“Noi piangiamo e il cielo piange per noi”, di Haya Abu Nasser da Gaza

Nel dolce abbraccio di una giornata piovosa, mi rifugiavo nei toni di una melodia di Frank Sinatra, le cui note malinconiche si mescolavano al ticchettio delle gocce di pioggia all’esterno.

Un piccolo ristorante sul mare, ornato dalla malinconia di poesie ispirate alla natura, divenne il mio rifugio. Attraverso le finestre baciate dalla nebbia, guardavo l’ampio mare, sentendo il peso dell’esistenza che mi osservava, mentre io, a mia volta, osservavo la danza della vita. La vita, in tutta la sua complessità, mi ha impartito una lezione toccante: un invito a fare amicizia con la pioggia, nella sua essenza pura e narcisistica.

La mia città, una testimonianza dell’effimero della felicità, ha cullato i dolori dentro di noi, scolpendo una narrazione di resilienza e di fardelli condivisi. Le conversazioni scorrevano come un dolce ruscello, portando con sé il peso delle nostre esperienze collettive e il conforto trovato nelle narrazioni condivise.

Lasciato il rifugio del caffè, mi sono avventurata verso la biblioteca. Non immaginavo il colpo di scena imprevisto che mi aspettava. Il sole, un compagno fugace, si è arreso a un diluvio di pioggia, una tempesta metaforica che rispecchia la dura realtà di un attacco israeliano. Il piccolo caffè, un tempo baluardo della meditazione, è stato distrutto dal tumulto della guerra.

Sfollati, ci siamo ritrovati a cercare riparo nella fragile difesa delle tende, incarnazione stessa delle nostre fragili speranze. Tuttavia, questi rifugi, come sogni dispersi, si sono sgretolati sotto l’assalto implacabile della pioggia e il cielo, un tempo fonte di conforto, ha scatenato la sua ira. I bambini piangevano, le madri imploravano e il cielo sembrava indifferente alle loro suppliche. Nel caos, il magazzino dell’UNRWA si è trasformato in un campo di battaglia, dove la disperazione si è scontrata con la burocrazia per le semplici comodità di tende e coperte.

Il caos è continuato, senza sosta, mentre bambini innocenti sono diventati vittime dell’innalzamento delle acque, le cui grida si sono perse nella cacofonia della disperazione.
Non abbiamo nulla da indossare o per coprirci dal freddo, perché il nostro esodo si è svolto sotto il sole cocente, il cui calore era in netto contrasto con l’agitazione. Le promesse di un breve spostamento si sono trasformate in un’odissea prolungata, 2 giorni abbiamo detto, ora si estende oltre i 43 giorni. La speranza, fragile come un filo di paglia, si è aggrappata ai nostri cuori nell’incertezza di un cessate il fuoco o delle cosiddette pause umanitarie. Le preghiere sussurravano di poter tornare, anche solo per un’ora, a testimoniare ciò che era accaduto alla nostra patria martoriata. Le risate che risuonavano un tempo hanno lasciato il posto a un cauto ottimismo, perseguitato dallo spettro del ’48.

Le borse, inizialmente preparate per una fuga di due giorni, ora portano il peso di un’esistenza nomade prolungata. La paura dell’ignoto risuona nelle storie condivise da chi è sfollato prima di noi. Il cielo, un tempo simbolo di una pioggia purificatrice, ora piange al nostro fianco, complice amaro del nostro sfollamento.

L’amarezza rode le nostre anime mentre desideriamo la semplicità di un’umile dimora, il calore, una tazza di caffè e la melodia della vita. I sorrisi, un tempo spensierati, ora portano il peso del dolore e la prospettiva del domani è oscurata dalla lotta per la sopravvivenza.

I mercati, un tempo vivaci, ora sono desolati, i bambini appassiscono sotto la morsa implacabile della malnutrizione e il freddo diventa un avversario spietato. Le nostre lacrime, nascoste da occhi innocenti, scorrono liberamente, rispecchiando i torrenti scatenati dal cielo.

Sradicati, il nostro dolore è un dolore duraturo, intensificato dal furto delle nostre case e dalla perdita dei nostri cari. Il bagno di sangue a Jabalia è una testimonianza delle atrocità subite dai miei parenti: più di 20 di loro sono stati uccisi insieme ad altri 400 vicini nella “Snidawiya Squair”, dal nome del villaggio di Deir Sneid da cui provenivano i miei antenati.
Come rifugiata, migrante e ora sfollata, la mia carta d’identità porta etichette brutali, ognuna delle quali segna un capitolo di una storia che non ho mai scelto.

Tra le grida, le preghiere e i lamenti, le nostre voci rimangono inascoltate. Vegliamo, custodendo la brace dei sogni che si sta spegnendo e il barlume di speranza che si rifiuta di abbandonarci. Persiste il desiderio di un terreno familiare, dove il suono della pioggia una volta significava amore, non miseria. Il desiderio collettivo di tazze di caffè piene di calore e di storie di amicizia, non di morti, riecheggia nelle nostre grida. Così, noi piangiamo e il cielo piange per noi.

 

Haya Abu Nasser, giovane donna palestinese di Gaza, lavoratrice e membro del Comitato per la Costruzione della Casa Internazionale delle Donne a Gaza.

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