Sopravvivere al genocidio a Gaza City

Le immagini ripetitive, che appaiono sul cellulare come pugni nello stomaco, sono quelle di mappe con aree delineate da tossiche linee gialle e con icone, simboli e indicazioni relativi ad accessi o restrizioni. Significa che devi lasciare per l’ennesima volta quello che hai re-identificato e re-definito per decine di volte come casa. Che casa non è. Sono solo tende o rifugi temporanei da cui ci si sposta come atomi impazziti. La propria casa già non c’è più da tanto.

Mentre gli ordini di evacuazione da parte dell’esercito israeliano gettano migliaia di persone sulle strade, i carretti arrangiati con ferro, legno e ruote di macchine, trainati da asini, rappresentano uno dei pochi mezzi di fuga. Tutti stipati come sardine, per pochi spiccioli, ci si sposta da un posto all’altro, senza una vera meta.  «Il mio asino è morto a Gaza City colpito da una scheggia – ci dice Abdel – Oggi un asino è più prezioso dell’oro».

Affamati, stremati e costretti a spostarsi sotto i proiettili. Strade sfigurate ed edifici sventrati che rendono irriconoscibili interi villaggi. Questi i ripetuti massacri nel Nord della Striscia di Gaza che non smettono di colpire i discendenti dei profughi della Nakba.

Scorrone immagini di esseri umani che barcollano sotto shock, coperti dalla polvere di quelle che un tempo erano le loro case. E una cosa è chiara: le persone che pagano il prezzo della guerra sono i palestinesi.

A Gaza, dove non c’è distinzione tra un essere umano, un edificio o un albero, in mezzo a distruzione, massacri e completa miseria bisogna sempre rimettere in discussione tutto, bisogna sempre dubitare di tutte le cifre, dei morti, dei feriti, degli sfollati. «Non ci sono percorsi sicuri. Non ci possiamo muovere perché ci sono militari che sparano e droni che non si fermano mai», ci raccontano.

Che odore ha la paura? Nelle strade c’è odore di putrefazione e di morte, di acque reflue e di esplosivi. Ratti, scorpioni, mosche, pidocchi e zanzare vivono tra liquami e spazzatura. Alla fine anche le ceneri continuano a bruciare il fuoco della guerra.

Non entrano da settimane né acqua né cibo. La morte è ovunque, nelle bombe, nella ricerca del cibo, nella carestia. Affamare gli abitanti e allontanarli con la forza dalle proprie vite fa parte di un piano più ampio che mira ad annettere il Nord di Gaza, dopo averlo svuotato della sua popolazione. E visto che gli ostaggi israeliani non sono in cima all’agenda militare di Tel Aviv, ogni luogo è un obiettivo legittimo per gli aerei da combattimento.

Gli edifici giacciono in cumuli di pietrisco contro un cielo azzurro freddo. Un gruppo di uomini emerge vicino a un palazzo che era in piedi fino a pochi istanti prima che gli attacchi aerei israeliani lo radessero al suolo come una casa giocattolo. Stanno tenendo, su una barella improvvisata, una bambina, avrà forse nove o dieci anni, coperta di polvere – i suoi capelli, i suoi pantaloni – urlando a chiunque si trovi sulla loro strada di muoversi. E la bambina chiede in arabo: «Mi state portando al cimitero?». E anche se la lingua potesse essere tradotta con successo, raccolta e trasportata intatta da un mondo all’altro, impallidirebbe, fallirebbe, appassirebbe.

Niente elettricità, niente asili, niente scuole, niente università. Non è rimasto più nulla. E questa è la vera guerra. È essere costretti a far vivere la propria famiglia in un luogo vuoto, deserto, dove non c’è assolutamente più nulla.
Ora è Bisan ad essere morto. È stato ucciso da una macchina da guerra che non fa distinzione tra obiettivi. Era al porto di Gaza City. Qui regna la carestia. Non c’è niente da mangiare, nemmeno le lattine. Un chilo di pomodori, quando si trovano, costa 400 shekel (circa 100 euro). Non c’è carne, né pollo, né aiuti alimentari. La fame è usata come arma. Molte persone quindi vanno a pescare nel porto, dove si può trovare il bouri, la triglia. È un buon pesce se pescato in mare aperto, ma nei porti mangia la terra delle fogne.

E Bassma, quattro anni, la figlia di Bisan, ha perso il suo sostegno. Vorrebbe solo mangiare i suoi maamoul con il papà. Si muore all’improvviso, falciati da una bomba. Ma si muore anche di sfinimento. Di paura. Con i cuori spezzati. I bambini che perdono i genitori perdono il futuro. Nessun altro può svolgere il ruolo di padre o madre. «Mio marito era il pilastro della famiglia, il pilastro di questa tenda», ci dice Nabila. Ci sono migliaia di modi per condividere la gioia, ma per il dolore no, quello è solo tuo. «Siamo pieni di tutto quello che manca». Come si attraversa l’assenza senza perdersi, senza finire con lei?

È una distruzione totale della società, non solo a livello materiale. A causa della guerra le emozioni passano all’ultimo posto. È difficile donare affetto quando si passa tutta la giornata a cercare una tenda, a trovare qualcosa da mangiare, a prendere l’acqua, a riportarla. L’affetto è diventato raro, perché si è sempre in questo frullatore che gira, che gira e disperde attenzione, costringendo tutti a concentrarsi su una cosa sola: la sopravvivenza.

In questo genocidio la sopravvivenza ha la precedenza su tutto.

di Federica Iezzi

da il Manifesto del 6 dicembre 2024

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