Condannare la nonviolenza. Appunti sulle mobilitazioni per Gaza

La manifestazione nazionale di sabato a Roma, chiamata dalle organizzazioni palestinesi in Italia, è stata davvero impressionante. Non so quante persone ci fossero, alcune dicono seicentomila, alcune un milione, chi un milione e mezzo. Da via Nicola Salvi, dove il collettivo di Fabbrica ex GKN ha creato per un po’ una sorta di jam session di cori da movimento, ho visto scorrere al fianco del Colosseo decine di migliaia di persone, il loro disinteresse turistico le barbarizzava, sapevo di essere parte di un’invasione. A fine percorso, in Piazza San Giovanni (quando ancora c’era chi partiva da Piramide) ho del tutto realizzato ciò che fino a quel momento cercavo, scaramanticamente, di non vedere: siamo a un punto di svolta epocale. Le settimane di mobilitazione continua – entrata in una fase ad alta intensità dopo lo sciopero generale del 22 settembre – tra presidi, cortei, azioni, scioperi e veri e propri riot sono state osservate da tutto il mondo. All’estero dicono che “Blocchiamo tutto” (pronunciato in italiano) sia uno slogan brillante, perché se l’economia è complice di un genocidio, allora bisogna fare di tutto per danneggiarla: let’s block everything si traduce immediatamente in prassi.

E funziona: se secondo un preziosissimo report di Conflavoro dal titolo Analisi dell’impatto economico e sociale della conflittualità sindacale in Italia, adeguatamente pubblicato stranamente lo scorso 3 ottobre, la frequenza altissima di scioperi in Italia (circa tre al giorno), dovuta alla “frammentazione sindacale”, provoca ogni anno un danno sensibile all’economia e un “danno reputazionale per gli investitori internazioinali”. Funziona se Libero e il Giornale, fondando le proprie stime su questo report, corrono a mostrare i denti neoliberali (la coda di paglia) sostenendo che l’ultimo sciopero generale sia costato l’8% del PIL di un giorno, ovvero un miliardo di euro (nulla in confronto, direi, a quanto costino in soldi pubblici Libero e Il Giornale dalla loro fondazione). Funziona, se il Governo Meloni, pur controvoglia, ha ritirato per la prima volta la licenza di un export di armi (munizioni) destinate a Israele.

La narrazione controrivoluzionaria

Sappiamo che bloccare tutto dà risultati proprio perché l’alleanza tra fascismo e neoliberismo, di cui questo governo Meloni è espressione perfetta, ha fin da subito mobilitato in Italia i media mainstream e le istituzioni per diffondere (forse meglio: propagandare), insieme a una piangina francamente insopportabile (ma che insiste sulla retorica della vittima), una precisa e molto più pericolosa narrazione controrivoluzionaria. Il movimento convergente “Blocchiamo tutto” ha correttamente spostato la lotta dal piano culturale (posizionarsi contro il genocidio del popolo palestinese) sul piano materiale (bloccare l’economia che rende non solo possibile, ma auspicabile un genocidio a trazione imperialista). La strategia dell’establishment è riorganizzare la sovrastruttura, cioè la narrativa degli eventi, per dare “copertura” ideologica a un aumento vertiginoso della repressione del conflitto (con strumenti già disponibili, impreziositi dal DL Sicurezza) per, da ultimo, immutare la struttura, ovvero difendere gli stessi rapporti di forza economici e politici giustamente sotto attacco.

Facciamo un esempio: durante lo sciopero generale del 22 settembre chiamato dai sindacati di base a Milano è scoppiata una “rivolta” alla francese in Stazione Centrale. Chi manifestava aveva bene in mente le parole d’ordine della giornata (“blocchiamo tutto”) e sapeva che in altre città (come Napoli e Roma) l’occupazione simbolica della viabilità ferroviaria, dopo qualche piripiglia, era stata permessa; chi avrebbe dovuto gestire l’ordine pubblico evidentemente no. Sappiamo come è andata: fermi (fin da subito), ferit*, il lancio massiccio (a centinaia) di gas lacrimogeni prima nell’atrio e poi sulla piazza, dunque in via Pisani dove si è trasferita la “guerriglia”, persino un appartamento incendiato (dal lancio di un celerino), infine lo stallo, che si è sciolto solo a serata inoltrata. Dalla possibilità di un’occupazione simbolica e circoscritta nel tempo, l’improvvisazione da ambo le parti ha portato a un blocco che è durato fino a tarda sera.

Il governo Meloni, attraverso un’operazione propagandistica enorme, ha subito provato a ridurre l’intera mobilitazione al momento di violenza imprevisto: la manifestazione è in contraddizione se chiede la pace usando della violenza; così passate dalla parte del torto; cosa c’entra spaccare una vetrina con la Palestina; eccetera. Con la richiesta, prevedibile, rivolta a chi da sinistra ha promosso o partecipato, di condannare le violenze. Il governo aveva perso consenso sul tema del genocidio del popolo palestinese e, conseguentemente, si mostrava preoccupato di fronte alle potenzialità “rivoluzionarie” del movimento. Per questo: ha frettolosamente colto l’occasione per cambiare discorso: quando le condanne sono arrivate, mosse dall’illusione di preservare la riuscita dello sciopero, queste hanno rafforzato il consenso del governo. Non possono coesistere conflitto e consenso, contemporaneamente, tra parti. Non è possibile mettere in discussione l’autorità da una posizione di accondiscendenza all’autorità.

Cambiare discorso, significa, nello specifico, agire in senso controrivoluzionario. Rafforzare l’egemonia culturale significa manutenere il terreno per l’egemonia materiale. Vuol dire, insomma, fare prevenzione, difendere i rapporti di forza preesistenti: su questa base di consenso (la condanna della violenza), il governo ha formulato dei passi indietro sulle parole d’ordine – bloccare tutto (le medesime che hanno permesso al movimento un salto di qualità) –, difendendo lo status quo (in particolare gli accordi strategici e commerciali con israele), lasciando completamente libero il campo alla repressione. I capri espiatori sono sempre gli stessi: attivist* e militanti da un lato; persone razzializzate dall’altro (a Milano, la profilazione si spinge oltre, immaginando una solidarietà tra “antagonisti” e “maranza”; che se fosse, sarebbe davvero rivoluzionaria). Undici i fermi, infatti, di cui cinque convalidati, con due minorenni ai domiciliari (inizialmente senza neanche poter frequentare la scuola), diversi daspo urbani e un’indagine tutta da farsi.

Le intuizioni del nemico

Visto che le intuizioni del nemico sono sempre più accurate delle nostre, avremmo potuto fin da subito difendere quell’eccesso di violenza, perché è stato proprio quell’eccesso a cogliere impreparato un intero ordine costituito e, dunque, a essere decisivo. E a determinare il campo prossimo di un’intera mobilitazione, cioè di aumentare la soglia minima del conflitto, di estendere i confini dell’agire politico, di normalizzare un certo tipo di “violenza” politica. Dal 22 settembre lo slogan “blocchiamo tutto” ha come fatto un salto di qualità, si è estetizzato: le pratiche di blocco sono diventate codice condiviso, lo spettro delle azioni possibili contro l’economia del genocidio e i suoi simboli (le infrastrutture, la viabilità) sono diventate di tutt*. Solo partendo da qui si può riflettere sulle novità di queste mobilitazioni e sulla loro imprevedibilità, dunque sulla loro efficacia.

Ancora: se quello che fa la narrazione controrivoluzionaria è spostare l’attenzione dalla lotta contro il genocidio del popolo palestinese, che ha un consenso ampissimo, ai metodi di protesta per giocare su un campo ideologico favorevole a battaglia repressiva e difendere lo stato delle cose; forse noi dovremmo guardare esattamente ai quei metodi di protesta e fare esattamente ciò che loro ci implorano di non fare. Guardare la vetrina e non la luna. Attenzione però a non estetizzare senza politica: la violenza rivoluzionaria è uno strumento, non un fine, e per questo deve porsi un’obiettivo chiaro. La “violenza” di questo momento è il blocco (il fatto che l’unica cosa che è stata rotta il 22 settembre siano due porte a vetri di accesso alla stazione ne è la prova): qual è il suo fine? Beh, loro fingono di non saperlo ma, per fortuna, noi lo conosciamo bene: fare pressione a questo governo per l’interruzione di ogni forma di collaborazione con israele, per imporre l’embargo sulle armi, per spingere, a livello europeo e internazionale, l’isolamento dello stato sionista, dunque sanzioni economiche. Fare pressione per approvare il riconoscimento dello stato di Palestina, dunque imporre una tregua duratura e una pace giusta, che abbia come elementi fondativi e indiscutibili la restituzione della terra al popolo, il riconoscimento e tutela del diritto di ritorno, il supporto al processo di autodeterminazione, l’avviamento del processo per crimini contro l’umanità e violazione dei diritti umani ai governi israeliani dal 1947. Vogliamo tutto e subito.

La propaganda di sistema

La narrazione controrivoluzionaria del Governo, cioè per esteso la propaganda di sistema, agisce su più fronti, ben oltre la criminalizzazione di ogni protesta che si ponga degli obiettivi concreti, materiali, bollandola come violenta (violento è, per questo governo, tutto ciò che mette in pericolo l’ordine costituito). Si realizza, per dire, nel tentativo di isolare, col supporto materiale delle intimidazioni (mascherate da sanzioni) degli Stati Uniti, di Francesca Albanese e delegittimare il suo ruolo istituzionale, dunque, per esteso, ogni presa di posizione simile (per esempio raccontando la sua personalità come “isterica”, utilizzando un topos tipico del patriarcato, usato anche per Greta Thumberg). Si realizza nell’infantilizzazione della missione della Global Sumud Flottilla (che ha l’enorme merito di aver superato l’impotenza diffusa, mostrando una via per la rottura dell’assedio di israele, anche marittimo, della Striscia di Gaza), arrivando addirittura a sostenere che sia un’operazione di marketing politico (come se essere catturat* dall’esercito “più morale del mondo” fosse il giusto prezzo per qualche migliaio di interazioni social e un po’ di copertura mediatica).

Dobbiamo ricordarci che il lavoro di Francesca Albanese, la missione della Global Sumud Flottilla e ogni mobilitazione al fianco del popolo palestinese, comprese quelle che operano violenza politica, insieme rappresentano sono un’attacco frontale e inevitabile al governo Meloni, che rifiuta di interrompere i legami commerciali e diplomatici con israele nonostante per la Corte Internazionale di Giusticia israele stia compiendo crimini contro l’umanità. Prima degli eventi più specificatamente insurrezionali, il governo Meloni non ha mai neanche temuto di dover mettere in discussione gli accordi militari e strategici siglati da aziende a partecipazione statale (come Leonardo ed Eni) con israele. Questo nonostante secondo il diritto internazionale (come ricorda il report di Francesca Albanese Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio), ogni soggetto politico istituzionale o entità aziendale deve immediatamente interrompere ogni accordo economico con un altro soggetto non appena abbia il ragionevole sospetto che stia violando i diritti umani (su queste e altre basi, la denuncia che arriva in questi giorni). Senza le mobilitazioni della “flotta di terra”, la missione della Global Sumud Flottilla sarebbe stata non solo molto più pericolosa, ma anche molto meno incisiva. Tutto e subito, unit* in un fronte antifascista e antisionista.

Condannare la nonviolenza

Bisogna comprendere che il governo Meloni vuole rimanere immobile perché israele è un alibi, un altrove sognato: la sua violenza (l’apartheid, lo sfruttamento, il genocidio, l’ecocidio) è condivisa ideologicamente dal neofascismo occidentale. Dunque la loro difesa dello status quo non è pretestuosa, ne va della sopravvivenza di un sistema e di un’ideologia. Avere bene a mente questo ci aiuta a tenere alto il livello della lotta culturale e materiale.

Perché non si vanifichino le mobilitazioni delle scorse settimane bisogna prestare il meno possibile il fianco al nemico, alla sua immaginazione controrivoluzionaria. Dal momento che proviene dal medesimo nostro retroterra culturale, è molto attrattiva: ne possiamo uscire, ne siamo fuori solo se agiamo politicamente e con determinazione, al posto di fare penitenza quando ci additano. Questo si traduce, anche, in una sospensione del giudizio delle pratiche di chi è al nostro fianco e osserva il medesimo orizzonte, in particolare di fronte a loro. Condannare ogni forma di violenza è il precetto morale attraverso cui il realismo capitalista segretamente impesta l’inconscio sociale per delegittimare ogni slancio verso il capovolgimento politico.

Possono essere fatte, sempre, valutazioni sugli strumenti e sugli obiettivi, sul tempismo e sull’organizzazione. Non si può però credere che a una violenza sistemica e secolare, a una forza genocida e imperialista si possano contrapporre le passeggiate pacifiche. Non è comprensibile, e nemmeno auspicabile, che questo tipo di mobilitazioni avvengano “sotto controllo”. Abbiamo impegnato decenni prima di “riprogrammare” la nostra mente collettiva: per troppo tempo abbiamo pensato, venivamo pensati che agire fosse inutile, che ormai la strada era battuta. Adesso che abbiamo ripreso coraggio, persino dopo una pandemia che ha criminalizzato ogni “assembramento” (ogni “folla” in quanto tale) e paralizzato la nostra agency, abbiamo riscoperto il piano materiale per ridimensionare quello culturale. Dobbiamo continuare, non farci ingolosire da ciò che abbiamo lasciato alle spalle, compresa la nonviolenza. Forse, potremmo persino cominciare a condannare la nonviolenza!

Ciò che abbiamo fatto non basta, ovviamente. Sarà faticoso e disperante ma si può solo andare avanti, anche perché la risposta del Governo e dell’establishment capitalista sarà molto violenta: hanno il coltello dalla parte del manico, hanno i mezzi di produzione. Per dire, è di questi giorni la notizia della proposta di un atto del Senato 1627, da Maurizio Gasparri, che ha lo specifico obiettivo di criminalizzare ulteriormente le manifestazioni al fianco del popolo palestinese, equiparando l’antisionismo all’antisemitismo. Non possiamo abbassare la guardia, non possiamo più cercare conferme da un sistema politico ed economico che non è mai stato pacifico, che ha ormai perso la maschera. L’espressione rivoluzionaria di questi giorni dice che lo abbiamo sempre saputo.

Di Demetrio Marra
Foto dalla manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma
di Martina Micciché e Saverio Nichetti

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Una risposta a “Condannare la nonviolenza. Appunti sulle mobilitazioni per Gaza”

  1. Mario Cangini ha detto:

    Il confronto dialettico riguardante la realtà storica del presente è indispensabile all’ individuazione delle scelte che ci condurranno al raggiungimento e alla condivisione a livello internazionale dell’ obbiettivo di liberare definitivamente il mondo da ogni forma di rigurgito d’imperialismo coloniale!

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