Memoria e appartenenza: da Carlo alle seconde generazioni
Italia, decimo anno di vita in un Paese diverso da quello di origine, i miei genitori accendono la tv e rimangono zitti.
La giornalista di Mediaset dice che un ragazzo è morto, forse un ultras, comunque un casinista.
“Come è morto”, mio fratello non fa una vera e proprio domanda.
“L’hanno ucciso”, risponde mia madre. È perplessa, intercetto lo sguardo tra i miei genitori, non sanno spiegare al mio fratellino perché centinaia di migliaia di persone stavano protestando a Genova, una delle informazioni che avevano registrato maggiormente era che qualcuno voleva buttare del sangue infetto su qualcun altro. Tutto questo in un contesto di grandi manifestazioni contro i potenti del mondo, ma l’attenzione della nostra famiglia era più indirizzata verso l’agenzia che non ci stava stampando i biglietti per andare in Marocco, probabilmente perché mio padre aveva la ricevuta del permesso di soggiorno. “Vale come documento, non è un problema”, continua a ripetere.
A 9 anni, mentre guardavo le immagini di giovani corpi in movimento di fianco a una ferrovia dove mi sembravano assediati dalle Forze dell’Ordine, mi sono chiesta se avessero raggiunto quella città, Genova, con un aereo o con il treno, e se anche loro avevano questo enorme problema del rinnovo del permesso di soggiorno durante le vacanze.
Quel pomeriggio in cui abbiamo acceso la tv e visto il corpo di Carlo Giuliani disteso sull’asfalto, sono sicura che dentro tutti noi sia cambiato qualcosa. Era stato ucciso un ragazzo che manifestava, e il suo corpo senza vita era stato mostrato in televisione.
“Non mi aspettavo questa cosa qui”, disse mia madre, che passò il resto del pomeriggio, tutta la sera e i giorni dopo a cercare programmi televisivi che parlassero di Carlo.
Anni dopo, quando su Facebook vide la foto della targa commemorativa per Carlo in Piazza Alimonda (piazza Carlo Giuliani), mia madre non aveva scordato quel nome, e la sera mi disse: “Sai, quando abbiamo visto cosa è successo a Genova quel giorno in cui hanno ucciso quel ragazzo, io e tuo padre ci siamo chiesti se avevamo scelto il paese giusto. Quando siete nati hanno ucciso due giudici antimafia (Falcone e Borsellino), poi tante notizie sulla corruzione, poi tutta quella polizia contro dei ragazzi in manifestazione, e poi quel Carlo ucciso, il sangue alla testa perché lo hanno colpito per ucciderlo, e la parte centrale del corpo schiacciata, perché lo hanno anche investito con quel mezzo militare. L’Italia che non rispetta i suoi cittadini che Italia sarà per noi?”.
“Perché ti è rimasta così in testa questa storia?”, le chiesi io. Erano già anni che facevo parte di collettivi studenteschi, sulla porta di camera mia c’era un poster con la faccia seria di Carlo, stilizzata e quindi penso che mia madre non abbia mai capito che era lo stesso ragazzo che non dimenticava; in alto al suo viso c’era la scritta ‘non spegni il sole se gli spari addosso’.
“Forse perché è la prima volta che ho visto una persona così giovane, morta a terra. Prima non facevano vedere dei ragazzini morti in televisione”.
Erano già passati 10 anni dalla morte di Carlo, diventavo cittadina italiana dopo esser stata costretta a dire, di fronte a un impiegato comunale con la fascia tricolore: “Giuro di essere fedele alla bandiera e alla costituzione italiana”. Se non dici questa frase, non ricevi ciò che ti spetta di diritto dopo anni di file infinite di fronte alle questure per ottenere il permesso di soggiorno o la sua ricevuta.
Non ho pensato a Carlo in quel momento, ho pensato a me che non mi sentivo certo fedele a una bandiera sotto cui ero una discriminata, e ho pensato ai miei genitori che continuavano ad essere ostaggio della burocrazia intorno alla regolarizzazione.
Carlo Giuliani ci ha ricordato che nessuno o nessuna è esclusa dalla violenza dello Stato, e che ognuno di noi è tenuto a fare ciò che può per abbattere le ingiustizie. È necessario, soprattutto quando ci sono persone che hanno dato tutto per questo.
Con gli anni ho fatto mia la storia dei movimenti italiani, in particolare quelli della mia città, Milano, dove moltissimi compagni e compagne hanno donato alle generazioni future, pezzi di storia di quei giorni in cui ci hanno creduto, in cui hanno lottato in maniera determinata, in cui sono caduti, hanno arrancato, ma poi sono andati avanti a camminare.
Lo hanno fatto per tutti, anche per chi quei giorni a Genova nel 2001 non c’era, persino per chi ancora oggi infanga la memoria del nostro compagno morto.
Ho pensato a Carlo il giorno dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana, perché finalmente non ero più ricattabile, e il mio destino non dipendeva più dal Ministero degli Interni, il mio interlocutore nei giorni di rinnovo non sarebbe più stato un poliziotto nervoso nell’Ufficio Immigrazione.
Non ero più ricattabile, come non lo erano quelle centinaia di migliaia di persone di tutte le età e provenienze che si sono organizzate e hanno mostrato cosa significa avere il coraggio di lottare.
Nassi LaRage
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