Sotto i cieli azzurri di Gaza, l’odissea di una sopravvissuta

Eccomi qui, un sopravvissuta che sta affrontando le conseguenze di cento giorni immersi nel caos straziante della guerra e della morte, vivendo in una tenda di fortuna. Le parole mi sono venute meno e i diari, un tempo vivaci, che condividevo sui social media, sono diventati silenziosi. Come si fa ad articolare l’indescrivibile, il vuoto che permane quando i sentimenti evaporano, lasciando dietro di sé il vuoto? Niente rabbia, niente tristezza, niente felicità: solo un vuoto dove un tempo risiedevano le emozioni.

Nella zona di Mawasi, a Khan-Younis, i giorni si sono susseguiti in una routine costante e senza ritmo, fatta di risvegli, cucina e ricerca continua di acqua ed elettricità. Stavo caricando il mio telefono per usare una torcia elettrica, un’ancora di salvezza per sapere cosa stava succedendo ai nostri cari nella zona settentrionale. La mancanza di comunicazione ci ha costretti a un pellegrinaggio, navigando per due o più ore su un carretto per raggiungere una sacca di connettività internet. Anche il semplice atto di trovare un bagno pulito richiedeva una camminata quotidiana di due chilometri, ogni passo inciso dal freddo implacabile.

Nell’Università Al-Aqsa, che prima aveva preparato i suoi allegri stand per il ballo di fine anno, diventata ora un centro per rifugiati, si è verificato un crudele paradosso: più di sei famiglie condividevano un unico bagno. La toilette, un tempo uno spazio banale, aveva ora raggiunto uno status sacro, un rifugio ambito dopo aver sopportato interminabili notti in fila. Compresi beffardamente l’ironia del termine “bagno”, perché l’agonia dell’attesa lo permeava di un significato quasi sacro.

Tra lacrime, rabbia e umiliazioni, un episodio rimane impresso nella memoria. La malattia mi ha colpito in mezzo al caos, con crampi e urla silenziose e implacabili. La ricerca dell’acqua portò a una fila di anime stanche di più di venti persone in attesa, nessuno si preoccupava del dolore degli altri. La porta del bagno divenne un portale di momentaneo sollievo, sorvegliato da una legione di ombre. Nessuno si preoccupava dell’agonia degli altri; l’empatia era un lusso che non potevamo permetterci.

In mezzo al caos, una donna, il suo bambino cullato in una mano che portava le cicatrici dell’esplosione di una bomba, non erano solo racconti inchiostrati sulla mia pelle, ma testimoni spettrali dell’accusa di una madre, il suo sguardo brandiva il pennello del giudizio mentre spiegava la storia di come io, ai suoi occhi, avessi ignorato con insensibilità l’appello di suo figlio, portandolo ad arrendersi alla vergogna di bagnarsi. In quel momento, l’abisso tra l’angoscia personale e la sofferenza comune divenne dolorosamente evidente. Mentre me ne andavo, la sua voce si è soffermata a raccontare la scarsità d’acqua e l’impossibilità di pulire i vestiti di suo figlio. La fragilità della sua esistenza ha trafitto il mio sconforto e le lacrime si sono mescolate alla rabbia per l’ingiustizia che ci legava.

Giorni dopo, con nient’altro che la nostalgia nel cuore, desideravo fuggire per riprendere una vita interrotta dal conflitto. Frutta, bagni caldi, acqua pulita, un letto circondato da pareti e sorrisi infusi con l’aroma del pane appena sfornato, del latte e della cannella: i semplici piaceri che desideravo. Eppure, la mia realtà mi incatenava, il sogno di un master eclissato dalla dura verità delle difficoltà economiche e della chiusura del confine.

Nei sacri confini delle nostre stanze, questo dolore maligno evaporerà come nebbia mattutina, lasciandoci soli, finalmente liberi dalle crudeli grinfie del dolore. Converserò con il divino sull’arazzo delle mie esperienze testimoniali e vissute, depositando le mie rimostranze finché il corso della vita non si trasformerà in un incantesimo per coloro che ne sono lontani.

Una ragazza resistente, mi piacerebbe essere chiamata così, ha attraversato queste terre, sfuggendo alle grinfie della morte, con il braccio audacemente alzato in segno di sfida al destino. Ha lottato contro la fuga, il freddo pungente, i morsi della fame e la sinfonia dello scroscio della pioggia, salvaguardando i suoi sogni mentre si spostava da una strada all’altra, da un quartiere all’altro. Anche all’ombra della morte, i miei amici e io abbiamo resistito, macchiati dalla polvere del dolore e della stanchezza della guerra. Il nostro cielo rispecchia un blu profondo e i nostri occhi, scuri e profondi, riecheggiano lo spirito sconcertato e arrabbiato di questa terra. Il cielo dorme sopra di noi e noi ne portiamo il peso, senza fiato ma senza sosta. Avanziamo senza sosta, come Sisifo, portando il peso di questa città a ogni passo.

Il profondo senso di estraneità e di solitudine che si prova nelle ore notturne, quando la comunicazione vacilla, non richiede una descrizione elaborata. Mi spinge a cercare qualsiasi mezzo per mettermi in contatto con i miei compagni, per comunicare che anch’io rabbrividisco per il freddo e desidero la loro compagnia, soprattutto in questa serena stagione di festa. Un messaggio ricevuto per caso, in mezzo a un segnale chiaro, fa nascere un’ondata di gioia. Resisteremo, navigando tra le tempeste, fino a quando non vedremo la balena blu danzare liberamente nell’oceano, lanciandosi davanti a noi con una forza sfrenata. Racconterà la saga della sua specie, sopravvissuta all’estinzione, che ancora pulsa tra le onde ondulate e affronta una tempesta dopo l’altra. Proprio per questo motivo, la resa non è un’opzione finché non mi crogiolerò alla luce del sole accanto alla balena blu, proclamando che, come lei, ho superato le tempeste del genocidio e le miriadi di tribolazioni.

Haya Abu Nasser

 

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