Expo e il mito sfatato del lavoro gratuito
Nel 2015 Milano è salita alla ribalta internazionale grazie all’Esposizione Universale, un evento che avrebbe dovuto rappresentare un’occasione unica di rilancio economico, culturale e turistico per la città e per l’Italia intera. Con lo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, Expo si presentava come un grande laboratorio di idee per affrontare le sfide della fame nel mondo, della sostenibilità ambientale e dell’agricoltura del futuro. Ma al di là dei padiglioni scintillanti e delle cifre da record, esiste un’altra faccia di Expo 2015: quella delle contraddizioni, delle promesse mancate e della protesta sociale.
L’organizzazione dell’evento ha comportato massicci interventi urbanistici che hanno trasformato profondamente alcune aree della città. Tuttavia, molti di questi interventi, si sono rivelati poco sostenibili sul lungo periodo. Le nuove infrastrutture, spesso costose e sottoutilizzate, hanno contribuito più alla speculazione immobiliare che al reale benessere dell3 cittadin3. Interi quartieri sono stati “riqualificati” in modo da attrarre investimenti e turismo, ma ciò ha spesso significato l’espulsione dei residenti storici, con l’aumento dei canoni d’affitto e dei costi della vita. Il risultato è stato un processo di gentrificazione che ha accentuato le disuguaglianze urbane e sociali.
All3 milanes3 expo-entusiast3 verrebbe da chiedere…
Quanto è aumentato il vostro affitto?
Riuscite a comprarvi casa?
Com’è cambiato il vostro quartiere?
Quanto costa fare la spesa nel supermercato di zona?
Se la vostra era una zona prima popolare e ora “in”, quanto sono aumentati i costi in generale? E la vivibilità?
È più o meno congestionata?
La viabilità è quella di prima?
E i vuoti architettonici che secondo alcun3 Expo è andata a riempire…non sono forse diventati vuoti sociali?
Rifletteteci.
Dove sono le piazze gremite di giovani la sera? Quanto vale di più il cocktail bar a 20 euro a cocktail rispetto alla birra bevuta al parco con l3 amich3?
E chi beneficia di questo? Chi beneficia del lusso, badate bene, del lusso e non della riqualificazione (che sarebbe altra cosa) di intere aree urbane?
Che fine ha fatto l’area Expo?
Già dai primi annunci del progetto il fronte NoExpo aveva previsto tutto questo. Questo movimento, eterogeneo e trasversale, ha raccolto attivist3, student3, lavorator3 e cittadin3 critic3 nei confronti delle logiche sottese al grande evento. Le critiche non riguardavano solo gli aspetti ambientali o urbanistici, ma si estendevano a una più ampia riflessione sul modello economico neoliberista promosso da Expo. Per i NoExpo, l’Esposizione Universale era il simbolo di un sistema che sfrutta il lavoro precario, privatizza i beni comuni e svuota di significato la partecipazione democratica.
#IoNonLavoroGratisPerExpo: il rifiuto dell’economia della promessa.
Uno degli aspetti più controversi di Expo 2015 è stato l’utilizzo massiccio di volontar3 e tirocinanti, molt3 de3 quali giovani e altamente qualificat3i, impiegat3 senza retribuzione con la promessa di “fare esperienza” e “arricchire il proprio curriculum”. Questo approccio ha suscitato una forte reazione nel mondo del lavoro e della formazione, dando vita alla campagna #IoNonLavoroGratisPerExpo.
La campagna ha portato all’attenzione pubblica il problema del lavoro gratuito mascherato da opportunità formativa, denunciando la retorica dell’“esperienza” che nasconde pratiche di sfruttamento. In un contesto già segnato da precarietà e disoccupazione giovanile, la proposta di lavorare senza compenso per un evento da miliardi di euro è apparsa a molt3 come una beffa.
#IoNonLavoroGratisPerExpo è stata una delle prime espressioni visibili e strutturate di opposizione a quella che oggi chiamiamo l’economia della promessa: un sistema che chiede all3 giovani di investire continuamente nel proprio futuro (in termini di tempo, risorse, formazione, disponibilità) senza offrire alcuna garanzia concreta di ritorno. Un modello che, sotto il velo della meritocrazia, nasconde un crescente sfruttamento sistemico.
Lanciata tra il 2014 e il 2015, la campagna #IoNonLavoroGratisPerExpo è nata come risposta diretta a questo modello di reclutamento del personale. Il progetto prevedeva l’impiego di oltre 18.000 volontari, in larga parte giovani e studenti, per coprire mansioni fondamentali come accoglienza, supporto linguistico, gestione dei flussi e attività logistiche. Il tutto senza alcuna retribuzione, con la sola promessa di un attestato di partecipazione e la possibilità di “vivere un’esperienza unica”.
Ma…volontariato o lavoro gratuito?
Expo 2015, evento dal budget miliardario (si stimano circa 13 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati), si è servita del volontariato istituzionale in modo massiccio e strutturato. Le figure impiegate, pur formalmente qualificate come volontar3, svolgevano compiti assimilabili a quelli di ver3 e propr3 lavorator3 subordinat3, spesso con orari fissi, responsabilità chiare e carichi di lavoro intensi.
L’iniziativa #IoNonLavoroGratisPerExpo ha denunciato questo meccanismo come una distorsione sistemica del concetto di volontariato, utilizzato per abbattere i costi di gestione dell’evento e aggirare normative sul lavoro. Il messaggio centrale della campagna era semplice quanto potente: lavoro è lavoro, e deve essere retribuito.
Chi c’era dietro la campagna
La campagna è stata promossa da una rete eterogenea composta da attivist3 precari3 e collettivi studenteschi, tra cui l’allora CASC e l3 precari del Collettivo Lambretta, Rete della Conoscenza e LINK, sindacati di base come ADL Cobas e USB, professionist3 del settore culturale e creativo, ricercator3 e accademic3
La forza del movimento risiedeva nella sua capacità di unire mondi diversi ma accomunati da un’esperienza simile: quella del lavoro intermittente, non riconosciuto, spesso gratuito, sorretto dalla retorica della formazione.
#IoNonLavoroGratisPerExpo ha avuto successo grazie ad un approccio capillare che si è presto esteso in tutto il paese: campagne mediatiche, la produzione di materiali visivi (meme, infografiche, manifesti digitali, azioni pubbliche e flashmob, come presidi davanti alle università o nei pressi delle sedi Expo, campagne mail bombing verso enti e università che promuovevano il volontariato per Expo
In parallelo, la campagna ha svolto un’azione di controinformazione fondamentale: ha reso visibili le contraddizioni del modello Expo, ha raccolto testimonianze dirette di volontari sfruttati, ha aperto un confronto critico sul modo in cui le grandi manifestazioni pubbliche usano la leva della “formazione” per giustificare il lavoro gratuito.
Alcuni numeri possono far capire le dimensioni di quello che si stava generando e che sarebbe diventato presto paradigma del mondo del lavoro
Secondo i dati ufficiali di Expo:
-Furono attivati 18.500 volontari3, in parte reclutat3 tramite convenzioni con università e associazioni del terzo settore.
-A quest3 si aggiungevano circa 800 tirocini formativi, molti dei quali non retribuiti.
-Il bando per i volontari3 prevedeva un impegno minimo di 5 ore al giorno per almeno 14 giorni, con attività spesso indistinguibili da quelle svolte dal personale retribuito.
Le testimonianze raccolte dalla campagna parlavano di:
-Turni di oltre 8 ore sotto il sole, senza adeguata protezione o pause.
-Ruoli assegnati all’ultimo minuto, con mancanza di formazione e chiarezza.
-Pressioni psicologiche a non “lamentarsi” per non perdere l’attestato finale.
-Università compiacenti, che incentivavano la partecipazione senza offrire alternative retribuite.
Il merito della campagna #IoNonLavoroGratisPerExpo è stato quello di rompere un tabù: l’idea che lavorare gratis per “entrare nel giro” sia accettabile. Ha posto al centro del dibattito il valore del lavoro nel contesto contemporaneo, soprattutto per i giovani. Ha anticipato i temi oggi al centro della discussione sul lavoro culturale, il lavoro creativo, il digitale e le nuove forme di precariato.
Dopo Expo, la riflessione lanciata dal movimento ha alimentato altre battaglie simili, tra cui le proteste contro i tirocini non pagati nelle istituzioni culturali, le campagne per il giusto compenso per freelance e professionisti (come #FairWork), la nascita di reti di lavoratori dell’arte e della cultura che rivendicano diritti e tutele.
Valentina Raimondi
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