Imparare dal NoExpo
Sistemo il testo dopo aver intervistato Neffa che torna a fare rap, 26 anni dopo. Che flash. Sono vecchio forse. 10 anni fa in questi giorni eravamo in fibrillazione, attesa, preparativi. Un giorno non può condensare anni di lavoro politico, di assemblee, di reti, di critica. La città vetrina, denunciata prima di entrare negli anni 10 di questo secolo, si era materializzata con la sua forza, il delirio (narrativo e non) del decoro si impossessava di Milano e il 3 maggio si declinava in tutta la sua forza con le spugnette, e così arriviamo alla grande sconfitta con l’elezione di Sala a sindaco. Il 1 maggio non è il giorno, è stato un giorno in cui il cielo grigio si è fatto pioggia.
La scelta del centro-sinistra di candidare Sala, e quindi la doppia vittoria di “Beppe” alla comunali, certificano la sconfitta di un movimento e la capacità del capitale di capitalizzare le vittorie. Chi aveva governato Expo diventava il sindaco della città che sotto la sua guida, giorno dopo giorno, replicava lo spirito del grande evento. Sala ha vinto anche con i voti di molte e molti che il 1 maggio 2015 erano in piazza. Michael Hardt mi ha detto un giorno “certo il comune è un qualcosa che vuole sconfiggere il capitalismo, ma il capitalismo senza il comune, ed il suo sfruttamento, non può esistere”, la vittoria di Sala mi pare che rifletta, con la distanza, tale idea.
Oggi Milano è la città degli eventi, della “settimana della”, del food, degli airbnb, e, come molte metropoli nel mondo, degli affitti irraggiungibili per la maggioranza di lavoratori e lavoratrici. La città è specchio di Expo, è una città pensata per ospitare eventi, per fruizioni brevi, vuole attirare un certo tipo di popolazione e non è così un caso che sia abitata da ricchi e ricchissimi e che in 10 anni ci sia stato un cambio importante di chi la abita.
La sconfitta non è iniziata, però, il 1 maggio, il 1 maggio è il sintomo evidente di una sconfitta, la sconfitta del movimento. Abo, nel suo articolo, ha raccontato 10 storie incredibili che il movimento NoExpo ha messo in moto, il percorso No Canal su tutto. E ha ragione, altre sarebbero da raccontare, per questo aggiungerei Soy Mendel che a Baggio aveva riportato un centro sociale, una diversa visione di socialità del quartiere, e il tentativo di dialogo allargato. Voglio dire si, è stata una sconfitta, ma non una tragedia. Quella è arrivata dopo.
Parlo di sconfitta pre-corteo perché quel giorno siamo arrivati divisi. La grande manifestazione, unitaria, non c’è mai stata per davvero. Non fummo capaci di mettere la politica davanti alla tattica, non siamo stati capaci di darci un obiettivo comune, abbiamo vissuto la giornata in maniera diversa con una polarizzazione tra il grande giorno in cui dare tutto e il passaggio per altri mesi di lotta. Più si avvicinava la data più la polarizzazione si faceva forte e i tentativi di mediazione saltavano perché di fatto non c’era un vero mediatore, singolo o collettivo. C’è chi spingeva “avanti” chi “indietro”, non ci parlavamo davvero, non c’era una strategia politica e neppure una lettura politica comune. Bisognava ammetterlo, capirlo, e affrontarlo…serenamente. Ma eravamo dentro un vortice. Molte e molti di noi hanno fatto almeno 18 mesi a 100 per preparare quelle giornate, con entusiasmo, forza, coraggio, e aspettativa.
A dicembre 2024 il Capitan Marcos ha parlato di un nuova proposta dell’EZLN, e tra una cosa e l’altra, ha sostenuto che stava lanciando un’idea di “non omogeneità”, nel senso che la proposta non volgeva a ridurre ad uno percorsi e pratiche. Unità non è assenza di differenza. Credo che oggi questo vada assunto, anche per evitare di cadere in pratiche colonaliaste come i movimenti occidentali spesso hanno fatto, senza accorgersene. La pratica della differenza deve essere un punto dirimente in ogni consesso comune.
I grandi cortei “unitari” non è detto siano una prova di forza, soprattutto se non c’è una vera convergenza di pratiche, analisi, obiettivi. Riconoscere differenze, valorizzarle, uscire dai rituali creando spazi politici di pensiero critico e così azione politica al più coordinata ma non omogenea sono una prospettiva interessante a cui tendere. Chissà se 10 anni fa sarebbero state coordinate utili, ci avrebbero fatto fare scelte diverse e ci avrebbero permesso di non prestare il fianco a fratture, giudizi, commenti e così alla sconfitta. Sono stati errori anche di “gioventù”, l’età media di chi dava forza e continuità al percorso “attitudine NoExpo” era bassa, molte e molti alla prima grande chiamata. L’ossessione dell’unità, del trovare la quadra, anche con un poco di innocenza sono state tra gli elementi che si sono vissuti. La biografia militante ha, probabilmente, concorso agli errori, non ha permesso di cogliere ostacoli che venivano posti dentro le assemblea nazionali o cittadine, posizionamenti e “simpatie” non hanno fatto fare le scelte necessarie a compattarci, ma allo stesso tempo quella stessa biografia ha permesso di allargare il campo del dialogo. Il 1 maggio in piazza si è arrivati divisi, la piazza ha rappresentato tale divisione. Ma in quella piazza sono arrivate persone di geografie, biografie politiche e grammatiche differenti. Persone da mezza Europa e da ogni angolo d’Italia. Fino all’arrivo di Non Una Di Meno e di Friday For Future non ci sono stati, per anni, momenti e spazi di dialogo così ampi, e forse tutt’ora oggi mancano ambiti di trasversalità e convergenza comune così variegati.
Il rifiuto della logica del grande evento aveva preso piede dalla campagne alle montagne passando per le tre metropoli d’Italia, Roma, Milano, Napoli e arrivando al mare. Era diventata una chiave di lettura comune dei processi urbani e di come la città imponga dinamiche al mondo rurale. Ciò che si mappò, capì e vaticinò in quegli anni è scolpito nei testi, nei libri, nelle interviste, negli appelli per le manifestazioni o per i Climate Camp. Forse, usandolo come eufemismo, proprio per questo il capitalismo dal volto “gentile” e progressista ha voluto premere sulla ferita che divideva i movimenti anti-capitalisti e marcare una frattura decisa, e impossibile da comporre, costruendo narrazione, scendendo in piazza con le spugnette (come raccontato molto bene nell’articolo di Maggioni), e in fine candidando Sala. Se l’avesse fatto la destra ci sarebbe stato uno spazio d’opposizione, ci sarebbe stata la possibilità di compattarsi e dialogare, scazzare, provarci, così si è marcata, invece, in maniera irreversibile la distinzione capitalismo/anticapitalismo nelle “sinistre”.
Di fatto quando l’Expo è finito Sala ha iniziato il suo governo della città proseguendo con quella logica e con l’ossessione di “salvare” l’Expo, il suo sito, ed il suo ricordo. Arrivando frazionati e divisi in piazza il 1 maggio non si è stati capaci di ricompattarsi dopo il corteo, il 3 maggio ha mostrato come Milano avesse rifiutato ciò che era accaduto, o si è capito fosse accaduto, solo 2 giorni prima…10 anni dopo possiamo dirlo, penso senza paura, la costruzione mediatica ha superato la realtà. Foto, video e ricostruzioni, anche dal basso, hanno ingigantito la dimensione dello scontro. Si è parlato delle vetrine e delle macchine bruciate, non di altro. Certamente era anni che Milano non viveva momenti similari e certamente non era “pronta”. Il campo “capitalista” ha gestito la partita in maniera perfetta, costruendo narrativa ed immaginario potenti che grazie, anche, alla frattura dei movimenti sono diventate la realtà.
Si poteva rispondere, certo, ma non c’era lo spazio politico e rabbia, asti, divisioni, dubbi, hanno mangiato le relazioni, il dialogo lasciando spazi a chi compattamente avanzava. Per anni non ci si è guardati in faccia, figurarsi se si poteva raccontare quella giornata in maniera diversa, rivendicando forza, trasversalità, radicalità e marginalizzando la parte dello scontro. Si poteva fare per opportunità politica, non c’era la forza per farlo. Non sto dicendo si DOVEVA, si POTEVA, ma serviva lucidità che però si è persa alla prima goccia di pioggia, prima del primo lacrimogeno.
Riconoscere gli errori non significa cancellare la forza di quel movimento, di quelle ore, di quel sogno, e della critica. Neppure le divisioni, le forzature, le speculazioni. Ma forzature e speculazioni sono una parte degli errori e hanno preso spazio per gli errori. 10 anni fa, a fine aprile, il campeggio “NoExpo” ospitò una delegazione di padri dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa. Un paio di loro uscivano da guerriglie e avevano una certa dimestichezza con la politica. Mentre da Milano li accompagnavo a Roma una dei due mi fa “Non siete tutti dello stesso collettivo, vero?”. Io gli rispondo “Sì, perché?”. “Si vede” fa lui. Ma poi ha aggiunto “Se quella è una riunione per un corteo è interessante. Da noi nemmeno prima di momenti cruciali ci trovavamo così tanti, così carichi”. Non capiva l’italiano ma masticava, e mastica la politica. Si era fermato a guardare, voleva capire, e mi ha chiamato alle 20,00 del 1 maggio 2015 per sapere com’era andata. Mi disse solo “Non date peso a ciò che scriveranno di voi” e mi salutò. Nella Milano della comunicazione, e nella stagione dei social network “Ciò che hanno scritto di noi” è andato velocissimo e dritto per la sua strada, noi camminavamo sparsi per diversi sentieri.
E’ stato un bel viaggio, ci sono state assemblee emozionati, trasferte per l’Italia e per l’Europa, abbiamo conosciuto un sacco di persone, segnato una critica che oggi è utile per affrontare le Olimpiadi 2026. Una critica che è stata utile, in alcuni casi, per evitare di candidare città per altri grandi eventi del capitale. Mi ricordo assemblee con parlamentari 5 Stelle che prendevano appunti, alcune con attivisti 70enni No Canal spintonare presidenti di consigli di zona, biblioteche piene, ospitate televisive, programma radio, e molte altre cose che servirebbe un libro per contenerle. E’ stata una sconfitta in una partita che abbiamo giocato. Ci siamo scontrati e feriti. “Ogni stop è solo un altro start” cantavano i Casino Royale. Mio figlio ogni volta che cade e si rialza riprende a correre e giocare evitando, però, di passare per la stesso punto dove è inciampato, e se proprio non può farlo cerca di passarci su in maniera diversa, non guarda dietro, va avanti, e cresce. C’è tempo. L’EZLN dice che dobbiamo costruire il giorno dopo, il giorno in cui il capitale non ci sarà più, dicono ci vorranno 120 anni. Abbiamo tempo.
Andrea Cegna
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