Lo sbirro messicano all’Expo di Milano

“Il NoExpo è come il vino: invecchiando migliora”
(cit. Abo al bancone di Piano Terra durante una festa delle lavoratrici e lavoratori Feltrinelli)

Poteva essere domenica 3 maggio, o forse qualche giorno dopo.
Sono a bermi una sciocchezzuola serale in Chinatown con il N.. Tempo uggioso su Milano. Siamo ormai degli habitué delle bevute in Sarpi e dintorni. Avendo entrambi un po’ più che bazzicato al Bulk di Niccolini, nel giro di un quindicennio abbiamo assistito all’evoluzione del quartiere. Dall’ancestrale ma fascinoso squallore dei primi Duemila, ora la zona si è profondamente trasformata, “ripulita”. Gentrificata si direbbe oggi. Però il clima è rilassato e si può ancora gozzovigliare in santa pace. In meno di cinque anni l’intera via sarebbe diventata impraticabile da orario aperitivo a tarda serata, con un proliferare e un ricambio inarrestabile di locali e un affollamento pari a quello della metropolitana di Tokyo all’ora di punta.
A una certa ci raggiungono C., la V. e la C.
Il tema di discussione vira subito, ovviamente, verso i deliri del corteo NoExpo di due giorni prima. Ma tutti rimaniamo consapevolmente sulle generali, prendendo i discorsi alla larga e restando in superficie. Nessuna voglia di approfondite analisi politiche. Si resta sull’aneddotica buttandola un po’ in caciara in stile Processo di Biscardi, con la consapevolezza che il tempo delle discussioni, anche laceranti, inizierà a breve, anzi a brevissimo.

“Ma perché cazzo non siete andati verso Expo!?” mi ero sentito ripetere da colleghi e colleghe solidali, ma perplessi, al primo giorno di ritorno al lavoro dopo quel fatidico Primo Maggio. Imbarazzato, mi ero appellato alle difficoltà assembleari e a bieche questioni di tecniche meritando di vincere l’oro olimpico in arrampicata acrobatica sugli specchi. Nient’altro, comunque, che patetiche foglie di fico per nascondere la risposta a una domanda del tutto naturale e a cui non sapevo né potevo rispondere.

A una certa ci spostiamo da un locale “pettinato”, di quelli belli, nuovi e stilisticamente identici che tu sia a Milano, a Seoul o a New York, a un più ruspaste “bar di quartiere”; anzi al bar del quartiere, come lo definisce il N.: vale a dire, un locale assai poco ricercato e molto ruspante, solitamente frequentato da una folla di autoctoni spesso con fedine penali discutibili.

Qui, tra una cazzata e l’altra, inizio a pensare che il movimento milanese, abituato a viaggiare a una velocità di sicurezza tra i 50 e i 150 chilometri all’ora (magari con qualche sparotto senza conseguenze catastrofiche), in una giornata era stato portato a una velocità di 300 e, come un motociclista ancora inesperto, si è ovviamente impastato contro il guardrail della prima curva complicata. In quel momento è ancora difficile quantificare i danni, ma tutti sappiamo che saranno elevati. Mentre bevo l’ennesima birra accompagnata da discutibilissimi popcorn vecchi di qualche settimana, rumino sul fatto che già mesi prima avevo cercato di sostenere, non essendo più da molto tempo un cultore dell’unità a tutti i costi, la necessità di dividere le piazze invece che fare un corteo unitario. Piazze diverse, con stili diversi e piattaforme diverse, ma un comune obiettivo: opporsi a Expo. Come a Genova nel 2001, ma anche  a Francoforte qualche mese prima. Io di piazze me ne ero immaginate addirittura tre! Due più muscolari e una più festaiola. Ma è inutile attardarsi sul “ve l’avevo detto” da vecchio destro rompicoglioni, un atteggiamento che in politica, per una lista sconfinata di motivi, è uno dei peggiori, poiché non produce nessun avanzamento utile, ma spesso e volentieri solo danni. Quello che serve è spremersi le meningi e mettere in moto i neuroni per rispondere alla  domanda che, in tempi non sospetti, si pose Lenin e che resta buona per tutte le stagioni: “Che fare?”. Se avessi una risposta brillante, la terrei in serbo come una cartuccia calibro 12 in canna del Remington in attesa delle infuocate assemblee che si prospettano da qui a breve.

Via via che il grado alcolico della serata aumenta, gli aneddoti sul pomeriggio del Primo Maggio si fanno più stuzzicanti. Inutile dire che la sede dell’Unione Europea in corso Magenta non l’abbiamo neppure vista in cartolina, visto che la Polizia ha pensato bene di gasarci completamente a centinaia di metri di distanza manco fossimo nelle trincee di Ypres nel 1916. E dire che la giustezza di quell’obiettivo sarebbe emersa con prepotenza appena qualche settimana dopo con la Grecia di Tsipras e Varoufakis messa in ginocchio e umiliata dall’Europa su volontà degli ottusi e arroganti tedeschi e per l’ignavia dei vari Renzi e Hollande. Una vergogna che ancora grida vendetta alla faccia dei nostri ipocriti commentatori che si indignano per come Trump e Vance hanno trattato Zelensky a Washington e dimenticano, in malafede, quell’episodio altrettanto ignobile, ma reso meno clamoroso dal fatto di essere avvenuto a porte chiuse. Con quella scelta sciagurata l’Europa ordoliberista e idiota si giocò la penultima (l’ultima fu nei mesi della pandemia) occasione di uscita “a sinistra” dalla crisi, aprendo autostrade al ciclo reazionario che ora viviamo.
Se si pensa alla ferocia con cui è stata trattata la Grecia per pochissimi soldi e la nonchalanche con cui è stato votato il Rearm Europe coi suoi 800 miliardi – ottocentomiliardi – di spese per le armi c’è da rimanere sconvolti!

Mentre la discussione si sposta sul Pagellone NoExpo, vero capolavoro poetico-politico capace di raggiungere vette di lirismo e satira mai più raggiunte, un personaggio, seduto solitario al tavolo di fianco al nostro e già pieno di diverse bottiglie di birra che giacciono vuote tenta di attaccar bottone in uno spanglish biascicato e sputacchiante.
Il tipo si svela essere un poliziotto messicano aggregato alla delegazione del suo Paese, giunta in Italia per l’Esposizione Universale, pur non mostrando nessuna delle caratteristiche stereotipate che noi italiani abituati alle serie Netflix attribuiamo loro tipo baffetto, capelli corvini o faccia patibolare. Ebbene, costui ci tiene a raccontarci che due giorni prima ha seguito il corteo in posizione “di sicurezza” dietro al reparto che ha sospinto i manifestanti fino a Pagano e oltre. Che lui, a quei rossi di merda, avrebbe fatto quello che loro sono abituati a fare al loro Paese. A quel punto, con sguardo ebete e risatine, inizia ad addentrarsi in alcuni particolari raccapriccianti sui metodi di sevizia della polizia messicana. Noi non ridiamo. Anzi. Volti scuri e tirati. Con la coda dell’occhio mi sembra di intravedere il N. che giocherella con il bicchiere di birra pronto a spaccarlo in faccia alla merda. Il tipo, che evidentemente è ubriaco, ma non stupido, sembra fiutare l’aria che si è fatta improvvisamente glaciale e cambia argomento regalandoci due battute finali sul Chapo Guzman che è sì un bastardo, ma con un cervello e due coglioni così. Poi, d’improvviso, con fatica, si alza dalla sedia e senza salutare, barcollante, si allontana nell’oscurità verso via Canonica.
Credo che, osservando con disprezzo la sua sagoma arrancante e malcerta sulle gambe, in ognuno di noi si sia fatta largo l’intuizione, poi diventata consapevolezza, che quel Primo Maggio 2015 sanciva la fine di un certo modo di fare movimento che molti/e di noi avevano conosciuto e animato. Una fase si chiudeva. Definitivamente. Ma altro sangue vivo di lotta avrebbe continuato a percorrere le arterie della metropoli.

Le vicende narrate sono di pura fantasia.
O forse no.

Matteo Colò

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