che in cambio di un permesso di lavoro, molti palestinesi si trovano a pagare una commissione illegale ad intermediari quali imprenditori israeliani (molti dei quali sono palestinesi del ‘48 con cittadinanza israeliana) o imprenditori palestinesi che hanno instaurato relazioni personali con imprenditori o con altri attori israeliani (relazioni che sono diventate un capitale sociale importante che permette l’accesso a lavoro e a risorse economiche). Gran parte del compenso di lavoro degli operai palestinesi viene destinato a pagare le commissioni illegali di intermediazione, che sono così elevate che spesso i lavoratori si trovano ad essere vincolati per anni al datore di lavoro o ad altri intermediari per poter ripagare i debiti contratti per avere il “privilegio” di lavorare in Israele o nelle colonie israeliane (per le quali le commissioni sono un pò meno elevate). Questi intermediari controllano l’accesso al lavoro di numerosi operai palestinesi e si arricchiscono sulla loro pelle, contribuendo spesso all’arricchimento anche di funzionari corrotti del COGAT, che usano la loro posizione per rilasciare permessi in cambio di ingenti quantità di denaro. A partire dagli eventi del 7 ottobre 2023, le commisioni pretese dagli intermediari sono ancora più elevate e, nel caso in cui la richiesta del permesso di lavoro sia rifiutata, non vengono restituite
Attraversare i confini di apartheid della Cisgiordania e della Striscia di Gaza senza un permesso per recarsi a lavorare illegalmente in Israele è diventato ancora più rischioso. Prima degli attacchi di Hamas era una pratica molto diffusa tra i lavoratori palestinesi, organizzata e facilitata da trafficanti israeliani che avvertivano i lavoratori quando non c’erano soldati di guardia e li aspettavano aldilà del confine per trasportarli con un’automobile fino al posto di lavoro, in cambio di ingenti somme di denaro. Questa pratica spesso avveniva con il tacito consenso di militari israeliani che “chiudevano un occhio”, permettendo lo sfruttamento illegale di lavoratori palestinesi che contribuisce alla prosperità dell’economia israeliana. Dal 7 ottobre 2023, per i palestinesi che scavalcano l’imponente muro di segregazione che circonda la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, o che attraversano a piedi le zone di confine dove il muro non è ancora stato completato (spesso controllate anche da telecamere), il rischio di essere uccisi dai soldati (piuttosto che essere feriti o arrestati) è diventato quasi una certezza. Se qualcuno rinuncia all’impresa, altri palestinesi (circa 40.000) rischiano comunque la vita, presi dalla disperazione per non poter sfamare la propria famiglia.
Questa situazione ha portato alla perdita della principale o dell’unica fonte di reddito che permette a molti palestinesi di sopperire ai bisogni primari della propria famiglia estesa, e contribuisce alla paralisi dell’economia palestinese, incrementando ulteriormente il rischio di gravi crisi sociali e politiche.
Come in passato, nel contesto della precarietà del lavoro e delle mutevoli politiche di sicurezza dello Stato israeliano, i palestinesi mostrano la loro capacità di resilienza con l’invenzione di nuove attività di lavoro, con la diversificazione delle fonti di reddito e con il ritorno alla terra. In caso di disoccupazione o della chiusura dei confini israeliani, le attività agricole, che sono sempre meno redditizie e sostenibili nel contesto della dura competizione con l’agricoltura israeliana sovvenzionata dallo Stato, contribuiscono alla sussitenza alimentare della famiglia, nella lotta contro l’insicurezza alimentare. Consapevoli di queste dinamiche, le autorità militari israeliane hanno intensificato le misure e le pratiche che ostacolano lo svolgimento delle attività agricole, vietando la costruzione di infrastrutture e danneggiando quelle esistenti (vasche e canali per l’irrigazione, serre, strade..), vietando la coltivazione di molti terreni e impedendo con violenza agli agricoltori di recarsi alle proprie terre e di raccogliere i prodotti coltivati.
La chiusura del mercato del lavoro israeliano ai palestinesi è stata decisa dal governo di Netanyahu malgrado il disaccordo tra i ministri del gabinetto della sicurezza e malgrado le autorità militari israeliane abbiano suggerito il ritorno in Israele dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania per ridurre il rischio di una loro ribellione.
Inoltre, la mancanza della manodopera palestinese sta danneggiando le attività produttive israeliane, come quelle agricole. Secondo il Ministero delle Finanze israeliano, l’attuale assenza di lavoratori palestinesi nei settori edile, agricolo e industriale ha comportato una perdita mensile di 3 miliardi di shekel (840 milioni di dollari). Infatti, se già dagli anni ’70 (in seguito all’occupazione dei Territori palestinesi nel ’67) l’economia israeliana ha prosperato grazie alla disponibilità di una forza lavoro palestinese a basso costo, a partire dagli anni ’90 (in seguito agli Accordi di Oslo), data la carenza di manodopera israeliana, il settore agricolo israeliano ha fatto affidamento quasi interamente sui lavoratori migranti, gran parte dei quali palestinesi, e nel settore edile i palestinesi costituiscono circa un terzo della forza lavoro.
Imprenditori e proprietari di impianti industriali israeliani in Cisgiordania che stanno soffrendo finanziariamente a causa della perdita di gran parte della loro forza lavoro, hanno esercitato una una notevole pressione sul governo per far tornare i lavoratori palestinesi della Cisgiordania. Nonostante l’opposizione di alcuni ministri israeliani (come quello per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich), il 20 dicembre 2023 le Forze di Difesa Israeliane hanno accettato la richiesta avanzata da questi datori di lavoro israeliani, consentendo a una parte dei palestinesi di tornare a lavorare nelle colonie (e non in Israele), anche se con condizioni di sicurezza più severe rispetto a quelle in vigore prima del 7 ottobre. I lavoratori possono circolare liberamente solo all’interno di aree designate nei pressi del posto di lavoro e i datori di lavoro devono garantire, a loro spese, che ci sia una guardia di sicurezza armata ogni sette lavoratori.
Queste dinamiche rivelano, ancora una volta, che l’agenda politica dell’attuale governo israeliano mira all’espansione delle colonie in Cisgiordania, e che le preoccupazioni sulla sicurezza sono solo un pretesto populistico per impedire a decine di migliaia di palestinesi di avere accesso a un lavoro, danneggiando gravemente l’economia palestinese. Nel frattempo, infatti, dal 7 ottobre 2023, mentre gli occhi della comunità internazionale sono puntati sul genocidio in corso nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania i coloni e lo Stato di Israele continuano a perseguire il progetto coloniale sionista: la compulsiva espansione delle colonie persevera in modo accelerato, nuove colonie vengono legalizzate dallo Stato di Israele e si moltiplicano gli avanposti dei coloni israeliani (insediamenti coloniali illegali, non autorizzati dal governo israeliano, che costituiscono il principio dello sviluppo di una colonia).
Nel parlamento israeliano, la Knesset, sono in corso dibattiti che si focalizzano sulla sostituzione dei lavoratori palestinesi con manodopera migrante, una tendenza iniziata negli anni ’90, che attualmente viene proposta con il pretesto di prevenire il collasso dei settori agricolo ed edilizio israeliani. In realtà, questa politica mira ad escludere i palestinesi dal mercato del lavoro israeliano in modo definitivo, sostituendo il loro sfruttamento con quello di lavoratori provenienti da paesi in via di sviluppo.
Nel 2012 Israele ha firmato un accordo bilaterale con il governo tailandese per far lavorare nel settore agricolo cittadini tailandesi che, nel 2023, hanno raggiunto il numero di 30.000 persone. Di questi, 9.000 lavoratori sono tornati in patria, incoraggiati dal governo tailandese, in seguito agli attacchi del 7 ottobre, durante i quali molti lavoratori agricoli stranieri (compresi studenti provenienti da paesi in via di sviluppo per programmi di lavoro/studio di un anno) sono stati assassinati, feriti o rapiti (e subito rilasciati) da Hamas. Perdite umane che evidentemente hanno un peso minore di quelle israeliane, dato che il governo israeliano non ne ha fatto menzione nei discorsi che rivendicavano giustizia e sicurezza per i cittadini israeliani.
Nel novembre 2023, a causa della carenza di lavoratori nel settore agricolo, Israele ha firmato un nuovo accordo agricolo bilaterale con il governo dello Sri Lanka e ha approvato l’arrivo da altri paesi di altri 5.000 lavoratori migranti. A questi lavoratori si aggiungono i migranti clandestini vittime della tratta di manodopera che provengono da paesi come la Tailandia, la Turchia, la Cina, le Filippine, l’India e la Serbia. Nonostante il governo sostenga programmi e politiche migratorie che mettono a rischio i lavoratori migranti, che hanno raggiunto il numero di circa 180.000 persone, lo Stato di Israele non ha ancora stabilito misure penali, di protezione e di prevenzione contro il traffico di esseri umani per lavoro, in accordo agli standard internazionali. Tuttavia, con il pretesto di impedire l’ingresso in Israele ai lavoratori illegali palestinesi, considerati come una minaccia per la sicurezza dei cittadini israeliani, attualmente il parlamento israeliano sta discutendo un disegno di legge che inasprisce le sanzioni finanziarie emesse nei confronti degli israeliani che trasportano, ospitano o impiegano illegalmente immigrati clandestini, come la revoca dei loro permessi commerciali fino a un anno (il doppio rispetto al periodo precedente) e la possibilità che il tribunale ordini la confisca dei loro beni (come appartamenti e automobili).
Conclusioni
Queste dinamiche politiche ed economiche rivelano il cambiamento delle strategie d’occupazione coloniale adottate dallo Stato di Israele.
Dall’occupazione dei Territori palestinesi nel 1967, mentre lo Stato di Israele ha iniziato l’espansione delle sue colonie appropriandosi di altre terre palestinesi, ha messo in atto due tipi di strategie di controllo e di gestione del rischio: da un lato la repressione e la punizione collettiva di qualsiasi forma di ribellione; dall’altro l’integrazione subordinata dei palestinesi nell’economia israeliana, rendendoli dipendenti dalle risorse e dai servizi israeliani e concedendo loro un accesso controllato e limitato a queste risorse, in modo da ridurre i rischi di ribellione.
Con gli Accordi di Oslo del 1993, l’imposizione di condizioni amministrative ed economiche discriminanti e l’appropriazione della maggior parte delle risorse hanno permesso a Israele di creare un’interdipendenza tra l’economia israeliana e quella palestinese sbilanciata a favore degli israeliani, che ha accresciuto e rafforzato la dipendenza dei palestinesi dalle risorse controllate da Israele. In questo modo Israele ha trasformato la società palestinese in una società dei consumi e in uno dei più grandi mercati per l’economia israeliana, assicurandosi così la propria egemonia economica e politica.
L’illusione di una separazione territoriale tra due Stati, quello israeliano e quello palestinese, ha consentito a Israele di mantenere il controllo sull’intero territorio storico della Palestina e sulle sue risorse, integrando i palestinesi nei livelli più bassi dell’economia israeliana (come forza lavoro a basso costo e come consumatori di prodotti e servizi israeliani) senza garantire loro l’accesso alla cittadinanza. In questo modo Israele mantiene l’apparenza di un paese democratico nel quale la popolazione ebraica costituisce una maggioranza demografica, garantendo la legittimità della connotazione ebraica dello Stato di Israele di fronte alla comunità internazionale. Israele mistifica così la realtà di uno Stato autoritario, uno strumento attraverso il quale una parte della popolazione, quella ebraica, mantiene il controllo del territorio storico della Palestina (dal Mediterraneo al Fiume Giordano) e delle sue risorse, attraverso la segregazione e l’esclusione dai diritti di cittadinanza della popolazione araba mussulmana e cristiana.
In risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, l’illusione della separazione territoriale tra due Stati permette all’attuale governo israeliano di portare avanti il genocidio nella Striscia di Gaza, legittimandolo con il diritto di difendersi da un attacco che è definito come esterno, quando in realtà si tratta della ribellione e della resistenza di una popolazione colonizzata e segregata all’interno di un unico, singolo territorio sotto occupazione coloniale.
Allo stesso modo, questa rappresentazione permette a Israele di attuare, in Cisgiordania, nuove strategie coloniali legittimate dal pretesto di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Nel quadro dell’ormai consolidata egemonia politica ed economica israeliana, Israele sta adottando misure che favoriscono l’indipendenza dell’economia israeliana dalla forza lavoro palestinese. Queste politiche mirano all’esclusione definitiva dei palestinesi dal mercato del lavoro e dall’accesso ad altre risorse israeliane, per portare al collasso l’economia palestinese e per indebolire l’Autorità palestinese. L’obiettivo di queste politiche è di impedire la costruzione ed il riconoscimento di un futuro Stato palestinese (che è sempre stato osteggiato dai governi israeliani di destra o di sinistra) e di creare condizioni di povertà e di fame che contribuiscono al genocidio dei palestinesi, nel quadro della logica del colonialismo di insediamento perseguito da Israele: una forma di colonialismo che mira all’appropriazione del territorio e all’eliminazione e sostituzione della popolazione palestinese con quella ebraica coloniale, attraverso pratiche di pulizia etnica e di dislocazione su larga scala.
Anita De Donato
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