Una speranza disperata
Appunti nella marea in rivolta in Italia contro il genocidio.
Dal 22 settembre in poi è accaduto qualcosa di profondamente atteso ma che ha spiazzato tuttx: in tutto il paese è sceso di nuovo in campo il conflitto sociale di massa, che ha vissuto di giornate in più sequenze tutte collegate in un montare sempre più forte, proprio come il fiume che si gonfia inesorabile dopo una grande pioggia. Una marea che è a tutti gli effetti un movimento, con dinamiche specifiche e spurie ancora complesse da decifrare, ma in cui può essere importante prendersi il tempo di pensare a cosa stiamo vivendo mentre lo stiamo vivendo, prendere un respiro di ascolto dopo l’azione tumultuosa. Questi appunti mettono insieme riflessioni, domande, dubbi, esperienze vissute e attraversate in particolare nelle piazze di Milano e Torino ma in costante connessione con le onde che si sono schiantate ovunque in Italia contro la quotidianità del genocidio in Palestina e come “equipaggio di terra” in supporto ai tentativi di rottura dell’assedio a Gaza da parte delle Flotillas e in protesta contro il loro rapimento da parte dell’esercito israeliano.
Ogni giorno sembra che tutto possa finire e ogni giorno si aggiunge una nuova mareggiata imprevista che cambia le carte in tavola, le previsioni, le aspettative. E da qui possiamo cominciare.
Il ritorno dello sciopero come interruzione.
In tutta Italia e anche a Milano è stato evidente che le giornate del 22 settembre e del 3 ottobre hanno chiarito per l’ennesima volta che lo sciopero non è un vecchio arnese novecentesco, un qualcosa che riguarda solo i sindacati o alcuni settori tradizionali del mondo del lavoro, una vecchia pratica che non interessa ne serve più: questi scioperi dimostrano la potenza dell’interruzione reale del funzionamento economico e sociale dello spazio urbano e della sua logistica, in cui ne emerge chiara l’estrema efficacia se orientata in modo pulito e concreto a obiettivi raggiungibili, in questo caso nel come può aiutare a bloccare l’economia del genocidio. Il lavoro svolto dalle sigle sindacali del sindacalismo di base (e con colpevole ritardo e ruolo ambiguo, per usare un eufemismo, anche della CGIL) aggiunge come elemento che ci può essere una vita di uscita alla crisi del sindacalismo tradizionale e del blocco della produzione nelle sue forme rituali e canoniche (temi che sono presenti da anni grazie agli scioperi nella logistica e nelle sperimentazioni degli scioperi femministi e per il clima, su cui torneremo più in fondo). Una via d’uscita che travalica le volontà e capacità delle stesse organizzazioni sindacali, ma che torna ad essere un processo nelle mani di lavoratrici e lavoratorx, in qualsiasi posizione sociale e che siano attivi o inattivi, uno sciopero che dopo anni di evocazione del suo poter essere “sociale” lo è stato davvero, in cui milioni di persone si sono svegliate quelle mattine dicendo a sé stesse e a chi gli stava intorno “oggi non sarà un giorno come gli altri”.
Sciopero come movimento dunque, che riprende potere in città, occupandola, creando un tempo diverso attraverso una forza riscoperta, di numeri ma anche di capacità di difesa e attacco in funzione di obiettivi ampiamente condivisi e quasi lapalissiani: se diciamo di bloccare tutto, poi blocchiamo tutto, per davvero. E “Blocchiamo tutto” è forse il passepartout simbolico, il segno, il nome, che rimane più di tutto come la novità di questo momento, che risuona e si richiama con il “Bloquons tout” lanciato dal 10 settembre dalle mobilitazioni in Francia contro il governo e la finanziaria più cruenta degli ultimi anni, un bloccare tutto che suona i suoi tamburi con le rivolte in corso in Marocco, Nepal, Indonesia e non solo, con una poetica semplicità che può diventare la bandiera sotto il quale continuare a far tremare le città e la terra.
Le gocce e la morale colma
C’è giustamente da chiedersi come mai questo enorme sussulto sia accaduto qui e ora, dopo due anni di genocidio in diretta streaming, che è ormai la categoria che forse diventerà la definizione storica di questa esperienza globale sulla pelle e i cadaveri palestinesi e le macerie di Gaza, nella tregua a cui stiamo assistendo in questi giorni che tutti sanno non potrà mai essere vera pace per nessuno in quella terra.
C’è un intreccio che potremmo analizzare come la necessità di reagire all’insopportabile e la possibilità del mettersi a rischio che diventa più plausibile e immaginabile.
La fase attuale – la fase finale nei piani espliciti di Israele – del genocidio è diventata sempre più cruenta e spietata, chiaramente non perché fosse light al suo inizio o fosse pensabile l’apartheid e l’occupazione coloniale nei decenni precedenti, ma la persistenza del progetto sionista senza alcuna vergogna, freno, nelle dichiarazioni esplicite di famelici appetiti di terre su cui costruire e guadagnare, sopra i corpi ancora caldi di decine migliaia di persone, e nell’inazione totale di qualsiasi piano istituzionale nazionale e internazionale, ha portato a un aumento vertiginoso della temperatura morale della percezione di quello che sta accadendo anche in una ampia fetta di popolazione, in cui l’impotenza è diventata non cruccio individuale di cui vergognarsi ma sensazione insostenibile da portare da qualche parte. Le gocce potranno essere state di origini e specificità diverse per ognunx, ma la misura è diventata definitivamente colma per tuttx ed è diventata esondazione continua in meno di tre settimane (dal 22 settembre ad oggi sono passati 17 giorni).
A questo sembra connettersi un’ulteriore elemento di novità degli ultimi mesi: dopo due anni di manifestazioni grandi e piccole, di iniziative digitali e culturali, di raccolte firme e di prese di posizione pubbliche, la Freedom Flotilla prima, la Global March to Gaza poi e infine la Global Sumud Flottilla e la seconda e ultima Freedom Flotilla hanno rappresentato qualcosa in più dell’ennesimo tentativo di mobilitazione tra le tante. Il vedere che centinaia di persone da diversi paesi dell’area mediterranea e dal continente europeo scegliessero di mettere a rischio la propria vita per fare qualcosa contro il genocidio a Gaza, in modo semplice, senza necessità di grandi passati militanti, di grandi esperienze, di particolari doti oratorie o intellettuali, ma solo la volontà di mettere a disposizione il proprio corpo per navigare e portare solidarietà, aiuto concreto e rompere da fuori l’assedio delle bombe e della fame, a partire dal proprio posizionamento ma senza rimanerci paralizzati, da ognunx secondo le proprie possibilità e capacità, ha rappresentato uno spiraglio di possibilità in cui riconoscere che non solo questa cosa era giusta, non solo era possibile, ma che chiunque poteva farlo.
Questo intreccio ha evidentemente fatto da brodo di coltura a queste giornate di mobilitazione tra le più diffuse e importanti degli ultimi anni in Italia, in cui i precedenti illustri si devono (non a caso) recuperare nell’irruzione dello sciopero femminista di Non Una di Meno prima e negli scioperi per il clima poi, e prima ancora nel ciclo di rivoluzioni e movimenti internazionali del 2011 dalle rivoluzioni tunisine,egiziane, siriane in poi e nel cosiddetto movimento Occupy-Indignados. Possiamo riscontrare somiglianze che possono aiutare a riflettere sui movimenti di massa di questa fase, in Italia ma non solo: la capacità di alcune situazioni particolari, come uno specifico femminicidio o la scelta di una ragazza di scioperare tutti i giorni davanti alla propria scuola contro l’inazione del mondo di fronte alla catastrofe climatica (che, guarda caso, era a bordo delle navi in rotta verso Gaza), di smuovere emotivamente e moralmente milioni di persone che riescono a riconoscersi in quella scelta, in quel dolore o paura, a vedere in quell’azione un esempio replicabile a cui aderire in prima persona, e in un’immediata connessione e sensazione di contagio internazionale. C’è qualcosa che va ascoltato attentamente della capacità di un punto particolare del mondo di diventare totalità, di diventare urgenza di tuttx, e di come questa capacità scavalchi i limiti o l’esistenza o meno di forme organizzative politiche e sociali intermedie capaci di dare forma, strumenti e sostegno all’esplodere di questo tutto.
Da questi esempi arrivando alla Global Sumud Flotilla c’è anche qualcosa di disperato in questi casi, di slancio in una causa apparentemente persa, in cui la controparte sembra invincibile, ma in cui unirsi e agire per la giustizia connettendosi alla resistenza di un popolo oppresso e massacrato sembra in realtà l’unica vera scelta possibile, un moto emotivo, morale e profondamente politico che colpisce, stupisce, ma sostiene nelle solitudini da spettatori a cui si viene ridottx nella quotidianità e richiama all’azione individuale e collettiva.
Nell’atmosfera da fine del mondo che circonda tutte queste esperienze, in cui la distruzione irreparabile della vita diventa una realtà concreta per il popolo palestinese ma è l’orizzonte a cui siamo destinati tuttx, il panico si trasforma in rabbia a cui fare spazio e tempo.
C’è sicuramente da interrogarsi su come mai il bombardamento di immagini di palestinesi trucidati non abbia creato immediatamente lo stesso effetto, e qui ricadono vari fattori che meriterebbero un approfondimento, tra cui gli effetti dello sguardo coloniale e antiarabo sempre presente in Occidente e in cui siamo costantemente immersi, ma penso sia importante ad oggi concentrarsi su come questo frangente al momento stia avendo la capacità positiva di trasformare l’atmosfera da una palude colpevole a un’onda burrascosa.
Una rivolta contro l’insopportabile.
In questa ondata ci si ritrova arrabbiati con tante e tanti, ci si ritrova prontx a fare qualcosa di forte per dare un segno e interrompere questo ciclo infinito di violenza di cui siamo statx spettatorx, e l’obiettivo concreto delle giornate di bloccare tutto, dai blocchi ai porti alle stazioni a qualsiasi strada appare a un certo punto come l’unica conclusione possibile e necessaria delle giornate, a prescindere da quello che hanno pianificato le organizzazioni sindacali o i diversi collettivi.
E c’è da soffermarsi ancora in particolare su cosa è successo il 22 settembre a Milano. Alla fine del corteo si susseguono commenti lungo gli ultimi metri della manifestazione da telefono a telefono, “oh hanno occupato la stazione a Napoli!” “grandi cazzo… anche a Torino!” “Stanno provando a entrare anche a Termini a Roma!”: una scossa elettrica di eccitazione si diffonde e arrivati in piazza Duca d’Aosta con la piazza stracolma e mentre dal camion sindacale di testa si susseguono discorsi e slogan diversi piccoli gruppi di manifestanti iniziano a urlare “DENTRO! DENTRO! DENTRO!”.
Ora non staremo a fare la diretta live minuto per minuto dell’accaduto (lasciamo questo lavoro alle cronache purtroppo giudiziarie…), ma c’è semplicemente da annotare questo: a un certo punto migliaia di persone hanno cercato da più punti di entrare in stazione, con una velocità, una creatività e una determinazione impreviste da tutt*, sia delle forze dell’ordine che degli organizzatori.
La questura di Milano, al contrario dell’operato delle forze dell’ordine di molte altre città, ha deciso di impedire in qualsiasi modo questo tipo di azioni, senza intavolare nessun tipo di interlocuzione, scegliendo esplicitamente il terreno dove incontrarsi: se ti avvicini ti manganello, ti gaso, ti arresto.
E da qui l’agire, il prendere posizione, partecipare alla giornata di mobilitazione diventa rivolta. E’ risultato inaccettabile a livello di massa che la polizia bloccasse con quell’estrema violenza un obiettivo simbolico ma necessario della giornata. E quando la marea prova ad essere contenuta farà solo onde più grandi e irresistibili.
Le persone che si sono ritrovate in quel contesto, come in molti altri momenti di scontro con la polizia in queste settimane, è piuttosto mista e sfugge ai tentativi della cronaca giornalistica di costruire i nuovi mostri, i pericolosi maranza da associare ai ragazzi dei centri sociali per individuare i nuovi nemici pubblici e i soggetti pericolosi da colpire nei tribunali e da qui invitare i manifestanti “pacifici” a dissociarsi.
Per chi c’era, come sempre, la realtà è più complessa, ma è evidente come rispetto al recente passato ci fosse una partecipazione giovanile molto alta e “nuova”, non convogliata dai canali classici dell’attivismo studentesco, e in cui le presenza di giovani della diaspora si intrecciava a tanti altri posizionamenti di genere, queer e di classe che non hanno una categoria sociologica di riferimento. Un intreccio capace di resistere per circa 5 ore a cariche molto violente delle forze dell’ordine, una pioggia continua di lacrimogeni, e di rispondere con creatività e determinazione con ogni mezzo trovato per strada senza farsi intimorire.
Il movimento sta vivendo di tante pratiche, di manifestazioni oceaniche come quella di Roma del quattro ottobre, di blocchi diffusi e strategici capaci di muoversi con agilità e aggirando di corsa i dispositivi di polizia come accaduto a Torino il tre ottobre, ma quei momenti di rivolta del 22 settembre devono essere pienamente rivendicati e portati alla luce come qualcosa di cui in questo paese avevamo e abbiamo pienamente bisogno, e che sono in maniera non scontata compresi e accettati in larghe fette della popolazione al di là dell’opinione specifica e della disponibilità a parteciparvi o sostenerli (con buona pace dei tentativi giornalistici di descrivere l’isolamento dei violenti nelle piazze). In un mondo che tracima di violenza strutturale ogni giorno nelle vite di tuttx e mentre sappiamo minuto per minuto della violenza genocidaria a Gaza la capacità di autodifesa e rivolta anche in modo violento contro una gestione sconsiderata delle forze dell’ordine diventa plausibile e parte delle pratiche di questo movimento, che dobbiamo difendere dai tentativi di colpire singolx arrestatx e processatx utilizzatx come soggetti esemplari per rieducare chi osa ribellarsi (per averne contezza si vada a leggere le motivazioni del giudice che ha confermato gli arresti domiciliari alle due ragazze minorenni arrestate il 22 settembre a Milano). La rivolta diventa una pratica di giustizia sociale di fronte a istituzioni e forze dell’ordine che difendono l’ingiustificabile, e in cui come recitava uno slogan francese di qualche anno fa “la paura ha cambiato di campo”. E in questo cambio di atmosfera sembra importante tenere aperta questa finestra moltiplicando le occasioni di mobilitazione rispetto a obiettivi che si allargano, come individuare i luoghi, referenti e responsabili concreti del genocidio nel nostro paese e costringere tutti i livelli istituzionali a rompere i rapporti con Israele o altrimenti pretenderne le dimissioni, e avere la capacità di affiancare alle mobilitazioni momenti di incontro, confronto, conoscenza, luoghi e spazi di autorganizzazione di questo movimento dove parlarsi e sostenerne le spinte, dalle università ai luoghi di lavoro ai quartieri: dargli durata, capire cosa gli serve per esistere e per centrare i suoi obiettivi e come darglielo.
Prendiamoci cura di questa rivolta, sosteniamola, aiutiamola a riprodursi, finché ce ne sarà bisogno.
Speranza, disperazione e freno d’emergenza.
Walter Benjamin, filosofo e militante rivoluzionario tedesco ed ebreo del secolo scorso, morto suicida nella “mezzanotte del secolo” della seconda guerra mondiale, del nazismo e della Shoah, apriva una possibilità particolare alla speranza che può parlare anche a noi in questo momento e forse parla di questi giorni tumultuosi. La speranza nell’elaborazione di Benjamin non è più un sentimento connesso all’orizzonte garantito del processo storico destinato al progressivo raggiungimento del socialismo, il Sol dell’avvenir che sicuramente sorgerà alla fine semplicemente da attendere passivamente con pazienza, ma diventa una frattura, una azione attiva nel qui e ora per cambiare la storia. E cambiare la storia nell’accezione di Benjamin è vendicare i vinti del passato agendo tra le rovine e le tempeste da cui siamo circondati nel presente, riscattare i morti dall’oblio e liberarci con loro nel fermare il precipitarci verso la catastrofe, che è già ovunque.
Il freno d’emergenza per lui è la rivoluzione, e non è il caso oggi di evocare parole e categorie a sproposito facendole diventare feticci farseschi. Ma resta questa sua frase che potremo fare nostra: “c’è data la speranza solo per chi è senza speranza”.
Teniamo accesa questa speranza disperata, per gli uomini, le donne e i bambini palestinesi che resistono e lottano per la loro vita e la loro terra, per noi stessx e le violenze che subiamo e le disperazioni che portiamo, in cui possiamo connetterci da tutti gli angoli del mediterraneo per condividere le lacrime e le urla, di dolore e di rabbia, per fermare davvero il genocidio e il suo mondo e diffondere la potenza di questo movimento e renderlo il tempo permanente di questo presente. E sapere che alla rabbia e al dolore, dentro e oltre alla rivolta, potremo davvero tornare a gioire insieme, in tutto il mondo.
E’ possibile, lo stiamo facendo in questo momento. Continuiamo a farlo, non fermiamoci.
Dario Firenze
* foto in copertina di Lorenzo Uboldi
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