Le ong israeliane accusano: «A Gaza è genocidio»

Ieri mattina Gaza si è appesa a un miracolo. Erano passate da poco le 8 quando è arrivata una notizia dall’ospedale da campo di Al-Mawasi, la tendopoli sulla costa sud, sorta su quelli che un tempo erano campi agricoli, senza seguire un ordine, solo la disperazione: privi di mezzi, esausti e affamati, i medici hanno praticato un parto cesareo su una donna senza vita, Suad al-Shaer, ammazzata poche ore prima da un raid aereo israeliano che ha centrato la casa della famiglia Al-Zarab, a Khan Younis, dove viveva da sfollata. Era incinta alla 34esima settimana.

La piccola è nata prematura, l’hanno chiamata Suad come la madre. E Gaza si è appesa a un miracolo, sapendolo già effimero: senza incubatori, senza mezzi, Suad non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Si è spenta qualche ora dopo. Gaza non pare meritarsi nemmeno la speranza.

È attraverso la storia di Suad che si possono leggere i due rapporti usciti ieri, entrambi realizzati da due delle più note e autorevoli ong israeliane, B’Tselem e Physicians for Human Rights (Phri). Dicono, da due diverse angolazioni, la stessa cosa: Israele sta commettendo un genocidio.

Phri lo fa analizzando «lo smantellamento deliberato e sistematico della sanità gazawi e di altri sistemi vitali necessari alla sopravvivenza della popolazione». Attacchi diretti sugli ospedali, blocco degli aiuti medici e delle evacuazioni di malati e feriti, uccisioni e arresti di personale sanitario, «non un danno accidentale – scrive Phri – ma una politica deliberata volta a danneggiare la popolazione palestinese come gruppo».

In 64 pagine l’organizzazione ricostruisce le pratiche militari israeliane in ordine cronologico, fino ai massacri di massa nei centri per la distribuzione di aiuti e alla carestia imposta sulla popolazione.

B’Tselem compie una ricostruzione più ampia nel rapporto che già dal titolo dà conto dell’enorme sforzo, doloroso, di assunzione collettiva di responsabilità. «Il nostro genocidio», 88 pagine, analizza le politiche israeliane seguendo come linee guida gli elementi che individuano il genocidio secondo la Convenzione del 1948: uccisioni e gravi danni fisici o mentali, imposizione di condizioni di vita intese alla distruzione fisica, trasferimento forzato e distruzione sociale, culturale e politica.

Sia a Gaza sia in Cisgiordania, a rimarcare come l’obiettivo della pulizia etnica non sia in corso solo in un pezzo di Palestina storica, ma in tutta (cita anche le comunità palestinesi dentro Israele). È in corso dentro le prigioni «campi di tortura», nei campi profughi rasi al suolo, nelle macerie delle istituzioni culturali, educative e storiche.

La potenza del rapporto sta nella sua ultima parte, la più politica: «Genocidio come processo». «Il genocidio si verifica sempre in un contesto – scrive B’Tselem – Ci sono condizioni che lo rendono possibile, eventi scatenanti e un’ideologia guida. L’attuale attacco al popolo palestinese deve essere compreso nel contesto di oltre settant’anni in cui Israele ha imposto un regime violento e discriminatorio ai palestinesi. Sin dalla nascita dello Stato di Israele, il regime di apartheid e occupazione ha istituzionalizzato e impiegato sistematicamente meccanismi di controllo violento, ingegneria demografica, discriminazione e frammentazione della collettività palestinese. Queste basi poste dal regime sono ciò che ha reso possibile il lancio di un attacco genocida subito dopo l’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre 2023», definito dall’ong «l’elemento scatenante che spinge il sistema al potere a commettere un genocidio».

Le stragi sono proseguite ieri, nonostante le dieci ore di «pausa tattica» che Israele ha inaugurato domenica. I 65 palestinesi uccisi fino a ieri sera portano a oltre 59.800 il bilancio accertato (che non calcola i dispersi, un numero imprecisato che si aggirerebbe intorno ai 15-20mila). A crescere sono anche i morti per la fame: 14 solo tra domenica pomeriggio e lunedì pomeriggio, per un totale di 147, di cui almeno 88 bambini, l’ultimo ieri, Mohammad Ibrahim Adas.

Un bilancio agghiacciante che esploderà: come avvertono da settimane medici ed esperti, si è giunti a un livello tale di malnutrizione che molti moriranno comunque, anche se gli aiuti iniziassero a entrare con regolarità e ordine. Non sta accadendo: Israele insiste da due giorni sui 122 camion dell’Onu che ha autorizzato a varcare i valichi di terra, una goccia nell’oceano, quasi inutile, presi d’assalto da folle di disperati che non hanno tempo per attendere la normale distribuzione.

A nulla servono i lanci di paracaduti dal cielo, come le 25 tonnellate cadute su Gaza domenica, inviate da Giordania ed Emirati: l’equivalente di nemmeno mezzo camion. E sono caduti per lo più in aree inaccessibili, quell’85% di Gaza che le autorità israeliane hanno definito zone militari, off limits ai civili pena l’esecuzione sul posto. L’Onu si sgola: i paracaduti sono umilianti e inefficaci. Non cambia nulla.

Ieri Netanyahu, all’agenzia Arutz Sheva, continuava a negare la carestia in corso a Gaza, e alla fine è stato Donald Trump a smentirlo. Dalla Scozia ha detto che «c’è davvero la fame…la nostra priorità è sfamare i bambini».

Parole al vento, senza alcuna consapevolezza di sé e delle proprie responsabilità, fino a farneticare di «nuovi centri dove le persone entreranno senza confini», gestiti dagli Stati Uniti e su cui – dice – starebbe discutendo con Unione Europea e Regno Unito. Intanto l’Onu resta alla finestra: l’unica realtà in grado di distribuire aiuti salvavita in breve tempo, in modo capillare su tutto il territorio e con dignità ha le mani legate dai veti israeliani.

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